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Pubbl. Mar, 8 Ago 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

Le misure coercitive civili del facere

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Irene Coppola


La tutela del creditore e del bene giuridico leso o distrutto diventa sempre più difficile attraverso il meccanismo processuale ordinario. Questo scritto mette in evidenza la difficoltà di far eseguire al debitore gli obblighi di fare e di non fare.


Sommario: 1. Premessa. – 2. L’ambito di applicazione. – 3. Il titolo esecutivo. – 4. I soggetti. – 5. Il procedimento. – 6. La misura coercitiva indiretta: l’astreinte.  7.- Osservazioni  conclusive.

1.  Premessa

Sempre di più si assiste al ricorso all'esecuzione coattiva per spingere il debitore ad osservare i suoi obblighi ed a rispettare gli impegni assunti nei confronti del creditore.

L'esecuzione, difatti, costituisce il profilo più delicato del processo civile.

La tutela esecutiva serve a garantire la concreta realizzazione dell’interesse del titolare del diritto, ovvero il conseguimento, in via coattiva, del bene giuridico riconosciutogli dal diritto sostanziale e contenuto nel titolo esecutivo, facendo, dunque, a meno della collaborazione del soggetto obbligato.

All’interno della tutela esecutiva è possibile distinguere l’espropriazione forzata, che serve a realizzare un diritto che ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, e l’esecuzione in forma specifica, distinta, a seconda dell’oggetto, in esecuzione per consegna e rilascio di beni mobili ed immobili ed in esecuzione di obblighi di fare o non fare.

Nell’espropriazione forzata oggetto del processo non è il bene oggetto dell’obbligo inadempiuto, ma i beni appartenenti al patrimonio del debitore, in virtù del principio di responsabilità patrimoniale sancito nell’art. 2740 c.c. in base al quale il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, ergo con tutto il suo patrimonio; nell’esecuzione in forma specifica, invece, oggetto del processo esecutivo è direttamente il bene oggetto dell’obbligo inadempiuto.

L’esecuzione forzata implica un’attività di tipo sostitutivo e surrogatorio rispetto a quella del debitore, sicché il suo limite è dato dagli obblighi che non ammettono una siffatta sostituzione da parte di un terzo, trattandosi di obblighi c.d. infungibili, per i quali è essenziale ed irrinunciabile la cooperazione dell’obbligato[1].

In tali casi l’unica possibilità è quella di utilizzare mezzi di coazione indiretta, le c.d. misure coercitive indirette, volti ad incentivare l’adempimento spontaneo dell’obbligo mediante la minaccia di un male maggiore che dovrà colpire l’obbligato nel caso in cui perduri l’inadempimento.

Si tratta di misure volte ad attuare una forma di pressione psicologica sull’obbligato per vincerne la resistenza al rispetto del provvedimento ed, al contempo, a determinare una forma di dissuasione dalla violazione del medesimo, postulando un implicito ordine a non agire in modo difforme da quanto prescritto.

2. L’ambito di applicazione

L’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è il secondo tipo di esecuzione in forma specifica prevista nel nostro ordinamento ed è disciplinata nel libro III, al titolo IV, dagli artt. 612 e ss. c.p.c.

Con questa forma di esecuzione si realizzano gli obblighi positivi di fare oppure quelli, originariamente negativi, consistenti nel divieto di fare, ma che, a seguito della violazione di questo divieto, sono divenuti anch’essi positivi, in quanto trasformati nell’obbligo di eliminare ciò che è stato fatto in violazione dell’originario obbligo di non fare[2].

Il fondamento di diritto sostanziale di questo procedimento esecutivo si rinviene nell'art. 2931 c.c., secondo cui “se non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile” e nell'art. 2933 c.c., secondo cui “se non è adempiuto un obbligo di non fare, l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo”.

Tali norme si differenziano da quanto era previsto in precedenza dagli artt. 1220 e 1222 del codice civile previgente; in epoca antecedente, infatti, il giudice poteva autorizzare il creditore a compiere, a spese del debitore riconosciuto inadempiente, ciò che questi si era obbligato a fare, oppure a distruggere ciò che aveva fatto abusivamente.

In altri termini era lo stesso creditore a poter agire per soddisfare la propria pretesa.

Il creditore godeva di una posizione di esecuzione diretta.

Oggi, invece, il giudice che emette una sentenza di condanna di una parte all’adempimento di un obbligo di fare o di non fare non può autorizzare il titolare del correlativo diritto a provvedere egli stesso e direttamente all’esecuzione di tale obbligo a spese della controparte in caso di inadempimento dell’obbligato, dovendo, piuttosto, l’esecuzione dei detti obblighi essere attuata secondo le regole previste dal codice di procedura civile, che vietano l’autotutela del creditore, demandando in via esclusiva al giudice dell’esecuzione la fissazione delle modalità dell’esecuzione[3].

Per quanto concerne le situazioni sostanziali tutelabili, la dottrina e la giurisprudenza dominante ritengono che, con l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, si possono tutelare sia diritti assoluti che diritti relativi[4]. I limiti all’azionabilità di questa forma di esecuzione non si rinvengono nella natura dell’obbligo rimasto ineseguito, ma nelle caratteristiche della prestazione dovuta, dovendosi trattare di una prestazione fungibile o surrogabile, nel senso che possa essere eseguita indifferentemente da un terzo o dal debitore con identica soddisfazione per il creditore.

Sono considerate infungibili sia le obbligazioni assunte intuitu personae, sia quelle che possono essere adempiute dal solo obbligato che si trovi in una situazione di monopolio di fatto o di diritto.

Per quanto riguarda il tipo di attività surrogabile e, dunque, in ordine al contenuto dell’obbligo di fare, si deve trattare di un’opera da costruire o da distruggere o, più in generale, della modificazione materiale della realtà concreta, per cui consiste sempre in un facere, vale a dire in una condotta positiva, sia che l’obbligo abbia un contenuto positivo che negativo[5]. Si esclude, invece, che possa trattarsi di un effetto giuridico conseguente ad una certa attività dell’obbligato, come nel caso del costruttore che, avendo venduto un immobile, si obblighi ad ottenere la licenza di abitabilità[6].

La condotta del trasgressore deve consistere in un quid novi suscettibile di essere posto nel nulla: solo in tal caso, infatti, l’intervento del giudice può determinare il ripristino della situazione preesistente alterata dal soggetto che era tenuto ad astenersi da qualsiasi modificazione.

L’infungibilità non è solo materiale, in quanto essa può essere anche giuridica: è possibile, infatti, che vi siano prestazioni materialmente fungibili, ma infungibili giuridicamente. Si ritiene non  suscettibile di esecuzione diretta il facere consistente in un’attività negoziale ed, in generale, nel compimento di atti giuridici, dato che gli organi esecutivi non potrebbero sostituirsi all’obbligato nel compimento di attività giuridiche volte a modificare la sfera giuridica dell’obbligato stesso a favore dell’avente diritto.

Costituisce orientamento consolidato quello secondo cui il rimedio di cui all’art. 2931 c.c. non sia utilizzabile per la surroga di attività negoziali che concorrono al perfezionamento di fattispecie costitutive e, in generale, di atti giuridici ovvero di prestazioni di terzi estranei al rapporto controverso[7]

Si discute, invece, in dottrina, se l’obbligo di concludere il contratto definitivo ex art. 2932 c.c. sia un obbligo fungibile oppure no. Secondo alcuni si tratta di una prestazione fungibile perché  suscettibile di essere direttamente attuata tramite il provvedimento del giudice; secondo altri invece no, dato che la prestazione del consenso negoziale consiste in un facere infungibile[8].

Va altresì precisato che per ricorrere a questa particolare forma di esecuzione non basta però che l’obbligazione sia fungibile. E’ infatti possibile utilizzare questo tipo di esecuzione in forma specifica solo se l’utilità che il creditore intende conseguire non possa essere ottenuta tramite l’esercizio dei suoi poteri sostanziali, vale a dire compiendo egli stesso l’attività, non essendo dunque necessario invadere la sfera giuridica del debitore  per superare le resistenze opposte da quest’ultimo[9]. In altre parole, è necessario che la prestazione da attuare debba essere compiuta nella sfera giuridica del debitore e non in quella del creditore, come accade ad esempio quando l’attività del debitore ha come punto di riferimento un bene che è nel possesso del creditore. In tal caso, il creditore potrà senz’altro compiere egli stesso quelle attività, eventualmente delegandole ad un terzo, e chiedere poi all’obbligato di pagare le spese.

L’intervento degli organi esecutivi sarà necessario solo se l’attività materiale del debitore debba avvenire nella sua  sfera giuridica[10]. Ne discende che, mentre il conduttore può far eseguire le riparazioni spettanti al locatore sul bene a lui concesso in locazione senza dover ricorrere all’esecuzione in forma specifica, al contrario, il locatore che deve far riparare il bene locato, di fronte alle resistenze del conduttore, dovrà adire l’ufficio esecutivo per vincere gli ostacoli da questi opposti.

Un ulteriore limite alla possibilità di ricorrere alla tutela esecutiva in forma specifica per obblighi di fare e non fare, lo si rinviene nella disposizione normativa del secondo comma dell’art. 2933 c.c. secondo cui “non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale”.

Si tratta, dunque, di un limite che non è imposto da necessità naturali, ma piuttosto da una valutazione di carattere politico-legislativo. Tale limite, in verità, più che la fase esecutiva, tocca la possibilità per il giudice della cognizione di emanare il provvedimento di condanna alla rimozione dell’opera[11].

La giurisprudenza è intervenuta per dare ai giudici dei criteri da seguire nella valutazione discrezionale ed ha adottato una interpretazione restrittiva della norma in questione, precisando che la limitazione in essa contenuta riguarda solo le fonti di produzione e di distruzione delle ricchezze del paese e non trova riscontro in casi di demolizione parziale o totale di un edificio; si riferisce, dunque, solo alle cose insostituibili ovvero di eccezionale importanza per l’economia nazionale[12]. Nel caso in cui non sia, quindi, possibile attivare la procedura esecutiva di cui agli artt. 612 c.p.c. e seguenti, il giudice non ha altra alternativa che quella di pronunciare la condanna al risarcimento del danno per equivalente[13].

Un breve cenno, infine, va dato agli obblighi di pati, in cui l’obbligato è tenuto a tollerare, a sopportare, l’invasione nella propria sfera giuridica da parte del creditore affinché questi possa compiere una determinata attività.

La giurisprudenza aveva ritenuto che tali obblighi potessero essere realizzati con le forme del procedimento esecutivo di cui agli artt. 612 c.p.c. e seguenti[14]. Tale orientamento è stato successivamente criticato dalla dottrina che ha evidenziato la differenza tra gli obblighi di pati e quelli di fare e di disfare, che, a differenza dei primi, si risolvono comunque in un comportamento positivo.

Si è sottolineato che negli obblighi di pati è differente l’interesse che realizza l’attività del creditore: talvolta, infatti, questo interesse può essere soddisfatto dal risultato dell’attività richiesta dal creditore; si pensi alla costruzione di un acquedotto in relazione ad una servitù oppure all’esecuzione delle opere di rifacimento dei solai e del lastrico solare sovrastante la proprietà altrui; in altri casi, invece, il predetto interesse sarà soddisfatto dallo svolgimento dell’attività stessa: si pensi al diritto di cacciare sul fondo altrui.

Sulla base di questa distinzione, la dottrina ha affermato che, se l’interesse dell’attività è correlato al risultato, la tutela esecutiva specifica può operare, ma essa ha luogo nelle forme dell’esecuzione per consegna o rilascio e non in quella degli obblighi di fare: in tali casi, infatti, il giudice dell’esecuzione non potrebbe far altro che nominare l’ufficiale giudiziario perché provveda a consentire all’esecutante l’accesso nei cespiti di proprietà dell’esecutato.

Di contro, qualora l’interesse del creditore sia correlato all’attività stessa, l’esecuzione in forma specifica non è idonea a soddisfare l’avente diritto, essendo, invece, necessaria l’esecuzione indiretta[15].

3. Il titolo esecutivo

Per poter ricorrere all’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare è necessario essere muniti di un particolare titolo esecutivo.

La norma, infatti, richiede espressamente che il titolo sia dato da una sentenza di condanna.

Tale limitazione si giustifica tenendo conto delle caratteristiche di questa particolare forma di esecuzione: questi obblighi sono coercibili solo in quanto fungibili ed il risarcimento del danno in forma specifica può essere concesso solo se sia possibile e non eccessivamente oneroso, per cui la sentenza di condanna appare l’unica in grado di garantire l’accertamento da parte del giudice avente ad oggetto la fungibilità, la possibilità e la non eccessiva onerosità della prestazione[16].

Va, tuttavia, precisato che la dottrina ha optato per un’interpretazione estensiva dell’art. 612 c.p.c., ritenendo che l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare e non fare possa essere azionata sulla base di qualsiasi provvedimento giudiziale a contenuto condannatorio, anche non avente la forma di sentenza[17].

Sarà, infatti, titolo idoneo a fondare l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare anche l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione, a cui lo stesso art. 702-ter c.p.c. riconosce efficacia esecutiva.

Altro titolo idoneo è il verbale di conciliazione giudiziale, esso, infatti, a norma dell’art. 474, comma 2, n. 1, c.p.c., rientra tra “gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva”; la modifica apportata dal legislatore del 2005 alla norma in questione ha finalmente permesso di abbandonare la tesi di chi non riconosceva tale idoneità al detto verbale. Sia in dottrina che in giurisprudenza, infatti, vi era chi, sulla base della lettera dell’art. 612 c.p.c. (che faceva riferimento quale titolo idoneo alle sole sentenze di condanna), riteneva che il verbale di conciliazione, pur essendo idoneo ai sensi dell’art. 185 c.p.c. all’esecuzione per le obbligazioni pecuniarie, nonché per l’esecuzione per consegna e rilascio, non legittimasse invece l’esecuzione per obblighi di fare e non fare[18]. I dubbi circa l’idoneità o meno del verbale di conciliazione erano aumentati in seguito alla pronuncia della Corte costituzionale che, pur avendo rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 c.p.c., nella parte in cui non prevedeva tra i titoli esecutivi idonei a fondare l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare il verbale di conciliazione, osservava che l’art. 612 poteva essere letto nel senso di consentire il procedimento di esecuzione dallo stesso disciplinato, anche se il titolo esecutivo era costituito dal predetto verbale. Assumere il contrario, infatti, avrebbe comportato la negazione del valore di accelerazione della definizione della controversia, che costituisce la principale caratteristica della conciliazione e comporterebbe un irragionevole seppur parziale sacrificio del diritto di difesa, nonché una protrazione altrettanto irragionevole dei tempi del processo[19].

Lo stesso legislatore, inoltre, prima della modifica dell’art. 474, comma 2, n. 1, c.p.c., aveva sancito l’idoneità del verbale di conciliazione quale titolo esecutivo per l’esecuzione in forma specifica in ambiti specifici: si pensi all’art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003, il quale, in materia di liti societarie, prevedeva che il verbale di conciliazione giudiziale costituiva titolo esecutivo anche per l’esecuzione degli obblighi di consegna o rilascio e di fare o non fare.

Discorso a parte merita il verbale di conciliazione ottenuto all’esito di un procedimento di mediazione previsto dal d.lgs. n. 28 del 2010; tale normativa prevede espressamente all’art. 12 che il verbale, all’esito dell’omologa del presidente del tribunale, costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Altro dubbio riguarda, poi, gli atti ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli; un dubbio esiste se tali atti permettano l’instaurazione dell’esecuzione diretta ex art. 612 c.p.c.

Con la modifica apportata all’art. 474 c.p.c. per questi atti è venuta meno la limitazione iniziale che consentiva di procedere sulla base dei predetti atti alla sola esecuzione di obbligazioni avente ad oggetto il pagamento di somme di denaro. Ciò ha spinto la dottrina a chiedersi se il venir meno di questa limitazione avesse anche consentito di poterli ritenere idonei a fondare l’esecuzione per gli obblighi di fare o non fare. Tuttavia, la lettera della legge sembra escludere un’interpretazione estensiva, dato che l’art. 474, comma 3, c.p.c. come modificato, attribuisce al possessore dell’atto pubblico la facoltà di procedere unicamente all’esecuzione forzata per consegna o rilascio, senza fare menzione dell’esecuzione degli obblighi di fare e non fare[20].

Appare, però, alquanto criticabile tale scelta: basta notare che l’intento del legislatore di consentire l’esecuzione per consegna o rilascio anche sulla base di un atto stragiudiziale quale il titolo notarile aveva lo scopo di  velocizzare i tempi  necessari per la realizzazione delle ragioni creditorie, per cui ben potrebbero gli atti pubblici, così come è avvenuto per il verbale di conciliazione, essere inseriti tra i titoli idonei a dar luogo all’esecuzione degli obblighi di fare. La soluzione opposta contrasta, infatti, con il principio di economia processuale, dato che costringe il creditore ad instaurare un processo di cognizione al solo scopo di ottenere un titolo esecutivo identico a quello di origine notarile in suo possesso[21].

4. I soggetti

L’esecuzione è diretta nei confronti di colui che risulta essere obbligato in base alle risultanze del titolo, ovvero del suo successore a titolo universale o particolare; allo stesso modo, è legittimato ad agire in via esecutiva chi risulta essere creditore dal titolo ed il suo successore.

Le norme del codice di rito ammettono, infatti, l’azionabilità del titolo da e contro il successore a titolo universale e particolare[22]. Pertanto, il successore non solo può ottenere la spedizione in forma esecutiva per iniziare l’esecuzione del titolo, ma può anche proseguire l’esecuzione già iniziata dal suo dante causa. Lo stesso può dirsi per il debitore che abbia trasferito a terzi la proprietà del bene oggetto dell’esecuzione: in tale ipotesi il creditore ben potrà agire nei confronti del terzo acquirente ovvero avente causa del debitore esecutato. Anche nel caso in cui la successione a titolo particolare avvenga dopo la conclusione della fase cognitiva, il suo verificarsi renderà il successore a titolo particolare successore non solo nei diritti in cui è subentrato, ma anche negli obblighi che ad essi sono connessi.

L’unico soggetto che può spontaneamente adempiere è il possessore o detentore del bene sul quale gli ausiliari del giudice devono operare, anche laddove costui non risulti titolare dell’obbligo.

Il soggetto passivo dell’esecuzione degli obblighi di fare e non fare deve essere individuato sulla base degli effetti concreti che produrrà l’esecuzione; legittimato passivo deve ritenersi chi sia il concreto destinatario della pretesa esecutiva, a prescindere dalla circostanza che tale qualifica risulti dal titolo esecutivo o dal precetto[23]. Il titolo esecutivo ed il precetto vanno, infatti, notificati a chi esercita sul bene il potere di fatto, nonché al proprietario se è soggetto diverso dal procedente o dall’esecutato.

Il terzo, nonostante la sua estraneità formale, non risultando dagli atti quale soggetto esecutato, deve considerarsi l’effettivo soggetto passivo dell’esecuzione, dato che solo lui, trovandosi nel possesso o nella detenzione del bene, è in grado di permettere l’attuazione coattiva dell’obbligo e soddisfare la pretesa esecutiva del creditore.

Ai fini, quindi, dell’individuazione del soggetto passivo dell’esecuzione ciò che importa è che costui sia stato destinatario degli atti esecutivi.

5. Il procedimento

Per procedere, dunque, all’esecuzione in forma specifica e,  nello specifico,  quella degli obblighi di fare e non fare, occorre notificare il titolo esecutivo ed il precetto al soggetto obbligato. Anche se la norma non lo prevede espressamente si ritiene che il creditore debba specificare nell’atto di precetto l’obbligo di fare o non fare rimasto inadempiuto, così come può anche chiedere con il medesimo atto il pagamento delle spese sostenute per la redazione dell’atto in questione[24].

Dopo aver notificato il titolo esecutivo ed il precetto, il creditore procedente ha l’onere di instaurare il procedimento esecutivo depositando il ricorso presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione competente, ovvero ex art. 26 c.p.c. del Tribunale del luogo ove deve essere adempiuto l’obbligo.

 Il ricorso deve contenere la prestazione indicata nel titolo e rimasta inadempiuta e la richiesta della determinazione delle modalità con cui occorrerà procedere all’attuazione dell’obbligo. Con la presentazione del ricorso inizia, dunque, il processo esecutivo; anche se in passato alcuni individuavano il momento iniziale dell'esecuzione nel provvedimento con il quale il giudice dispone la comparizione delle parti[25].

L’individuazione del momento in cui inizia l’esecuzione rileva per diversi aspetti: per evitare che il precetto perda efficacia, l’esecuzione deve essere iniziata entro il termine di decadenza di novanta giorni previsto dall’art. 481 c.p.c. che decorrono dalla notificazione del precetto, per cui entro tale termine occorre che il ricorso sia depositato; ancora, solo dopo il deposito del ricorso, che segna l’inizio dell’esecuzione, sarà possibile per il debitore proporre le opposizioni esecutive[26].

Terminata la fase preliminare, in seguito al deposito del ricorso ha inizio l'esecuzione: a questo punto il cancelliere ha l'onere di formare il fascicolo d'ufficio; compiuta tale formalità, il Presidente del Tribunale provvede alla nomina del giudice assegnatario della controversia. Il giudice dell'esecuzione, esaminato il ricorso, dispone l'audizione delle parti, fissando con decreto l'udienza di comparizione, per consentire la realizzazione del contraddittorio, dando termine al creditore per provvedere alla sua notificazione.

Se all'udienza nessuna delle parti compare, troverà applicazione la disciplina dell'art. 631 c.p.c.; in caso contrario, il giudice dell'esecuzione provvederà con ordinanza a dettare le modalità dell'esecuzione, designando l'ufficiale giudiziario che deve supervisionare le operazioni ed indicando le persone che devono provvedere a realizzare l'opera non eseguita o a distruggere quella già posta in essere in violazione dell'obbligo di non fare. Tutto ciò diventa necessario perché, come già anticipato in precedenza, il giudice che emette una sentenza di condanna di una parte all'adempimento di un obbligo di fare o di non fare non ha il potere di autorizzare il titolare del correlativo diritto a provvedere egli stesso e direttamente all'esecuzione di tale obbligo a spese dell'obbligato.

Va, altresì, precisato che nella maggior parte dei casi le indicazioni del giudice dell'esecuzione sono sempre di massima: occorre, infatti, che venga nominato un consulente a cui può anche essere demandato il conferimento dell'incarico di indicare i soggetti tenuti alla realizzazione materiale dell'opera.

L'ordinanza emanata che determina le modalità di esecuzione è revocabile e modificabile, fino a quando non ha avuto esecuzione, dallo stesso giudice che l'ha emanata ed impugnabile con l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. Tuttavia, per comprendere appieno la natura di questa ordinanza occorre analizzare i suoi rapporti con il titolo esecutivo.

Il giudice dell'esecuzione, nel dare le indicazioni necessarie per l'attuazione dell'obbligo, è tenuto ad interpretare il titolo esecutivo: nell'attività ermeneutica della sentenza deve individuarne la portata precettiva sulla base del dispositivo e delle considerazioni enunciate nella motivazione. Certo è che il titolo esecutivo deve contenere una indicazione, seppur generica, della prestazione da adempiere, che deve essere comunque determinata o almeno determinabile.

La mancata indicazione specifica nel titolo esecutivo delle singole opere da eseguire non si traduce in un difetto di certezza e di liquidità del diritto riconosciuto dalla sentenza se dalla lettura complessiva di quest'ultima le opere risultino comunque identificate[27].

Fino a che punto l'ordinanza possa supplire all'eventuale difetto di concretezza nell'accertamento della sanzione contenuto nella condanna, è un profilo che suscita non poche riflessioni, dovendosi negare decisamente qualsiasi fungibilità tra la sentenza di condanna e l'ordinanza emanata dal giudice dell’esecuzione.

Le funzioni dei due provvedimenti sono, infatti, differenti: la prima deve accertare la situazione giuridica sostanziale che deve essere attuata materialmente, mentre la seconda ha il compito di fissare le modalità con cui dovrà essere concretamente realizzata quella situazione; può, dunque, ritenersi che tra le due sussista un rapporto di complementarità[28].

L'obbligo di fare non può mai essere del tutto cristallizzato nella sentenza di condanna, necessitando piuttosto di ulteriori specificazioni per la sua concreta attuazione, ciò al fine di rapportare il comando contenuto nella sentenza alla realtà di fatto. La natura atipica dell'obbligazione di fare non consente, infatti, al giudice dell'esecuzione di prevedere e conseguentemente fissare tutte quelle concrete modalità necessarie per l'esecuzione dell'obbligo, modalità la cui necessità od opportunità potrà essere rilevata solo al momento in cui la costruzione o la distruzione dell'opera individuata nel titolo esecutivo dovrà essere materialmente effettuata. Da ciò ne discende che il giudice dell'esecuzione deve prima di tutto interpretare il titolo esecutivo per stabilire se esso contenga o meno una sufficiente individuazione delle modalità concrete dell'esecuzione; nel caso in cui esso manchi degli elementi sufficienti per consentire la materiale attuazione del comando contenuto nella sentenza il giudice dovrà procedere alla sua integrazione a mezzo dell'ordinanza ex art. 612 c.p.c.

Al riguardo, la giurisprudenza ha operato una distinzione tra i casi in cui la condanna ha ad oggetto l'obbligo di fare un quid novi e quelli in cui invece si dispone il ripristino della situazione preesistente, prevedendo che mentre nel primo caso il giudice della cognizione deve precisare tutte le modalità necessarie per l'attuazione dell'obbligo di fare, nell'altro, invece, ciò non sia necessario, potendo l'ordine di ripristino trovare un valido modello di riferimento nella situazione preesistente[29].

Allo stato attuale la giurisprudenza ha riconosciuto in capo al giudice dell'esecuzione il potere di interpretare e di integrare il titolo esecutivo[30]; ciò comporta come diretta conseguenza la necessità di individuare in quali casi l'ordinanza emanata ai sensi dell'art. 612 c.p.c. perde la sua natura esecutiva per acquistare quella di provvedimento decisorio, come tale appellabile;  quando l'ufficio esecutivo si limita a designare gli organi minori della procedura ed a determinare le modalità dell'esecuzione del titolo esecutivo, il relativo provvedimento dovrà essere adottato con la forma dell'ordinanza e come tale revocabile dallo stesso giudice ex art. 487 c.p.c. ed impugnabile mediante l'opposizione agli atti esecutivi.

Al contrario, il provvedimento emesso in sede di determinazione delle modalità pratiche del fare perde la sua natura esecutiva ed assume natura di sentenza, come tale impugnabile con l'appello, quando il giudice dell'esecuzione con tale provvedimento determini modalità di esecuzione contrastanti con il tenore del titolo o decida su questioni attinenti alla portata sostanziale dello stesso, o ancora si pronunci sulla conformità o meno della pretesa esecutiva rispetto al titolo[31].

Se nel corso dell’esecuzione dovessero sorgere delle difficoltà, l’art. 613 c.p.c. prevede che in tal caso l’ufficiale giudiziario debba rivolgersi al giudice dell’esecuzione affinché questi possa emettere i provvedimenti più opportuni per provvedere alla loro risoluzione.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che le difficoltà in esame siano sia quelle di carattere tecnico che quelle di ordine materiale e pratico, che non comportino questioni che devono essere fatte valere con i rimedi delle opposizioni esecutive[32]. La stretta affinità tra l’art. 613 e l’art. 610 c.p.c. sembra, tuttavia, imporre la considerazione che il concetto di difficoltà debba essere interpretato alla luce della disposizione prevista per l’esecuzione per consegna o rilascio e che, più in generale, ogni questione  relativa all'interpretazione dell’art. 613 possa essere risolta alla luce dell’art. 610 c.p.c.[33].

Un primo dubbio riguarda la legittimazione ad adire il giudice per l’eliminazione delle difficoltà insorte. Nonostante la norma faccia riferimento al solo ufficiale giudiziario, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che anche le parti sono legittimate a rivolgersi al giudice dell’esecuzione e ciò proprio facendo leva sull’art. 610 c.p.c. che attribuisce ad esse la legittimazione ad adire il giudice dell’esecuzione[34]

La norma nulla dispone, inoltre, circa la forma dell’istanza da proporre al giudice dell’esecuzione, ciò perché prevedendo l’art. 613 c.p.c. la sola legittimazione dell’ufficiale giudiziario quest’ultimo di solito rivolge la sua istanza al giudice in forma orale.

Qualora sia una delle parti a rivolgersi al giudice dell’esecuzione per l’eliminazione delle difficoltà insorte nel corso del procedimento, si ritiene che la forma della domanda sia quella del ricorso da depositarsi in cancelleria. Per quanto concerne il procedimento, la norma dispone che il giudice provvede con decreto, per cui il giudice può legittimamente decidere senza disporre l’audizione delle parti. Ciò tuttavia, è sempre possibile applicando l’art. 485 c.p.c.: laddove lo ritenga opportuno, il giudice, infatti, può convocare le parti per ascoltarle ed in tal caso provvederà con ordinanza.

Sia il decreto che l’ordinanza sono revocabili e modificabili dal giudice fino a che non abbiano avuto esecuzione ed impugnabili con l’opposizione agli atti esecutivi, non sono, invece, ricorribili in Cassazione con ricorso straordinario ex art. 111 Cost.[35].

6.  La misura coercitiva indiretta: l’astreinte

Come già accennato in precedenza l‘esecuzione forzata incontra un limite naturale nell’infungibilità della prestazione che deve essere eseguita; l’unico strumento utilizzabile in questi casi è l’esecuzione indiretta ovvero il ricorso alle misure coercitive indirette. L’esecuzione indiretta mira a realizzare la soddisfazione della pretesa ed il diritto spingendo l’obbligato all’adempimento prospettandogli un male maggiore come conseguenza dell’inadempimento. Serve, dunque, a dissuadere l’obbligato dal perdurare nell’inadempimento.

Nel nostro ordinamento non era prevista una misura coercitiva a carattere generale, così il legislatore del 2009 con la legge n. 69 ha introdotto l’art. 614-bis nel codice di rito[36]. La misura coercitiva, sulle orme del modello francese delle c.d. astreintes, è una misura a carattere pecuniario: essa consiste nel pagamento di una determinata somma di denaro in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento.

Essa svolge una funzione coercitiva e non risarcitoria, è accessoria ad un provvedimento di condanna[37] ad un fare infungibile ed è volta ad incentivare l’adempimento spontaneo immediato ed a scoraggiare il proseguire dell’inobbedienza attraverso la prospettazione all’obbligato di una possibile e crescente diminuzione del suo patrimonio in caso di un inadempimento protratto nel tempo.

La misura è diretta a vincere la resistenza del debitore recalcitrante, inducendolo ad adempiere alla propria obbligazione, e non a riparare il pregiudizio subito dal creditore in conseguenza del suo inadempimento.

Il suo scopo è quello di sanzionare la disobbedienza ad un ordine del giudice, è una pena e non un risarcimento: è definita, infatti, una penalità di mora. Si tratta di una misura generale, ma non di generalizzata applicabilità, potendo essere comminata solo in seguito ad un provvedimento di condanna ad un fare infungibile, ovvero solo a tutela di quelle posizioni soggettive creditorie aventi ad oggetto obblighi incoercibili e, quindi, insuscettibili di esecuzione attraverso modalità surrogatorie della prestazione del debitore. Si esclude, dunque, che possa essere comminata in presenza di un provvedimento di condanna ad un fare fungibile[38].  

L’emanazione della misura è subordinata alla formulazione di un’espressa istanza di parte, non è ammissibile che venga pronunciata d’ufficio, a differenza di quanto previsto nel modello francese. La disposizione, tuttavia, nulla prevede in ordine alle modalità di proposizione ed al suo contenuto, per cui si ritiene che l’istanza possa essere inserita negli atti del procedimento pendente o formulata oralmente in udienza, non richiedendo la redazione di un apposito atto.

Per quanto concerne il suo contenuto, questo dovrà consentire di dimostrare la sussistenza dell’an, ovvero di tutti i presupposti necessari per la concessione della misura. Legittimati a proporre l’istanza saranno ovviamente le parti che nel corso del procedimento hanno formulato una domanda di condanna ad un fare infungibile o ad un non fare. L’istanza non incide sull’oggetto del giudizio e non amplia o muta i termini delle domande svolte dalle parti, per tale ragione la proposizione dell’istanza non è soggetta ai termini di decadenza previsti per le domande.

Ciò significa che nel caso di processo ordinario di cognizione l’istanza non dovrà essere necessariamente formulata, a pena di decadenza, nell’atto di  citazione o nella comparsa di risposta tempestivamente depositata; il termine ultimo per la sua proposizione coinciderà con la rimessione in decisione della controversia, per cui potrà essere validamente formulata per la prima volta anche in sede di precisazione delle conclusioni.

Il termine ultimo così individuato però vale solo per la formulazione della richiesta di applicazione della misura coercitiva e non anche per le produzioni documentali o per le istanze istruttorie eventualmente necessarie per la dimostrazione della sussistenza di tutti i presupposti applicativi previsti dalla disposizione o di elementi utili per la quantificazione dell’ammontare della misura.

Con l’istanza di applicazione dell’astreinte la parte mira ad ottenere una tutela ausiliaria del suo diritto ad ottenere l’adempimento della prestazione riconosciutale come dovuta dal provvedimento di condanna, per cui può anche essere proposta per la prima volta in appello: ben potrebbe, infatti, il creditore non aver ritenuto opportuno la sua proposizione in primo grado confidando nell’adempimento spontaneo della sentenza di condanna[39]. Ciò, tuttavia, sarà possibile sempre se l’appello sia stato proposto per motivi diversi, non è, infatti, possibile impugnare la sentenza solo per chiedere l’applicazione dell’astreinte; in tal caso, l’appello sarebbe inammissibile per carenza di interesse ad impugnare.

Una volta formulata l’istanza, la valutazione spetta al giudice, il quale gode di un’ampia discrezionalità: dovrà, infatti, valutare la concedibilità della misura, tenendo conto, prima di tutto, degli ulteriori limiti previsti dalla norma in esame, la quale esclude che la misura possa essere concessa se si tratta di controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c. e se appare manifestamente iniqua. Circa il primo dei predetti limiti, può ragionevolmente comprendersi ove si pensi alla naturale incoercibilità delle obbligazioni gravanti sul lavoratore, mentre appare meno scontata relativamente alle obbligazioni del datore di lavoro-imprenditore.

Ciò che colpisce è che un’analoga esclusione non sia stata prevista per i rapporti di lavoro autonomo o professionale. Per quanto concerne, poi, il secondo limite, occorre premettere che il ricorso all’esecuzione indiretta ha senso se l’interesse del titolare del diritto leso non può trovare piena ed integrale realizzazione o soddisfazione per altre strade, per cui si ritiene che l’imposizione di una misura coercitiva deve essere negata quando l’adempimento dell’obbligo implicherebbe una penalizzazione eccessiva per il debitore, magari sacrificando anche un suo interesse non patrimoniale o quando il facere infungibile si concreta in una prestazione dal carattere strettamente personale cui si contrappone, dal lato del creditore, un interesse di natura meramente patrimoniale, che può trovare piena soddisfazione nel risarcimento per equivalente[40].

Compiuta la prima valutazione circa la sussistenza dei presupposti di applicabilità, il giudice dovrà procedere alla seconda valutazione ancor più complessa e delicata: dovrà, infatti, determinare l’ammontare dell’astreinte e le sue concrete modalità operative. In merito alla quantificazione, la norma detta dei criteri guida, ovvero il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o prevedibile ed ogni altra circostanza utile, ma si tratta di criteri generici, per cui al giudice è riconosciuto un certo margine di discrezionalità, necessario per adeguare la misura al singolo caso concreto. Si ritiene che questa sia anche la ragione della mancata previsione di una cornice edittale[41].

Una volta comminata, l’astreinte opererà per tutto il lasso di tempo intercorrente tra la data del deposito o della comunicazione del provvedimento di condanna e quella dell’adempimento. La disposizione nulla dice su chi sia il destinatario del pagamento della misura, tuttavia si ritiene che sia il creditore e non lo Stato.

La disposizione tace anche in ordine alla possibilità di ottenere successivamente una modificazione della misura sia nell’ammontare che nelle modalità operative; non è previsto neppure un procedimento per la verifica dell’inadempimento, per la quantificazione del ritardo e per la liquidazione definitiva dell’importo effettivamente dovuto. A differenza del modello francese che prevede una astreinte provisoire, come minaccia di condanna al pagamento di una somma per i futuri casi di inottemperanza all’ordine del giudice e di una astreinte definitive, come determinazione finale e definitiva della somma dovuta per le violazioni e gli inadempimenti compiuti, il legislatore sembra aver voluto lasciare il compito di determinare l’ammontare della misura allo stesso creditore nell’atto di precetto. Avverso quest’ultimo il debitore potrà proporre opposizione ex art. 615 c.p.c. per contestare l’ammontare della misura, ma anche la sussistenza dell’inadempimento o delle violazioni addotte dal creditore[42].

Non vi sono dubbi che la concessione o il rifiuto della misura coercitiva sia sindacabile in sede d’impugnazione; in tale sede può emergere che la misura non era concedibile o, al contrario, che doveva essere concessa. Ma può anche accadere che in fase d’impugnazione sia ribaltata la vittoria precedente, per cui ci si chiede se le somme pagate dall’appellante, soccombente in primo grado, che nel tempo necessario per proporre l’appello non ha ottemperato all’ordine del giudice di prime cure, poi ribaltato dalla sentenza di appello, debbano essere restituite oppure no.

Secondo alcuni le somme ingiustamente versate dovranno essere restituite, tenuto conto del carattere accessorio della misura e dell’effetto espansivo interno che travolge i capi dipendenti; la misura coercitiva assiste l’attuazione del diritto sostanziale riconosciuto esistente e non del provvedimento, per cui se risulta poi che quel diritto sostanziale è stato erroneamente accertato come esistente la misura coercitiva cade[43].

Altri, invece, ritengono che operando in questo modo si finisca per attribuire alla misura in questione funzione risarcitoria e non sanzionatoria che è quella propria dell’astreinte, per cui  si è convinti  che la riforma integrale della sentenza in appello farà venir meno l’astreinte per il futuro, ma le somme dovute per le violazioni perpetrate medio tempore dovranno comunque essere versate o, se versate, trattenute[44]. Diverso è il caso in cui in appello venga revocata la misura concessa in primo grado perché priva dei presupposti previsti per legge; in tal caso, infatti, la caducazione sarà ex tunc e nulla sarà dovuto a fronte del perpetuato inadempimento della sentenza di prime cure e ciò che sarà stato eventualmente versato dovrà essere restituito.  

Un altro profilo attiene alla sorte dell'astreinte in caso di sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento di merito in seguito alla sua impugnazione: in tal caso la sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento di merito importerà la sospensione automatica dell'efficacia esecutiva dell'astreinte pur in assenza di un'istanza di parte. Se su quest’ultimo punto sono tutti concordi, non può dirsi altrettanto sulle sorti del credito da astreinte. Un problema si pone in ordine al sorgere o meno del credito da astreinte per le violazioni o gli inadempimenti perpetuati nel periodo di sospensione dell'efficacia esecutiva nel caso in cui l'impugnazione confermi il contenuto del provvedimento di condanna e la relativa misura coercitiva. Non vi è uniformità in dottrina: anche in questo caso dipende dalla natura che si attribuisce alla misura coercitiva indiretta. Se si ritiene che l'astreinte dipende dalla fondatezza della pretesa azionata dal creditore e non dalla mera vigenza del comando giudiziale allora il credito dovrà ritenersi sorto anche a fronte della sospensione dell'efficacia esecutiva.

La sospensione, infatti, non inibirebbe l'astratto operare dell'astreinte ma solo la sua concreta esigibilità. Soluzione contestata da quella parte della dottrina che propende per la natura sanzionatoria ed il carattere pubblicistico della misura coercitiva indiretta, la quale, infatti, ritiene che in questo modo si finisce ancora una volta per confondere la funzione riconosciuta agli strumenti risarcitori con quella coercitiva propria della misura in esame. Il credito da astreinte non trova giustificazione nel pregiudizio subito dal creditore, bensì nella mancata conformazione del debitore al comando proveniente dall'autorità giudiziaria, per cui in caso di inattualità temporanea del comando il comportamento tenuto medio tempore dal debitore e contrario al suo contenuto non potrà far scattare l'operatività dell'astreinte.

Ne consegue che per tutto il periodo di sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento non nascerà alcun credito da astreinte, mentre resterà fermo per il creditore nuovamente vittorioso in fase di gravame il diritto al risarcimento del danno patito per le violazioni o gli inadempimenti perpetuati dal debitore[45].

Altro dubbio concerne il grado di stabilità attribuito alla valutazione compiuta dal giudice della cognizione in merito alla concedibilità o meno della misura: questi, infatti, può negarla ritenendo che l'obbligazione in gioco sia fungibile ovvero concederla ritenendo, al contrario, che sia infungibile. Ci si chiede allora se l'accertamento compiuto dal giudice della cognizione circa la fungibilità o l'infungibilità della prestazione dovuta vincola il giudice dell'esecuzione al quale eventualmente si rivolge l'interessato per porre in esecuzione il provvedimento ottenuto. Si ritiene al riguardo che non sia configurabile un diritto alla misura coercitiva in sé accertabile con forza di giudicato, ma solo una misura esecutiva, che va a rafforzare la condanna, cercando di garantire la sua effettività. Da ciò ne discende che se il giudice della cognizione concede la misura coercitiva richiesta, ritenendo infungibile la prestazione dovuta, non è escluso che l'interessato tenti ugualmente la via dell'esecuzione ex art. 612 c.p.c. Non si può ritenere, infatti, che l'interessato, avendo fatto la richiesta di cui all'art. 614-bis c.p.c., abbia con ciò rinunciato all'azione esecutiva, né tantomeno che il giudice dell'esecuzione investito della richiesta di cui all'art. 612 c.p.c. debba senz'altro rigettarla affermando l'infungibilità dell'obbligo in ossequio alla pronuncia del giudice della cognizione.

Allo stesso modo, nel caso opposto, ove il giudice della cognizione nega la concessione della misura ritenendo fungibile l'obbligo, il creditore che si rivolge al giudice dell'esecuzione perché questi determini le modalità dell'esecuzione può sempre trovarsi di fronte ad un rifiuto di esecuzione, nel momento in cui il giudice di questa ritenga, al contrario, che l'obbligazione sia infungibile e quindi insuscettibile di attuazione forzata[46].

Recentemente l’art. 614-bis è stato modificato dal D.l. 83 del 2015, convertito in legge n. 132 del 2015, la quale ha aggiunto al Libro III il Titolo IV-bis, rubricato “delle misure di coercizione indiretta”. All’interno di questo nuovo titolo, creato ad hoc, è stato inserito il nuovo art. 614-bis, il quale è rimasto sostanzialmente lo stesso. Merita, tuttavia, sottolineare la modifica della rubrica del predetto articolo, oggi dedicato esplicitamente alle misure di coercizione indiretta e non più all’attuazione degli obblighi di fare infungibile o non fare.

Questa modifica potrebbe riaprire il dibattito circa la possibilità di concedere la misura anche a fronte di obblighi fungibili: oggi, infatti, è venuta meno quella limitazione che spingeva la dottrina maggioritaria a ritenere che potesse essere concessa solo in caso di obblighi infungibili.

La disciplina codicistica è rimasta pressoché invariata, l’unica specificazione riguarda il provvedimento di condanna cui accede l’astreinte, il quale deve essere di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro.

Il che risulta comprensibile  in quanto, non essendo più prevista la limitazione della rubrica agli obblighi di fare infungibili e di non fare, si richiede almeno che il provvedimento a cui può accompagnarsi la misura coercitiva non sia di condanna al pagamento di somme di denaro, lasciando, invece, aperta la possibilità di concederla in presenza di obblighi fungibili. Il legislatore del 2015 sembra, dunque, aver voluto sottolineare il carattere generale della misura ampliandone la portata applicativa.

Ed è questo ambito più esteso ed aperto  in sede applicativa che può  servire a rendere operativa, in concreto, la soddisfazione del diritto.

7. Osservazioni  conclusive

Il problema del debito costituisce un serio dilemma della attuale società.

L'aumento del debito è commisurato ad una sorta di deminutio del valore del credito che non sembra essere più un diritto forte, ma un diritto indebolitosi con il tempo.

Sono talmente tanti i meccanismi che portano quasi a "proteggere" il debitore -  soprattutto se  non è  accompagnato da nessuna garanzia  patrimoniale - che  il diritto di credito viene quasi svuotato del suo più  pregnante significato.

Ottenere una somma di danaro dopo anni di dure battaglie legali, equivale ad avere perso tempo e danaro perché la restituzione non sempre soddisfa gli interessi del creditore legati soprattutto alla necessità di tempi bervi di recupero per poter reinvestire il proprio danaro e creare indotti di produzioni e scambio.  

Se poi il creditore non riesce nemmeno ad ottenere la soddisfazione del suo diritto, allora il danno è ancora più drammatico perché non solo perde il suo credito, ma ha anche speso altro danaro (utilizzato per costose spese legali)  per cercare di recuperare (ma inutilmente)  il credito.

Il debitore patologico accumula, molto spesso, debiti su debiti, creando un notevole danno sociale ed economico che fuoriesce dai limiti del danno al singolo creditore, ben consapevole che i meccanismi complicati e complessi di tutela del credito gli consentono di muoversi indisturbato atteso che le sanzioni, se mai ci saranno, di certo non gli  comporteranno particolari pregiudizi  se si considera che non solo non ha nulla da perdere, ma il tutto  si concluderà  con un nulla di fatto o perché  il creditore  desiste o perché il creditore non ha  nulla da aggredire per soddisfare la propria pretesa creditoria.

Ecco perché sarebbe interessante introdurre sanzioni interdittive che possano colpire il  debitore dal punto di vista anche personale.

Una sorta di interdizione che impedisca al debitore di svolgere affari  o che incidano sulla sua capacità di agire potrebbero essere utili come deterrente al fine di evitare la costruzioni di   radicate situazioni  di  malaffare debitorio.

Solo in questo modo si potrà ripulire  la società dal malcostume del debito facile.

 

Note e riferimenti bibliografici 

[1] G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Bari, 2012, 30 ss.; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2012, 706 ss.
[2] C. Mandrioli, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, in Digesto civ., VI, Torino, 1991, 551.
[3]  Cfr. Cass. 24 maggio 1962, n. 1204; Cass. 18 giugno 1968, n. 2016; Cass. 24 luglio 1980, n. 4815; Cass. 6 dicembre 1984, n. 6402; Cass. 18 gennaio 1992, n. 576.
[4] In passato, infatti, si era sostenuto in dottrina che con l’esecuzione per obblighi di fare e non fare era possibile tutelare solo diritti assoluti e precisamente i diritti reali, mentre restavano escluse le obbligazioni, per le quali era possibile solo il risarcimento del danno. La proposta ricostruttiva muoveva dalla nota distinzione tra le situazioni giuridiche finali e quelle strumentali, in base alla quale solo alle prime, caratterizzate dalla relazione immediata tra il soggetto titolare ed il bene atto a soddisfare il bisogno, come accade nei diritti reali, si riconosce la tutela specifica. Nelle seconde, invece, connotate dal fatto che la soddisfazione del creditore può avvenire esclusivamente mediante la prestazione del debitore, come nel caso delle obbligazioni, l’inadempimento di quest’ultimo non può dar luogo ad altro che al risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. (V. S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, Milano, 1966, 12 ss.).
A tale opinione si è obiettato che, ai fini esecutivi, ciò che assume un ruolo determinante non è il tipo di diritto da tutelare, ma il tipo di obbligo inadempiuto da surrogare, con la conseguenza che la correlazione di questo obbligo ad un diritto reale, piuttosto che ad un diritto personale o di godimento non è in sé rilevante. (V. F.P. Luiso, Esecuzione forzata - II) Esecuzione forzata in forma specifica, in Enc. giur., XIII, Roma, 1998, 2).
[5] F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, Milano, 2014, 229; S. Mazzamuto, L’esecuzione forzata, in AA.VV., Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, II ed., XX, 2, Torino, 1998, 333 ss.
[6] Cass. 26 marzo 1979, n. 1756, in Foro it., 1979, I, 926 ss.
[7] Cfr. S. Mazzamuto, L’esecuzione forzata, cit., 337. Si pensi ad es. alla promessa del fatto del terzo: Cass. 6 aprile 1966, n. 910, in Foro it., 1967, I, 354, secondo cui nell’ipotesi in cui il terzo non si obblighi o non adempia l’obbligazione il promittente deve risarcire il danno al promissario.
[8] C. Consolo, Una buona “novella” al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. giur., 2009, 741 ss.
[9] F.P. Luiso, Esecuzione forzata - II) Esecuzione forzata in forma specifica, cit., 2; C. Mandrioli, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, cit., 552.
[10] G. Borrè, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966, 100 ss.; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 744.
[11] Contra: M. Nigro, Condanna ed esecuzioni restitutorie nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in Riv. dir. proc., 1968, 677, secondo cui spetterebbe al giudice dell’esecuzione controllare che non sia intervenuto l’impedimento derivante dal pregiudizio all’economia nazionale.
[12] Cass. 17 febbraio 2004, n. 3004; Cass. 5 gennaio 2000, n. 37; Cass. 15 febbraio 1999, n. 1272; Cass. 24 maggio 1996, n. 4770.
[13] Cass. 16 gennaio 2007, n. 866; Cass. 30 luglio 2004, n. 14599.
[14] Cass. 8 aprile 1980, n. 2035; Cass. 15 marzo 1980, n. 1749; Cass. 21 marzo 1969, n. 914.
[15] M. Fornaciari, I limiti dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare, in Riv. esec. forz., 2000, 418; F.P. Luiso, Esecuzione forzata - II) Esecuzione forzata in forma specifica, cit., 3 ss.
[16] Cfr., A. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2009, 1007.
[17] V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, 327; V. Denti, L’esecuzione forzata in forma specifica, Milano, 1953, 211.
[18] G. Borrè, Esecuzione forzata degli obb1lighi di fare e di non fare, cit., 233; V. Denti, L’esecuzione forzata in forma specifica, cit., 211 ss.; F. Lancellotti, Conciliazione delle parti, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 416; L. Montesano, Esecuzione specifica, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 536.
In giurisprudenza v. Cass. 13 ottobre 1954, n. 3637, in Giur. it., 1955, I, 1, 345; Cass. 24 maggio 1955, n. 1531, in Giust. civ., 1956, I, 117; Cass. 13 gennaio 1997, n. 258, in Foro it., Rep. 1997, voce Esecuzione forzata degli obblighi di fare, n. 1; Cass. 14 dicembre 1994, n. 10713, id, Rep. 1994, voce cit., n. 2.
Vi era già chi, contrapponendosi all’opinione maggioritaria, riteneva preferibile riconoscere idoneità a fondare l’esecuzione per gli obblighi di fare e non fare anche al verbale di conciliazione considerando l’opinione avversa formalistica e contraria al principio di economia processuale, visto che le parti sarebbero comunque obbligate ad instaurare un nuovo processo di cognizione a seguito di quello concluso con la conciliazione giudiziale, al solo scopo di ottenere un titolo esecutivo idoneo ad iniziare la procedura in esame (Cfr. V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, cit., 327 ss.; A. Briguglio, Conciliazione giudiziale, in Dig. civ., III, Torino, 1988, 239 ss; P. Castoro, Il processo esecutivo nel suo aspetto pratico, Milano, 2006, 704; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 230).
[19] Corte Cost. 12 luglio 2002, n. 366, in Foro it., 2004, I, 41 ss. e in Riv. esec. forz., 2003, 137 ss.
[20]  Cfr. D. Dalfino, Il titolo esecutivo e il precetto, in L’espropriazione forzata, a cura di G. Miccolis e C. Perago, Torino, 2009, 34.
[21] G. De Stefano, Scrittura privata come titolo esecutivo, in Le guide del professionista, Il Sole 24 ore, 2006, 22; A. Ronco, Commento all’art. 474, in AA. VV., Le recenti riforme del processo civile, I, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2007, 581 ss. Per una interpretazione correttiva del dato normativo v. G. Balena – M. Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 130; A. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 1008.
[22] L’art. 475 c.p.c. prevede espressamente tale possibilità per il caso di successione dal lato attivo; in caso di successione dal lato passivo l’art. 477 c.p.c., per il quale il titolo esecutivo è efficace solo nei confronti  degli eredi del debitore, è interpretato estensivamente, per cui detto titolo sarà efficace anche nei confronti del successore a titolo particolare. La dottrina afferma che la successione a titolo particolare nell’obbligo, anche se avvenuta successivamente alla conclusione del processo di cognizione, determina l’opponibilità del titolo al terzo. Opinando diversamente, infatti, difficilmente le esecuzioni in forma specifica potrebbero raggiungere esiti positivi, potendo il debitore sostituire a sé, dopo la cristallizzazione del titolo, un altro soggetto al solo fine di eludere il proprio obbligo. (Cfr. A. Lorenzetto Persico, La successione nel processo esecutivo, Padova, 1983, 342 ss.; F. P. Luiso, L’esecuzione ultra partes, Milano, 1984, 4).
[23] F. P. Luiso, L’esecuzione ultra partes, cit., 74 ss.
[24] E. Bruschetta, Studi per una teoria dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare, in Riv. esec. forz., 2012, 128; C. Mandrioli, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, cit., 560.
[25] V. Denti, L'esecuzione forzata in forma specifica, cit., 222; C. Mandrioli, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, cit., 561.
[26] V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, cit., 328; G. Borrè, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, cit., 271; P. Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, cit., 758 ss.
[27] Cfr. Cass. 4 giugno 2004, n. 10649.
[28] G. Borrè, Esecuzione forzata degli obb1lighi di fare e di non fare, cit., 211 ss.; L. Montesano, Esecuzione specifica, cit., 546.
[29] Cfr. Cass. 22 luglio 1999, n. 7887; Cass. 13 marzo 1995, n. 2911, in Foro it., Rep. 1995, voce Esecuzione forzata degli obblighi di fare o di non fare, n. 1; Cass., sez. un., 15 gennaio 1987, n. 245.
[30] Cass., sez. un., 2 luglio 2012, n. 11066.
[31] Cfr. Cass. 9 marzo 2012, n. 3722; Cass. 6 maggio 2010, n. 10959; Cass. 15 luglio 2009, n. 16471; Cass. 8 ottobre 2008, n. 24808; Cass. 23 maggio 2006, n. 12117; Cass. 18 marzo 2003, n. 3992, in Riv. esec. forz., 2004, 251; Cass. 18 marzo 2003, n. 3990, in Foro it., 2003, I, 2034.
[32] V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, cit., 333; P. Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, cit., 766; Cass. 12 luglio 1991, n. 7727.
[33] C. Mandrioli, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, cit., 565; L. Montesano, Esecuzione specifica, cit., 558.
[34] G. Borrè, Esecuzione forzata degli obb1lighi di fare e di non fare, cit., 352; Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2010, 316; G. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, II, Padova, 2009, 251. Contra: P. Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, cit., 766; V. Denti, L'esecuzione forzata in forma specifica, cit., 229 ss.
[35] Cass. 10 dicembre 2003, n. 15176, in Arch. civ., 2004, 921, la quale ritiene che i provvedimenti destinati a risolvere le difficoltà di ordine materiale insorte nel corso della esecuzione non possono essere impugnati con ricorso per cassazione, che, se proposto, va, per l’effetto, dichiarato inammissibile, investendo un provvedimento privo di contenuto decisorio.
[36] Cfr. C. Asprella, L’attuazione degli obblighi di fare infungibile di non fare, in Giur. merito, 2011, 117; D. Amadei, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 343 ss.; M. Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c., in www.judicium.it e Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 781 ss.; L. De Angelis, La nuova generale misura coercitiva (art. 614-bis c.p.c.) e le controversie di lavoro, in Foro it., 2011, V, 18; S. Mazzamuto, L’esordio della comminatoria di cui all’art. 614-bis c.p.c. nella giurisprudenza di merito, in Giur. it., 2010, 638 ss.
[37] La misura coercitiva può essere concessa solo dal giudice della cognizione, come accessorio ad un provvedimento di condanna e non anche dal giudice dell’esecuzione. Il provvedimento di condanna rafforzabile con la concessione della misura può essere sia una sentenza sia un altro provvedimento che contenga un ordine di prestazione, per cui anche l’ordinanza ex art. 702-ter c.p.c.  e l’ordinanza con cui viene concesso un provvedimento cautelare a contenuto anticipatorio. Qualche dubbio sorge per la conciliazione giudiziale e per il lodo arbitrale. Sul punto la dottrina non è unanime: secondo alcuni la conciliazione giudiziale dovrebbe essere ammessa altrimenti verrebbe irragionevolmente scoraggiata (v. M. Bove, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, in www.judicium.it), secondo altri andrebbe esclusa tale possibilità non potendosi qualificare l’accordo conciliativo come provvedimento di condanna (v. C. Mandrioli - A. Carratta, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 97). Quanto ai lodi arbitrale, se in astratto non può essere negata la possibilità che anche questi provvedimenti siano assistiti da astreinte, in concreto il profilo pubblicistico della misura coercitiva indiretta porta a concludere che un siffatto potere non possa essere riconosciuto al collegio arbitrale, ma necessiti dell’intervento del braccio secolare. Contra: M. Bove, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, cit., che riconosce la possibilità per gli arbitri di pronunciare l’astreinte, la cui operatività viene condizionata al previo deposito del lodo ex art. 835 c.p.c.
[38] Dalla rubrica della norma emerge chiaramente che il campo di applicazione dell’astreinte è limitato alle obbligazioni infungibili, tuttavia, nel testo della norma questa delimitazione non è ripetuta; ciò ha indotto qualcuno a dubitare di tale limitazione, anche sulla base del fatto che secondo il modello francese, che ha ispirato il nostro legislatore, l’astreinte può essere concessa anche in riferimento a prestazioni fungibili  (v. B. Gambineri, Attuazione degli obblighi di fare  infungibile o di non fare, in Foro it., 2009, V, 320 ss.).
La maggior parte della dottrina propende, invece, per un’interpretazione letterale della disposizione, tenuto conto della collocazione della disposizione, posta a chiusura del titolo dedicato all’esecuzione degli obblighi di fare e dopo gli artt. 612 e ss  c.p.c. che disciplinano gli obblighi fungibili, per cui l’art. 614-bis c.p.c. è dettato esclusivamente per quelli infungibili. (v. D. Amadei, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, cit., 347; M. Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c., cit., 783 ss.).
[39] C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, tomo III, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Padova, 2010, 70 ss.
[40]  G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, III, Bari, 2013, 161 ss.; S. Mazzamuto, L’esordio della comminatoria di cui all’art. 614-bis c.p.c. nella giurisprudenza di merito, cit., 652 ss.
[41] C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, tomo III, L’esecuzione forzata, i procedimenti speciali, i procedimenti di separazione e divorzio, i processi del lavoro e locatizio. L’arbitrato, Torino, 2009, 117.
[42] D. Amadei, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, cit., 351 ss.
[43] M. Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c., cit., 790.
[44] C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., 327 ss.
[45] C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., 328 ss.
[46] D. Amadei, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, cit., 355 ss.;  M. Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c., cit., 793.