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Pubbl. Gio, 18 Mag 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

Il rapporto tra norma penale e atto amministrativo

Giuseppe Mainas


Nella verifica processuale inerente la sussistenza del reato o riguardante la punibilità del fatto, assumono molto spesso rilievo gli atti amministrativi in quanto parte della struttura del reato, ai quali rinvia la norma penale oppure qualora integrino una condizione di procedibilità nel processo.


Sommario: 1. Premessa; 2. Casistica; 2.1. Atto Legislativo; 2.2. Atto negoziale; 2.3. Atto giurisdizionale; 4. Atto amministrativo; 5. Prima fase: la disapplicazione; 5.1. La disapplicazione applicata alle ipotesi di atto amministrativo presupposto positivo; 5.2. La disapplicazione applicata alle ipotesi di atto amministrativo presupposto negativo; 6. Seconda fase: le soluzioni differenziate; 6.1. Il caso in cui l’atto amministrativo è estraneo alla fattispecie penale; 6.2. Il caso in cui l’atto amministrativo è interno alla fattispecie penale; 7. La pronuncia delle SS.UU. nel caso Giordano del 1989; 8. La pronuncia delle SS.UU. sul caso Borgia nel 1993.

Sommario: 1. Premessa; 2. Casistica; 2.1. Atto Legislativo; 2.2. Atto negoziale; 2.3. Atto giurisdizionale; 4. Atto amministrativo; 5. Prima fase: la disapplicazione; 5.1. La disapplicazione applicata alle ipotesi di atto amministrativo presupposto positivo; 5.2. La disapplicazione applicata alle ipotesi di atto amministrativo presupposto negativo; 6. Seconda fase: le soluzioni differenziate; 6.1. Il caso in cui l’atto amministrativo è estraneo alla fattispecie penale; 6.2. Il caso in cui l’atto amministrativo è interno alla fattispecie penale; 7. La pronuncia delle SS.UU. nel caso Giordano del 1989; 8. La pronuncia delle SS.UU. sul caso Borgia nel 1993.

1. Premessa

Nella verifica processuale della sussistenza del reato o per la punibilità del fatto assumono spesso rilievo gli atti amministrativi, perché essi fanno parte della struttura del reato, ad essi rinvia la norma penale, essi integrano una condizione di procedibilità, dunque il giudice penale, dinanzi al quale il p.m. contesta l’ipotesi accusatoria, si imbatte in atti dell’amministrazione, che assumono rilievo penale.

In tutti questi casi da sempre ci si chiede se il giudice penale:

  1.  debba limitarsi a verificare che quell’atto amministrativo, avente rilievo penale, esista;
  2.  se invece debba verificare che quell’atto amministrativo sia legittimo;
  3.  come debba operare nel caso in cui appuri l’illegittimità dell’atto.

Occorre a questo punto partire da un’ampia premessa.
Nella verifica processuale della sussistenza del reato o per la punibilità del fatto, il giudice penale può imbattersi in un:

  1. atto legislativo;
  2. atto negoziale;
  3. atto giurisdizionale;
  4. atto amministrativo.

La questione in esame attiene più in generale alle forme di controllo di atti giuridici aventi rilievo penale da parte del giudice penale.

2. Casistica

2.1. Atto Legislativo

La prima ipotesi che può prospettarsi è che il giudice penale dubiti della legittimità costituzionale di una norma di legge diversa da quella incriminatrice, alla quale tuttavia essa rinvia.

Il giudice penale deve, ai sensi dell’art. 134 Cost., sollevare questione di legittimità costituzionale della norma legislativa primaria avente rilievo penale.

2.2. Atto negoziale

La seconda ipotesi riguarda i rapporti tra diritto penale – diritto privato, reato – contratto.

Reato - contratto: quando reato e contratto convergono tra loro, perché il reato consiste nella stipula del contratto, stipulando il contratto di commette il reato (Es.: contratto di compravendita di sostanze stupefacenti art. 73 dpr. 309/1990; usura).

Reato - in contratto: quando il reato non consiste nel contratto ma è quella fattispecie penale che interviene talvolta prima del contratto, nella fase della formazione della volontà contrattuale, ed è idonea ad alterare la fisiologia del procedimento della formazione della volontà contrattuale (Es.: truffa, reato con cui nel corso delle trattative negoziali talune con frode altera il procedimento di formazione dell’altrui volontà contrattuale).

Reato e contratto non coincidono, perché non è mediante il contratto che si consuma il reato, ma il reato tuttavia interviene prima del contratto alterandone la formazione.

In queste ipotesi ci si chiede:

  1. Come il reato incide sul validità ed efficacia del contratto, tale questione  è attribuita al giudice civile, il quale deve chiedersi, a fronte di un reato – contratto o in contratto, se il contratto sia affetto da nullità, inefficacia, annullabilità;
  2. Se l’eventuale patologia del contratto, in cui consiste il reato (reato – contratto) o che ha determinato la stipula del contratto (reato – in contratto), preclude di ritenere integrato il contratto, tale questione  è attribuita al giudice penale.

Questa è la questione civilistica che il giudice penale può essere chiamato a valutare.

Sul punto si registrano diverse teorie:

  • La teoria pan-civilistica;
  • La teoria autonomista;
  • La teoria mista.

2.3. Atto giurisdizionale

La terza ipotesi riguarda gli atti giurisdizionali, che possono far parte della struttura del reato.

Ipotesi classica è il reato di bancarotta, posto che la bancarotta presuppone che l’imputato sia stato raggiunto da una sentenza dichiarativa di fallimento, sentenza pronunciata dal giudice civile.

Ci si chiede se il giudice penale possa mettere in contestazione la validità della sentenza dichiarativa di fallimento.

Su questa questione le S.U. nel 2008 hanno sostenuto che il giudice penale non ha nessuna possibilità di sindacare l’atto giurisdizionale, che faccia parte della struttura di reato, essendo quell’atto giurisdizionale rimediabile soltanto sperimentando gli ordinari (o straordinari) strumenti di impugnativa processuale, ma nel percorso fisiologico della giustizia civile senza che il giudice penale possa occuparsene.

Il giudice penale deve prendere atto solo dell’esistenza, e non della legittimità, dell’atto giurisdizionale.

2.4. Atto amministrativo

La quarta ipotesi riguarda i casi in cui il giudice penale si imbatte in un atto amministrativo avente rilievo penale. Ma quando un atto amministrativo ha rilievo penale?

L’atto amministrativo ha rilievo penale in due ipotesi:

a) La prima ipotesi si configura quando un atto amministrativo senza concorrere alla struttura del reato ne condiziona la punibilità o la procedibilità; in questo caso l’atto amministrativo è un atto, non interno alla struttura del reato, ma esterno. (Es. autorizzazione a procedere).
b) La seconda ipotesi si configura quando un atto amministrativo fa parte della struttura del reato.

La dottrina schematizza i casi in cui l’atto amministrativo assume rilievo penale concorrendo alla struttura del reato:

I) L’atto amministrativo è la condotta esecutiva del reato (Es. Abuso di ufficio, il pubblico ufficiale che adotta l’atto amministrativo in violazione di legge o di regolamento);

II) L’atto amministrativo è l’oggetto su cui insiste la condotta esecutiva del reato (Es. Falsi documentali);

III) L’atto amministrativo funziona da scriminate o da circostanza aggravante (Es. ordine dell’autorità che scrimina la condotta);

IV) L’atto amministrativo è il presupposto del reato

Ci sono alcuni reati che intanto possono essere posti in essere in quanto ci sia un atto amministrativo. L’atto amministrativo può essere presupposto del reato in due ipotesi e differenti ipotesi:

  • La prima ipotesi si ha quando l’atto amministrativo è un presupposto positivo del reato, cioè senza l’atto il reato non può essere commesso. (Es. art. 650 c.p.)
  • La seconda ipotesi si ha quando l’atto amministrativo è un presupposto negativo del reato, cioè l’assenza dell’atto integra il reato, è la norma penale a richiedere che l’atto non ci sia. (Es. Costruzione in assenza del permesso a costruire art. 44 T.U.E.)

È con riferimento alle ultime due ipotesi (atto amministrativo presupposto negativo/positivo) che si è sviluppato il dibattito in dottrina e in giurisprudenza sui limiti e sull’intensità del potere di controllo, da parte del giudice penale, sugli atti amministrativi.

Sul punto si registrano diverse questioni:

  1. Ci si chiede se il giudice penale debba prendere atto della sola esistenza dell’atto amministrativo che ha rilievo penale o se debba, invece, sindacarne la legittimità.
  2. Ci si chiede, sempre che alla prima questione si sia data risposta positiva, ossia che il giudice penale possa sindacare la legittimità dell’atto amministrativo,come il giudice penale debba condurre questo sindacato: esercitando il potere di cui all’art. 5 LAC di disapplicazione o utilizzando altre tecniche di accertamento della legittimità?

A tal proposito si registrano due fasi diverse.

3. Prima fase: la disapplicazione.

La giurisprudenza ha ritenuto che il giudice penale abbia potere di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo e invocava, come base giuridica del potere di controllo del giudice penale, l’art. 5 LAC.

Il giudice penale era fornito, quindi, al pari del giudice civile del potere di disapplicazione, e conseguentemente esercitando questo potere avrebbe potuto sindacare sempre la legittimità dell’atto.

La dottrina e la giurisprudenza hanno a lungo sostenuto che esercitando il potere di disapplicazione, di cui all’art. 5 LAC, il giudice penale avrebbe potuto e dovuto condurre il controllo di legittimità dell’atto in tutte le varie ipotesi.

3.1. La disapplicazione applicata alle ipotesi di atto amministrativo presupposto positivo.

A paradigma dell’ipotesi disapplicatoria si citava l’art. 650 c.p., che prevede un’ipotesi di contravvenzione quando il soggetto non osserva il provvedimento legalmente dato dall’autorità amministrativa. Si sosteneva che il giudice, allorché verifichi l’illegittimità del provvedimento dato dall’autorità amministrativa, avrebbe dovuto disapplicare il provvedimento amministrativo, considerarlo tamquam non esset ai fini della decisione, e quindi concludere per l’insussistenza della condotta di inosservanza, in quanto eliminato il provvedimento verrebbe meno l’oggetto dell’inosservanza.

La disapplicazione, applicata all’art. 650 c.p., (in cui l’atto amministrativo è presupposto positivo del reato), produce effetti in bonam partem, perché disapplicato l’atto viene meno il reato.

3.2. La disapplicazione applicata alle ipotesi di atto amministrativo presupposto negativo

Tuttavia,la giurisprudenza ha iniziato, nel corso della sua evoluzione, a ritenere che logica disapplicatoria potesse essere estesa anche all’ipotesi di atto amministrativo – presupposto negativo. Ipotesi in particolare dei reati edilizi.

La giurisprudenza ha, quindi, conseguentemente sostenuto che allorchè un soggetto costruisca, non in assenza di un titolo (come cita la norma incriminatrice) ma sulla base di un titolo chiesto ed ottenuto, il giudice penale avrebbe potuto

  • sindacare la legittimità del titolo;
  • in caso di riscontro negativo, disapplicare il titolo, considerandolo tamquam non esset;
  • e conseguentemente, ricondurre alla norma che incrimina l’ipotesi di costruzione in assenza di titolo l’ipotesi di costruzione sulla base di un titolo, chiesto ed ottenuto, ma tuttavia illegittimo e disapplicato dal giudice penale.

Quindi una volta disapplicato il titolo ritenutolo tamquam non esset, la costruzione non è più sulla base di un titolo ma in assenza di titolo.

Tuttavia in questo caso la disapplicazione produce effetti in malam partem, in pieus, perché l’effetto è la condanna del soggetto sulla base di un titolo illegittimo.

Proprio l’estensione dello schema disapplicatorio alle ipotesi di atti amministrativi presupposti negativi ha scatenato le critiche della dottrina. Infatti così operando il giudice penale finirebbe per compromettere:

  • le ragioni sottese al divieto di analogia e di precisione, perché finirebbe per sussumere nella portata applicativa di una norma che incrimina soltanto il fatto di chi costruisce in assenza di permesso a costruire l’ipotesi di un soggetto che costruisce sulla base di un titolo che ha ottenuto e che il giudice considerato illegittimo, disapplicandolo;
  • le ragioni sottese al principio di retroattivo  e le esigenze di calcolabilità delle conseguenze penali, perché il soggetto nel momento in cui agisce confida nella presenza del titolo che ha ottenuto sicché la circostanza che il giudice penale disapplichi il titolo, ritenendolo illegittimo, e contesti allo stesso la costruzione dell’opera ribalta il calcolo delle conseguenze penali il soggetto ha fatto al momento del fatto.

Queste critiche hanno indotto una parte cospicua della giurisprudenza ad adottare soluzioni differenziali rispetto alla disapplicazione.

4. Seconda fase: le soluzioni differenziate.

Nel verificare se il giudice penale abbia un controllo di legittimità sull’atto amministrativo di rilevanza penale, e quale potere debba esercitare per condurlo, occorre distinguere due ipotesi perché diversi sono i poteri del giudice penale.

Occorre evidenziare che il compito principale demandato al giudice è quello di verificare la cd. tipicità del fatto contestato, cioè di verificare che il fatto contestato all’imputato dal P.M. sia sussumibile nella fattispecie astratta delineata dal legislatore con la norma incriminatrice.

4.1. Il caso in cui l’atto amministrativo è estraneo alla fattispecie penale.

L’atto amministrativo è estraneo alla tipicità del fatto, perché non fa parte della sua struttura del reato così come delineata dalla norma incriminatrice.

Il giudice penale deve, in questo caso, distinguere tra:

  • La verifica di tipicità del fatto;
  • La verifica di legittimità dell’atto.

In questa ipotesi il giudice può e deve verificare la legittimità dell’atto amministrativo esterno esercitando il potere di disapplicazione.

4.2. Il caso in cui l’atto amministrativo è interno alla fattispecie penale.

La verifica di legittimità dell’atto amministrativo, essendo questo parte del fatto tipico da accertare, si confonde con la verifica di tipicità del fatto, cioè verificando che il fatto concreto sia tipico, e quindi riconducibile nella fattispecie astratta, il giudice penale deve anche accertare che l’atto amministrativo, che di quel fatto sia parte, sia legittimo.

Sicchè, secondo la dottrina e la giurisprudenza, non si tratta di disapplicazione ma di verifica della tipicità del fatto, cioè verificando la tipicità del fatto il giudice accerta anche, se ci sono le condizioni, la legittimità dell’atto.

A paradigma di questa impostazione si richiama l’art. 650 c.p, che prevede il reato di chi non osserva il provvedimento legalmente dato. In questo caso il provvedimento legalmente dato fa parte della struttura del reato.

Nel verificare la tipicità del fatto, il giudice penale non deve condurre due diverse verifiche (la verifica della tipicità del fatto e quella della legittimità del provvedimento), perché nel verificare la tipicità del fatto non può non accertare che il provvedimento, non osservato dall’imputato, sia stato legalmente dato, cioè legittimo.

In questa ipotesi, verifica della legittimità dell’atto e verifica della tipicità del fatto coincidono, perché verificando che il fatto sia tipico, il giudice non può non accertare che il provvedimento sia legittimo.

Tanto è vero che se si accerta che il soggetto ha violato si un provvedimento ma un provvedimento non legalmente dato, e quindi illegittimo, il giudice non deve disapplicare il provvedimento ma deve soltanto prendere atto che il fatto contestato è atipico, perché non è un fatto di inosservanza del provvedimento legalmente dato ma di un provvedimento illegittimo. Il giudice deve quindi concludere per l’insussistenza del fatto.

In conclusione, il controllo di legittimità non passa per l’esercizio del potere di disapplicazione ma per la sola verifica di tipicità del fatto.

Sennonché in seno a questa seconda ipotesi si sono registrate delle divisioni:

  • Da un lato è emersa la tesi della tipicità formale o testuale: la legittimità dell’atto può essere accertata, conducendo la classica verifica di tipicità del fatto, solo nei casi di cd. tipicità formale, cioè nelle ipotesi nelle quali la legittimità o l’illegittimità dell’atto è formalmente o testualmente indicata nella norma incriminatrice. (Es. art. 650 c.p.: provvedimento legalmente dato dall'Autorità).
    Quindi nella sola ipotesi in cui la norma incriminatrice, contiene un riferimento testuale alla legittimità dell’atto, il giudice avrebbe il potere – dovere di controllare la legittimità dell’atto in sede di verifica della tipicità del fatto.
    Quando, invece, il riferimento testuale alla legittimità del provvedimento è assente, il giudice deve verificare solo l’esistenza dell’atto ma non la sua legittimità.
    La tesi suddetta non ha riscosso molti consensi, neanche le S.U.ritengono sia la strada giusta da percorrere tantochè optano per la tesi sostanziale.
  • Dall’altro lato è emersa la tesi della tipicità sostanziale, secondo cui, anche quando manca nella descrizione del fatto tipico un riferimento alla legittimità dell’atto, il giudice penale può e deve controllare la legittimità dell’atto ogni qualvolta, sulla base di una interpretazione della norma incriminatrice condotta tenendo conto del bene giuridico che con la stessa si è inteso presidiare, il provvedimento amministrativo nella sua legittimità/illegittimità è elemento costitutivo del reato.
    Questo schema è quello applicato ai reati edilizi ed in particolare alle costruzioni in assenza di titolo (presupposto negativo, il legislatore infatti punisce chi costruisce in assenza di titolo).

5. La pronuncia delle SS.UU. nel caso Giordano del 1989.

Ci si è chiesti se il giudice, nel caso in cui il soggetto abbia costruito sulla base di una atto chiesto ed ottenuto, possa sindacare la legittimità di questo atto e come debba comportarsi, nel caso in cui constati la illegittimità dello stesso.

Due sono le tappe fondamentali del dibattito.

Le SS.UU. hanno sostenuto che non c’è spazio per la disapplicazione, perché è un potere-dovere riconosciuto al giudice per ragioni di tutela soggettiva e non per esigenze di tutela oggettiva.

Il potere di disapplicazione è stato riconosciuto al giudice ordinario perché da un lato si vuole preservare la separazione dei poteri e dall’altro si vuole salvaguardare l’esigenza che quel giudice possa tutelare diritti soggettivi portati al suo vaglio, quando questi siano sacrificati da un atto amministrativo.

La disapplicazione è stata riconosciuta al giudice ordinario solo quando lo schema disapplicatorio è necessario per tutelare un diritto soggettivo e non per soddisfare esigenze di diritto oggettivo. Quindi il giudice penale può si disapplicare l’atto ma soltanto quando è necessario per la tutela di diritti soggettivi.

Sicchè è ammissibile una disapplicazione in melius ma non in peius.

Nel caso di costruzione sulla base di un titolo illegittimo, le SS.UU. escludono che il giudice possa disapplicare il titolo per esigenze di diritto oggettivo (disapplicazione in peius).

Quindi scartata la disapplicazione, il giudice penale può esercitare il controllo di legittimità ricorrendo alla teoria della tipicità.

Le S.U., dando atto delle tesi della tipicità sostanziale e formale, aderiscono alla teoria della tipicità sostanziale, teoria secondo cui è vero che il legislatore nell’art. 44 TUE prevede che costituisce il reato il fatto di chi costruisce in assenza di titolo, e non di chi costruisce sulla base di un titolo illegittimo, ma è vero anche che, sulla base di un’interpretazione della norma, attenta al bene giuridico che con la stessa si è voluto presidiare, è possibile ritenere  che il legislatore abbia implicitamente inteso voler incriminare anche l’ipotesi di costruzione sulla base di titolo illegittimo.

Questa teoria della tipicità sostanziale però rimette al giudice, alla sua interpretazione, il compito di  verificare se si possa pervenire a questo risultato estensivo. Questa verifica che è di tipo interpretativo va condotta guardando all’oggettività giuridica, al bene giuridico presidiato.

Le SS.UU. quindi, applicando all’art. 44 TUE la teoria della tipicità sostanziale e interrogandosi sul bene giuridico presidiato, sostengono che il bene giuridico tutelato non è il bene giuridico materiale a che si costruisca nel rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia di riferimento, ma è un bene giuridico soltanto formale, e cioè il bene a che qualsiasi attività di modificazione del territorio sia preceduta da un controllo della PA materializzatosi nell’adozione dell’atto permissivo.

Quindi ciò che il giudice penale deve accertare è che ci sia stato un controllo, quindi che ci sia stato l’atto amministrativo, e non che questo controllo sia stato esercitato in modo legittimo, nel rispetto della normativa urbanistica e di settore.

Quindi le SS.UU. concludono che al giudice penale non compete il controllo sulla legittimità del titolo, perché essendo il bene presidiato unicamente quello formale (a che prima dell’inizio dell’attività costruttiva ci sia stato un previo controllo della PA), il giudice deve verificare solo l’esistenza dell’atto amministrativo di controllo e non anche la sua legittimità.

In definiva le SS.UU. nel 1989:

  • ammettono la disapplicazione in bonam partem
  • ripudiano la disapplicazione in peius, perché quando l’atto amministrativo è ampliativo non vi è ragione di esercitare un potere che è riconosciuto al giudice per la tutela del diritto soggettivo;
  • aderiscono alla teoria di tipicità sostanziale

6. La pronuncia delle SS.UU. sul caso Borgia nel 1993.

La Cassazione manifesta il definitivo ripudio per la teoria della disapplicazione.

Le SS.UU. sostengono che quando l’atto amministrativo ha rilievo interno viene in rilievo solo la teoria della tipicità salvo optare per la tipicità sostanziale o formale.

Le SS.UU. confermano l’approccio teorico delle SS.UU. 1989, aderendo anch’esse alla teoria della tipicità sostanziale.

Tuttavia applicata questa teoria, sempre al reato di costruzione in assenza di titolo, questa volta le S.U. pervengono ad un esito del tutto differente, perché sostengono che il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, non è quello formale, ma il bene materiale, a che ci sia il sostanziale rispetto, nella conduzione dell’attività costruttiva, di tutta la disciplina di settore (primaria, pianificatoria, regolamentare), con la conseguenza che quando questa coerenza non c’è (cioè quando l’opera costruenda o costruita è difforme dalla disciplina di settore nella sua interezza) sussiste il reato, senza che lo stesso possa essere impedito nella sua integrazione, dalla circostanza che la PA abbia rilasciato la concessione.

In questa ipotesi il giudice non deve disapplicare la concessione ma deve soltanto prendere atto della difformità tra opera costruita/costruenda e disciplina di settore.

Ci si chiede fin dove possa spingersi il giudice penale nell’accertare la legittimità, cioè quanto intenso sia il sindacato del giudice penale. Il giudice penale deve sindacare il merito? Oppure la sola legittimità? E se deve sindacare la sola legittimità, il sindacato riguarda tutti e tre i vizi di legittimità (violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere) o l’eccesso di potere, in quanto vizio di legittimità di non facilissima distinzione pratica dal vizio  di merito, deve restare fuori dal controllo del giudice penale?

La giurisprudenza di merito e di legittimità è tutta orientata nel ritenere che al giudice penale competa un sindacato pieno ed intenso, quindi un sindacato che si estende a tutti i tre i vizi di legittimità, esclusa la sindacabilità dell’opportunità, del vizio di merito.

Dunque l’accertamento dell’illegittimità non incontra limiti, ed anche l’eccesso di potere rientra nell’ambito del sindacato di legittimità demandato al giudice penale.

Difettano talune ipotesi, in relazione alle quali questo dibattito è più intenso. In particolare l’ipotesi dell’abuso di ufficio ex art. 323 c.p.: qui il problema della sindacabilità dell’eccesso di potere si pone perché nell’art. 323 c.p., dopo la riscrittura operata dalla legge 234/97, la fattispecie di abuso si configura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio violano la legge. Quindi non sono mancati orientamenti che hanno sostenuto che solo la violazione di legge, e non anche l’eccesso di potere, rientra nel sindacato della legge.

Al di fuori di queste specifiche ipotesi, quando al giudice penale spetta il sindacato di legittimità, non c’è limite al sindacato e non c’è vizio che possa nascondersi, sicchè anche l’eccesso di potere è sindacabile.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] G. Fiandaca, Enzo Musco, Diritto Penale – Parte Generale, pag. 681.
[2] Rivista Ondine di scuola Superiore dell’Economia e della Finanza, Anno VII – Numero 2 – Aprile-Settembre 2010
[3] Patroni Griffi F., Valori e principi tra procedimento amministrativo e responsabilizzazione dei poteri pubblici 2010
[4] Cavallaro M.C., Gli organi collegiali tra procedimento e provvedimento 2010
[5] Allegra G., Dell'abitualità criminosa, Giuffrè, Milano, 1933.
[6] Ambrosetti E.M., Recidiva e recidivismo, Cedam, Padova, 1997.
[7] Antolisei F., Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 1980.