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Pubbl. Gio, 25 Mag 2017

Stalking: lo stato di apprensione non può essere solo "verosimile"

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Massimiliano Pace


La Corte di Cassazione si è di recente espressa sulla idoneità dello stato di apprensione a costituire evento del reato ai sensi dell´art. 612 bis con riferimento alla mera verosimiglianza non adeguatamente supportata da elementi sintomatici provati in giudizio


Il reato di atti persecutori, disciplinato e punito all’art. 612 c.p., è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano con il decreto legge n. 11 del 20 febbraio 2009 con cui il legislatore penale ha provveduto a criminalizzare il c.d. fenomeno dello stalking, in linea con le scelte di politica criminale già perseguite da altri ordinamenti penali.

Come è noto il reato si configura come fattispecie plurioffensiva in ragione dei beni giuridici tutelati da ricondursi tanto alla libertà di autodeterminazione della vittima, quanto alla tranquillità personale e alla salute mentale e fisica della stessa. Sul piano oggettivo il reato di stalking si caratterizza per la costruzione normativa della condotta tipica in termini di necessaria reiterazione nel tempo delle minacce ovvero delle molestie, ed è pertanto da ritenere una fattispecie abituale che richiede la continuità e la ripetitività nel tempo delle condotte descritte all’art. 612 c.p. In particolare, trattandosi di un reato di evento e non di pericolo (o di mera condotta), l’evento stesso è predeterminato dal disposto normativo che individua in tre gli eventi possibili, ovvero la determinazione nella vittima di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, un fondato timore per la propria incolumità, e in ultimo il cambiamento delle abitudini di vita.

La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte con Sentenza depositata in cancelleria il 16 marzo 2017, si è da ultimo espressa in ordine alla fattispecie di atti persecutori con riferimento alla idoneità dello stato di apprensione ad integrare il reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis.

La sentenza a commento prende in esame il primo evento indicato il quale, stante la consolidata giurisprudenza sul punto, presuppone uno stato di stress che sia quantificabile e misurabile in base ad un criterio diagnostico omogeneo, necessariamente in rapporto causale con la condotta dell'agente determinante il disagio emotivo e la destabilizzazione della serenità della vittima. Ed invero, la giurisprudenza di legittimità più recente, in punto di accertamento dell’elemento oggettivo del reato di atti persecutori, ritiene che gli eventi alternativi possono rilevare ai fini della configurabilità del reato in esame anche sulla scorta del complesso degli elementi fattuali acquisiti e comunque dalla natura dei comportamenti dell’agente, nonché delle effettive condizioni di tempo e di luogo in cui la condotta si è consumata (sul punto in particolare v. Cass. sez. V 14391/12, sez. VI 50746/14, sez. V 47195/15). Orbene,  il giudice è pertanto chiamato a stabilire tanto la sussistenza dell'evento lesivo, quanto il nesso di causalità intercorrente con la condotta al fine di accertare l'imputazione a carico dell'agente degli atti persecutori perpetrati ai danni della vittima.

La vicenda alla base del ricorso per Cassazione da cui è scaturita la sentenza in esame, muove da una ricostruzione in diritto operata dal giudice del riesame da cui è emersa una nozione del “verosimile” stato di costante apprensione. Il Tribunale del Riesame, infatti, ha ritenuto che “le persone offese subissero vessazioni e soprusi tali da determinare uno stato di costante apprensione oggettivamente sussistente”.

Sul piano processuale, rileva la Suprema Corte, gli elementi su cui ancorare la sussistenza del reato devono essere specifici e chiari così da consentirne un’univoca individuazione e valutazione. I giudici di legittimità non ravvisano alcuna compatibilità tra lo stato di semplice apprensione -o anche il fondato timore per la incolumità propria o di quella dei familiari ivi incluso il timore per una alterazione delle proprie abitudini di vita- con gli eventi descritti nella fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., e ciò in quanto “ontologicamente non assimilabili”. Sul punto, peraltro, si osserva che per come formulata, la norma ha posto dubbi di legittimità costituzionale circa la conformità con il principio di tassatività, risolti comunque in senso negativo dalla Corte Costituzionale che con la Sentenza n. 172 del 2014 ha ritenuto che il reato di stalking costituisce una specificazione delle fattispecie di molestie o di minacce, non violando quindi la determinatezza della incriminazione, a nulla rilevando il fatto che la tecnica legislativa non abbia portato altresì all’enumerazione dei comportamenti sanzionati. In termini di accertamento, tuttavia, la stessa Consulta ha affermato che spetta al giudice accertare in concreto l’idoneità della condotta di cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e pertanto il nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti alla vita privata della persona offesa.

Ciò posto, l’importanza della pronuncia in esame è da ricondursi alla stessa qualificazione degli elementi costitutivi della fattispecie descritta all’art. 612 bis e quindi agli eventi sopra definiti, rispetto ai quali il generale stato di apprensione continuativa, ritenuto sussistente nel provvedimento impugnato, non costituisce elemento costitutivo della stessa. Pertanto, non è sufficiente un riferimento generico allo “stato di tensione e disagio psicologico” a fondamento del “verosimile stato di apprensione”, stante la difficoltà di inquadrare tale status entro uno dei tre eventi tipici, alternativamente previsti come elementi costitutivi del reato. Ne deriva che lo stato di apprensione può determinare uno di siffatti eventi, ma dovrà essere ritenuto sussistente sulla scorta di specifici e chiari elementi “necessitanti una univoca individuazione e valutazione”.

Nella vicenda in concreto esaminata dalla Suprema Corte, infatti, il Tribunale del riesame non ha specificato, in motivazione, lo stato di grave e perdurante ansia e timore (ancorché stato patologico) limitandosi a richiamare la querela della persona offesa senza ulteriormente soffermarsi sul contenuto. La verosimiglianza cui allude in motivazione, pertanto, entra irrimediabilmente in contrasto con l’affermazione della sussistenza del reato così come descritto all’art. 612 bis, in particolare se si considera la letteratura giurisprudenziale in ordine alla prova dell’evento del reato in siffatta fattispecie penale incriminatrice. Già la consolidata giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare in più occasioni, infatti, che lo stato di perdurante ansia e paura prescinde da un vero e proprio stato patologico quindi non richiede necessariamente una perizia medica, ma in questo caso il giudice dovrà “argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza” (Così da ultimo Cass. Pen. n. 30334 del 15 luglio 2016). Così chiarita la giurisprudenza relativa al primo degli eventi del reato di stalking, è necessario infine osservare come autorevole dottrina ha ritenuto che la ricostruzione giudiziale basata su criteri di senso comune (e non su parametri scientifici propri del sapere medico), comporta il rischio di una approssimazione degli stati psicologici descritti, peraltro utilizzati nel linguaggio comune come sinonimi equivalenti (sul punto in particolare Fiandaca – Musco). Il problema della complessità della valutazione dello stato di ansia e di timore, ha costituito oggetto del dibattito, anche dottrinario, in ordine ai criteri e alle modalità di accertamento dell'evento. Ed invero, muovendo dalla teoria condizionalistica ormai consolidata a partire dalla sentenza Franzese del 2002, il giudice dovrà adottare il giudizio di probabilità logica come parametro di accertamento della causalità penale, attraverso la sussunzione del fatto sotto le leggi scientifiche.

Si comprende, dunque, come alla luce della ricostruzione proposta, la recente sentenza della Suprema Corte, che ha escluso la rilevanza della “verosimiglianza” dello stato di apprensione, può costituire utile spunto interpretativo in relazione al rigore che il giudice di merito è chiamato a seguire nell’iter argomentativo e motivazionale così evitando di incorrere in “apodittiche” affermazioni di responsabilità basate su elementi non adeguatamente valutati.