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Pubbl. Ven, 21 Apr 2017

Il sistema delle fonti nazionali alla luce del diritto comunitario

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Giuseppe Mainas


Dato il notevole aumento di ”querelle” giurisprudenziali riguardanti il rapporto gerarchico tra le normative nazionali e le normative sovranazionali (Diritto dell´ UE e CEDU), giova delineare il perimetro entro cui il sistema delle fonti nazionali possa operare senza ledere i principi impartiti in ambito comunitario.


Sommario: 1. Premessa; 2. Rapporto diritto interno - diritto dell'Unione Europea; 3. Ipotesi del principio di primazia; 3.1 Prima ipotesi; 3.2. Seconda ipotesi; 3.3. Terza ipotesi; 3.4. Quarta ipotesi.

1. Premessa

Il sistema delle fonti è informato al principio di gerarchia. Il sistema delle fonti è un sistema gerarchico, la fonte sotto ordinata non può entrare in contrasto con quella sovraordinata. Questo principio di gerarchia si evince dall’art. 1 delle disposizioni preliminari al Codice civile, il quale afferma che le fonti del diritto sono la legge, i regolamenti, le norme corporative (prima della loro abrogazione) e gli usi. Il sistema delle fonti così delineato è un sistema incompleto; manca in primis la Costituzione, ovviamente non per dimenticanza, ma esclusivamente per motivi storico-temporali, essendo il codice civile precedente. Quello che manca soprattutto sono le fonti ultranazionali, sovrannazionali del diritto: diritto UE, da una parte, e diritto internazionale, dall’altra, soprattutto CEDU. In che rapporto si colloca l’ordinamento interno con l’ordinamento UE, da una parte, e il diritto CEDU, dall’altra? Come diritto UE e CEDU si iscrivono nel sistema delle fonti?

2. Rapporto diritto interno - diritto dell'Unione Europea

La norma di contatto tra i due ordinamenti è l’art. 11 della Costituzione, secondo il quale l’ordinamento italiano rinuncia alla propria sovranità in favore di un ordinamento che assicuri l’ordine e la pace tra le nazioni; articolo che si fonda su una rinuncia della sovranità, l’ordinamento interno si dichiara cedevole rispetto a quello UE.

Come interagiscono i due ordinamenti? Come i due ordinamenti dialogano tra loro? Si apre a questo punto la diatriba tra le Supreme Corti:

  • Corte costituzionale: secondo la quale si sarebbe in presenza di due ordinamenti distinti e separati, alla luce del cd. principio dualistico. Ordinamento interno autonomo e separato da quello europeo, coordinati tra di loro a norma del riparto delle competenze stabilito dal TUE.

Che cosa comporta la teoria dualistica in relazione alla responsabilità dello Stato legislatore? Le fonti del diritto UE sono fonti dell’ordinamento UE, ma non dell’ordinamento interno, perché in quanto ordinamenti distinti e separati, ognuno ha le proprie fonti del diritto.

  • Corte di Giustizia e Consiglio di Stato: teoria monistica, integrazione degli ordinamenti, i due ordinamenti non sono separati e distinti tra di loro, ma sono ordinamenti integrati; costituiscono un unico insieme. Che conseguenze sorgono da questa impostazione? Le fonti dell’UE son anche fonti del diritto interno. Essendo un unico ordinamento integrato, le fonti dell’Ue saranno sicuramente fonti del diritto interno. Esiste un sistema integrato delle fonti del diritto.

In che rapporto sono le due fonti? Quale criterio conforma l’ordine delle fonti dei due ordinamenti? Il principio di primazia, perfettamente aderente con l’articolo 11 Cost., a mente del quale le fonti dell’ordinamento UE prevalgono sulle fonti interne; le prime sono gerarchicamente sovra ordinate.

3. Ipotesi del principio di primazia

3.1. Prima ipotesi

Se le fonti dell’Ue sono sovraordinate rispetto a quelle interne, il legislatore nazionale ha l’obbligo di conformarsi al diritto UE, un obbligo che si sostanzia nel dovere dello Stato legislatore di attuare le direttive europee nei tempi e nei modi previsti dalla direttiva stessa. Tale obbligo del legislatore consiste nel trasporre tempestivamente e correttamente le direttive europee.

Occore evidenziare come, se la direttiva attribuisce dei diritti ai cittadini dello Stato membro e se il legislatore non attua o attua scorrettamente la direttiva in oggetto, il cittadino non può far valere nei rapporti orizzontali, cioè nei rapporti con gli altri soggetti di diritto, quei diritti. Lo Stato-legislatore con il proprio comportamento cagiona un danno ai cittadini, privandolo dei diritti riconosciuti a livelli sovrannazionale; lo priva di un diritto che gli sarebbe dovuto sulla base della direttiva europea.

Quale responsabilità sorge in capo allo Stato? Se configuriamo i rapporti tra i due ordinamenti sulla base della teoria dualistica (separazione degli ordinamenti), la direttiva è una fonte UE, la norma che riconosce il diritto al cittadino è una norma di un ordinamento diverso da quello interno; il legislatore ha l’obbligo di attuare quella direttiva, riconoscendo quel diritto, nell’ordinamento europeo, ma non in quello interno. L’obbligo vigente in capo al legislatore di attuare quella direttiva sorge in virtù di una fonte del diritto dell’UE; il legislatore non ha un pari obbligo nell’ordinamento interno, in quanto la direttiva non appartiene alle fonti del diritto interno, non entra nella gerarchia delle fonti del diritto interno. Se il legislatore non attua la direttiva, pone in essere – nell’ordinamento interno – un comportamento non antigiuridico, pone in essere un fatto non illecito, perché non sussistendo un obbligo di attuazione nell’ordinamento interno, non viola nessun obbligo, e se non viola nessun obbligo non c’è nessun comportamento antigiuridico, cioè non c’è nessuno illecito.

La responsabilità dello Stato, in un’ottica dualistica, sarebbe responsabilità da atto lecito dannoso – teoria sposata dalle Sezioni Unite. Aderendo alla teoria dualistica, lo Sato non ha l’obbligo nell’ordinamento interno, ma solo in quello UE; per cui se il legislatore non l' attua, non viola nessun obbligo dell’ordinamento interno; se non c’è violazione non c’è antigiuridicità; se non c’è antigiuridicità, non c’è illecito; se non c’è illecito, non può esserci responsabilità aquiliana. La responsabilità dello Stato legislatore è da atto non illecito, ed in quanto tale un atto non illecito nel nostro ordinamento si configura come atto lecito – principio di libertà, principio generale ed esclusivo. Di conseguenza lo Stato non è obbligato a risarcire il danno al cittadino, è obbligato all’indennizzo del danno. Il risarcimento sorge da illecito; ma quando il fatto è lecito, la responsabilità non comporta risarcimento, ma indennizzo – tecnica rimediale del diritto civile ben diversa dal risarcimento del danno, perché quest’ultimo è la conseguenza di un comportamento, di un fatto non iure, cioè antigiuridico che comporta un fatto contra ius. Il risarcimento del danno ruota intorno ad una visione vittimologica, tende a tutelare il danneggiato garantendogli una riparazione integrale del danno, cioè il risarcimento del danno addossa il costo del fatto illecito in capo al danneggiante che lo ha commesso. Il danneggiato ha commesso un fatto illecito, da ciò ne deriva una responsabilità risarcitoria in capo a quest’ultimo. L’indennizzo non ha una funzione risarcitoria-riparatoria, ha una funzione – da come risulta letteralmente – indennitaria, che persegue ragioni di equità. L’indennizzo tende a contemperare la sfera del danneggiante con quella del danneggiato, perché il danneggiante non ha commesso un fatto illecito, egli ha posto in essere un fatto lecito dal quale ne è derivato un danno ingiusto, ma questo non è la conseguenza del fatto illecito. Per cui non può addossarsi sul danneggiante tutta la conseguenza del fatto lecito, si cerca l’equilibrio tra la riparazione del danno subito dal danneggiato tenendo in debita considerazione il fatto che il danneggiante non ha posto in essere una condotta antigiuridica. L’indennizzo, sulla base delle ragioni esplicate, ha una portata quantitativa sicuramente minore di quella del risarcimento.

Nella nota pronuncia delle Sezioni Unite, sulla responsabilità dello Stato-legislatore, si ha una qualifica di danno derivante da fatto lecito, che ne comporta l’obbligo di indennizzo; la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario è stata per la prima volta riconosciuta  con la sentenza 19 novembre 1991, pronunciata a definizione del celebre caso Francovich (Cause riunite C-6/90 e C-9/90, in Racc. p. I-5357).

Nella sentenza è rinvenibile un passaggio che sembrerebbe a prima vista contraddittorio: le Sezioni Unite affermano che il comportamento dello Stato non è antigiuridico – nella prospettiva dualistica - salvo poi affermare che il fatto dello Stato è illecito. Le due affermazioni sembrano contraddittorie: o il comportamento è antigiuridico e si è alla presenza di un fatto illecito, o il comportamento non è antigiuridico e il fatto è lecito.

In realtà il passaggio argomentativo si spiega proprio alla luce della teoria dualistica, le Sezioni Unite non si stanno contraddicendo, ma semplicemente sposano la teoria dualistica; il comportamento dello Stato nell’ordinamento interno non è antigiuridico, ma lo è nell’ordinamento dell’UE, ove viene qualificato come illecito. Nel secondo diviene illecito, a fronte dell’obbligo dello Stato di attuare quella direttiva. Il comportamento dello Stato risulta al contempo iure e non iure, è contemporaneamente giuridico nell’ordinamento interno e antigiuridico nell’ordinamento europeo. Solo che la responsabilità non è una materia disciplinata dall’ordinamento europeo, non rientra nelle competenze di quest’ultimo. La responsabilità rimane nella piena competenza degli Stati nazionali, è disciplinata sulla base delle regole nazionali. L’ordinamento nazionale in caso di un comportamento che non è – in quell’ordinamento – antigiuridico, prevede come rimedio la responsabilità da atto lecito danno e di conseguenza accorda una tutela meramente indennitaria.

Si nota come muti la disciplina alla luce dell’adesione di una teoria piuttosto che dell’altra. Vediamo come si atteggia il medesimo fatto nell’orbita della teoria monistica. In rifermento ciò si comprende il revirement della giurisprudenza, che le sezioni semplici della Cassazione definiscono una interpretazione della sentenza delle Sezioni Unite, ma in realtà è un vero e proprio cambio di rotta.

Se ragioniamo in termini monistici, nella prospettiva della teoria dell’integrazione dei due ordinamenti, con la conseguenza che il sistema delle fonti è unico, allora il legislatore ha l’obbligo di attuare la direttiva anche nell’ordinamento interno. Dal momento che i due ordinamenti non sono più separati e distinti, ma sono integrati tra loro, l’obbligo di attuare alla direttiva, legittimando nell’ordinamento interno i diritti del cittadino riconosciuti dalla direttiva, è interno all’ordinamento interno. Di conseguenza se il legislatore se non attua la direttiva, pone in essere - nell’ordinamento interno - la violazione di un obbligo, cioè pone in essere un comportamento antigiuridico, cioè un fatto non iure, che cagiona un danno contra ius: non si può più configurare una responsabilità da atto lecito dannoso. La responsabilità dello Stato diviene una responsabilità da atto illecito, con l’obbligo del risarcimento del danno, il risarcimento integrale del danno. Il problema diviene la qualificazione giuridica di questa responsabilità dello Stato. Nel codice civile le forme di responsabilità disciplinate sono due: da inadempimento (di cui quella contrattuale è una species) (1) e extracontrattuale o aquiliana.

Essendo questa l’impostazione dell’ottica del sistema, la responsabilità dello Stato legislatore che cagiona un danno al cittadino, è una responsabilità aquilina o da inadempimento? È da inadempimento, in quanto sullo Stato grava l’obbligo di attuare la direttiva. Il comportamento dello Stato che non attua direttamente la direttiva non è un fatto, ma è la violazione di un obbligo, che ex lege deriva dall’adesione dello Stato all’UE. La responsabilità dello Stato non può che essere da inadempimento, con l’applicazione delle norme sulla prescrizione e l’onere della prova derivante dalla disciplina dell’art. 1218 c.c.

Questa è la posizione che si è cristallizzata nella giurisprudenza maggioritaria. Per questi motivi si comprende come la posizione delle sezioni semplici non è un’interpretazione di quanto affermato dalle Sezioni Unite – che si fondava sulla teoria dualistica – ma è un revirement, che attua una diversa visione del rapporto tra i due ordinamenti. Si passa da una responsabilità per atto lecito dannoso ad una responsabilità per fatto illecito, che porta con sé la conseguenza del risarcimento del danno da inadempimento di un obbligo preesistente.

3.2. Seconda ipotesi

Se le fonti Ue sono sovraordinate, c’è l’obbligo di interpretare le norme interne in conformità con quelle europee. Obbligo di interpretare in maniera conforme; obbligo che riguarda non solo il giudice ma anche la PA, nell’emanazione di provvedimenti e adozioni di atti amministrativi.

3.3. Terza ipotesi

Dall’interpretazione delle norme interne all’interpretazione delle norme UE. L’interpretazione di quest’ultime è accentrata, il sindacato sulle norme UE è accentrato, spetta alla Corte di Giustizia, perché occorre garantire l’applicazione uniforme su tutto il territorio dell’Unione. Da ciò ne discende l’obbligo del giudice nazionale di ultimo grado di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sull’interpretazione delle norme UE. Il giudice che ha un dubbio sull’interpretazione, non può dirimerlo ex se, ma deve rimettere la questione al giudice europee deputato a ciò.

3.4. Quarta ipotesi

Nonostante l’interpretazione delle norme interne ed europee, sussiste un contrasto non sanabile in via interpretativa, come si risolve il contrasto? Attenzione, gli strumenti per risolvere il contrasto sono due:

  • Solo quando il contrasto è tra una norma interna e una norma dell'UE di diretta applicazione, la norma ha effetti diretti, ha efficacia diretta (cd. self-executing, nella specie Regolamenti, Sentenze, Principi generali del diritto UE, Direttive auto-applicative non lasciando margini di discrezionalità al legislatore), allora lo strumento è la DISAPPLICAZIONE, che è uno strumento di SINDACATO DIFFUSO, cioè il giudice a quo, il giudice della singola controversia, rilevato il contrasto, disapplica nella singola controversia la norma, tamquam non esset.
  • Quando il contrasto è tra norme interna e norma di non diretta applicazione, lo strumento non è la disapplicazione, il giudice a quo non può disapplicare la norma interna che contrasti con quella europea, lo strumento non è più il sindacato diffuso, ma il sindacato ACCENTRATO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE. Il giudice a quo deve rimettere la questione di fronte alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., il primo perché mette in rilievo la cedevolezza dell’ordinamento interno di fronte alla norma europea, il secondo perché questa norma obbliga il legislatore ha rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo.

Note e riferimenti bibliografici

(1) *La responsabilità contrattuale non è un genus, ma semplicemente una species di quella da inadempimento.  La responsabilità da atto lecito non è tipizzata, viene rinvenuta nelle maglie del sistema; però si qualifica comunque come una specie di responsabilità. A questa tipologia se ne affiancano altre due: aquiliana art. 2043 c.c. e da inadempimento art. 1218 c.c.

Il sistema è improntato a questo dualismo: quando il danno è la conseguenza di un fatto per cui fatto-danno, si configura la responsabilità aquiliana; quando, invece, il danno è la conseguenza dell’inadempimento di un obbligo preesistente, quale che sia la sua fonte, si configurala responsabilità da inadempimento. La responsabilità contrattuale è una responsabilità da inadempimento che si configura quando una fonte dell’obbligo preesistente inadempiuto è il contratto. Quindi, ogni qualvolta il danno deriva dall’inadempimento di un obbligo, quale ne sia la fonte, la responsabilità è da inadempimento, non contrattuale. Se la fonte di un obbligo è di natura legale o contattuale (cioè da contatto giuridico qualificato), deriva l’obbligo di protezione. Si afferma erroneamente che la responsabilità è contrattuale, quando dovrebbe precisarsi che la responsabilità è da inadempimento di un obbligo preesistente; obbligo di protezione-danno-risarcimento ex art. 1218 c.c. Se l’obbligo non ci fosse stato il rapporto sarebbe stato con un fatto, principio del neminem laedere, quindi fatto-danno-responsabilità aquiliana.