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Pubbl. Mer, 19 Apr 2017

Sentenza dichiarativa di fallimento: non più elemento costitutivo del reato di bancarotta. La svolta della giurisprudenza di legittimità.

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Stefania Tirella


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13910/2017, ha mutato il proprio pluridecennale orientamento sulla natura della sentenza dichiarativa di fallimento, aderendo alla posizione della dottrina che la qualifica come condizione obiettiva di punibilità.


Indice: 1. Premessa; 2. La posizione della dottrina; 3a. L’evoluzione della giurisprudenza. L’ orientamento consolidato; 3b. L’evoluzione della giurisprudenza. Una pronuncia “fuori dal coro”: la sentenza Corvetta; 3c. L’evoluzione della giurisprudenza. La svolta rivoluzionaria della Corte di Cassazione: la sentenza Santoro.

1. Premessa.

La sentenza n. 13910/2017[1] della Corte di Cassazione rappresenta un importante cambio di rotta rispetto al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità sul tema della natura della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta prefallimentare.

La questione ruota intorno al significato da attribuire all’inciso “se è dichiarato fallito” di cui all’art. 216 L.F che, al primo comma, comprende le due ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale e bancarotta fraudolenta documentale pre-fallimentare.

Si tratta, in altre parole, di quelle condotte poste in essere dall’imprenditore non ancora dichiarato fallito, che cagionano un danno alle ragioni del ceto creditorio e che integrano il reato di bancarotta una volta che, ricorrendone tutti i presupposti, intervenga la sentenza dichiarativa di fallimento.

Si tratta allora di comprendere se tale sentenza rappresenti un elemento della fattispecie di reato, che contribuisce quindi a integrare e a rafforzare il disvalore penale di una condotta che, in assenza della sentenza, sarebbe lecita, oppure se si tratti di una condizione al ricorrere della quale il Legislatore, per una scelta di politica criminale, ricollega l’applicazione di una pena ad un fatto che tuttavia considera già di per sé riprovevole e antigiuridico.

La questione, lungi dal rappresentare una disputa meramente teorica, ha visto confrontarsi due tesi: l’una (quella della giurisprudenza) che qualificava la sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato, l’altra (quella della dottrina) che la classifica come condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 c.p.

La pronuncia in commento rappresenta un arresto epocale, in quanto aderisce in maniera espressa alla tesi della dottrina, contestando il percorso seguito in precedenza dalla giurisprudenza, sebbene sia ancora presto per dire se si tratti dell’inizio di una nuova era o di un caso destinato a rimanere isolato.

2. La posizione della dottrina.

La dottrina ha da sempre manifestato sulla questione un orientamento piuttosto uniforme, qualificando la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 c.p.

Articolo 44. Condizione obiettiva di punibilità.

Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto.

L’istituto della condizione obiettiva di punibilità è in realtà uno dei più controversi del nostro Codice Penale, non trovando in esso una definizione compiuta.

 Il dato certo è che la condizione debba essere incerta e concomitante o futura, non potendo essere invece antecedente alla consumazione del reato.

Secondo autorevole dottrina[2], le condizioni obiettiva di punibilità svolgono una duplice funzione.

Da un lato una funzione di selezione dei comportamenti che meritano di essere sanzionati, in considerazione del fatto che, in talune ipotesi, l’intervento penale potrebbe rappresentare un elemento di possibile aggravamento della situazione, cosicché una punizione incondizionata potrebbe risolversi in una deleteria compromissione di interessi meritevoli di considerazione e tutela.

Dall’altro lato, la puntuale previsione di queste condizioni da parte del legislatore evita che sia il giudice a poter accertare nel caso concreto, in base al proprio convincimento e alla propria sensibilità, la “meritevolezza della pena”, salvaguardandosi in questo modo il principio di legalità.

Le condizioni obiettive di punibilità vengono poi distinte in intrinseche ed estrinseche.

Le condizioni intrinseche sono quelle che “arricchiscono la sfera dell’offesa del reato”[3], mentre quelle estrinseche non aggiungono nulla alla lesione del bene tutelato, risolvendosi solamente in una valutazione di opportunità di punibilità di un fatto già pienamente offensivo.

La dottrina ha attribuito alla sentenza dichiarativa di fallimento il ruolo di condizione obiettiva di punibilità estrinseca, in quanto la condotta posta in essere dall’imprenditore nella fase antecedente alla dichiarazione di fallimento rappresenterebbe già di per sé un fatto antigiuridico e pienamente offensivo.

Se è vero infatti che l’imprenditore, ex art. 41 Costituzione, ha il diritto di svolgere in maniera libera l’iniziativa economica e che l’art. 42 Costituzione riconosce il diritto alla proprietà privata, inteso come diritto di disporre in modo pieno ed esclusivo della cosa[4], è altrettanto vero che il diritto di proprietà e di iniziativa economica incontrano dei limiti ben precisi, consistenti rispettivamente nel non svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e nello scopo di assicurare la funzione sociale dell’attività imprenditoriale.

Tali limiti prendono poi forma in numerose norme del codice, tese a responsabilizzare il debitore, chiamato a rispondere dell’adempimento delle proprie obbligazioni con l’intero patrimonio (comprensivo di beni presenti e futuri)[5] e a rispettare il principio della par condicio creditorum, valevole sia prima che dopo una eventuale dichiarazione di fallimento.

Alla luce di tali considerazioni, è stato osservato[6] come la condotta posta in essere dall’imprenditore e consistente nei fatti di cui all’art. 216, primo comma, l.f sia già pienamente offensiva degli interessi tutelati, in particolare degli interessi dei creditori, risolvendosi pertanto la sentenza che dichiara il fallimento semplicemente in una condizione al ricorrere della quale il legislatore ritiene opportuno che si sanzioni penalmente l’imprenditore decotto.

L’imprenditore non ancora dichiarato fallito, infatti, è un imprenditore ancora potenzialmente in grado di pagare i debiti, di risollevare la propria attività e di soddisfare le ragioni creditorie, con la conseguenza che, se l’azione penale potesse essere esercitata prima e a prescindere da una sentenza che dichiari l’irreversibilità della crisi, si potrebbe “affossare” una situazione ancora recuperabile.

Trattandosi pertanto di una condizione oggettiva di punibilità estrinseca e non di un elemento costitutivo del reato, non sarebbe necessario individuare il nesso causale tra la condotta e la sentenza dichiarativa di fallimento, né accertare che l’elemento soggettivo del dolo abbia riguardato anche la dichiarazione del dissesto (o, per meglio dire, il suo presupposto).

3a. L’evoluzione della giurisprudenza. L’ orientamento consolidato.

L’esposto orientamento della dottrina non è mai stato accolto dalla giurisprudenza di legittimità, che ha invece optato per la tesi della natura di elemento costitutivo del reato, fin dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 2/1958, che definì la sentenza dichiarativa di fallimento quale “condizione di esistenza del reato”.

La giurisprudenza successiva si è poi uniformata in tal senso, precisando tuttavia che, non potendosi qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come “evento” del reato, non debba essere collegata da nesso psicologico al soggetto agente né si debba accertare un nesso di causalità tra essa e la condotta.

Si tratterebbe di una condizione di esistenza del reato che ne segna il momento consumativo, essendo d’altra parte una facoltà del legislatore individuare elementi costitutivi estranei alla dicotomia evento-condizione obiettiva di punibilità.

La soluzione risponde allo scopo di determinare, attraverso una ricostruzione certa del momento consumativo, tanto il locus commissi delicti quanto il tempus commissi delicti, risolvendo agevolmente i problemi processuali legati alla individuazione della competenza territoriale e del termine di decorrenza della prescrizione.

Le certezze di tale orientamento hanno tuttavia iniziato a mostrare i primi segni di cedimento in una pronuncia del 2012, la sentenza Corvetta.

3b. L’evoluzione della giurisprudenza. Una pronuncia “fuori dal coro”: la sentenza Corvetta.

La sentenza Corvetta del 2012 costituisce l’unica sentenza che, pur collocandosi all’interno dell’orientamento a favore della natura di elemento costitutivo del reato della pronuncia dichiarativa di fallimento, giunge a conclusioni diametralmente opposte.

Nella pronuncia in questione, infatti, la Corte di Cassazione, alla ricerca forse di una maggiore coerenza, qualifica la dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo del reato, ma, spingendo fino alle estreme conseguenze tale classificazione, la qualifica anche come evento dello stesso.

Per la Corte infatti, l’elemento costitutivo in realtà non può che essere anche evento naturalistico del reato.

Corollario di questo cambio di prospettiva è la necessità di effettuare un duplice accertamento.

Sorge pertanto la necessità di accertare, in primis, il nesso di causalità tra gli atti gestori e l’evento (i.e il dissesto) e, in secondo luogo, l’elemento soggettivo della volontà e rappresentazione rispetto a quest’ultimo.

Viene infatti affermato che “la tesi secondo cui la dichiarazione di fallimento si inserisce nella fattispecie di reato quale elemento essenziale comporta quale inevitabile conseguenza l’applicabilità dei principi già più volte richiamati, di cui agli artt. 40, 41, 42, 43 cod. pen.; trattasi di principi generali del nostro diritto penale che non possono essere obliterati sulla semplice ed invero non giustificata affermazione che il fallimento non è evento del reato di bancarotta fraudolenta. Quando un elemento è essenziale per l’esistenza stessa del reato, non c’è alcun bisogno che la norma ci ricordi che deve essere coperto dal dolo e, se si tratta di evento, che sia anche in collegamento causale con la condotta.”

Proprio tale assunto viene aspramente criticato da una successiva sentenza, la sentenza Parmalat[7], la quale ribadisce invece che “la dichiarazione di fallimento non costituisce l’evento del reato di bancarotta distrattiva, sicché sarebbe arbitrario pretendere un nesso eziologico tra la condotta, realizzatasi con l’attuazione di un atto dispositivo che incide sulla consistenza patrimoniale di un’impresa commerciale, e il fallimento; con la conseguenza per cui né la previsione dell’insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, né la percezione della sua stessa preesistenza nel momento del compimento dell’atto possono essere condizioni essenziali ai fini dell’antigiuridicità penale della condotta.”

3c. L’evoluzione della giurisprudenza. La svolta rivoluzionaria della Corte di Cassazione: la sentenza Santoro.

Nel contesto giurisprudenziale del quale si è appena reso conto, la sentenza Santoro rappresenta un vero e proprio revirement.

La Corte aderisce infatti all’impostazione propria della dottrina, così superando gli aspetti di incoerenza insiti nell’orientamento giurisprudenziale classico.

Sul piano pratico, per la verità, non si riscontrano significative differenze.

Sul piano dell’indagine dell’elemento soggettivo del dolo, continua a non si richiedersi che esso riguardi anche la dichiarazione di fallimento, con la differenza che ciò viene ora giustificato dalla circostanza che essa non è considerata elemento costitutivo del reato, ma una condizione oggettiva di punibilità estrinseca. Si appannano così i dubbi sul mancato rispetto del principio sancito dalla Corte Costituzionale, nella sentenza 364/88, a tenore della quale è necessario che “tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano cioè investiti dal dolo o dalla colpa)”.

Continua a non richiedersi l’accertamento del nesso causale tra condotta e dissesto, in quanto si inquadra il reato di bancarotta prefallimentare nella categoria dei reati di pericolo concreto e non in quella dei reati di evento.

Il termine di prescrizione continua a decorrere dal giorno della sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto, ai sensi dell’art. 158 secondo comma c.p, “quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata.” 

Per quanto riguarda  invece il locus commissi delicti, il problema appare a primo acchito di più complessa risoluzione, a causa dell’assenza di norme specifiche nel caso in cui il reato preveda una condizione oggettiva di punibilità.

A ben vedere tuttavia, una soluzione può essere facilmente individuata, come suggerisce autorevole dottrina[8], guardando al dato sistematico. Prima del verificarsi dell’evento dedotto come condizione di punibilità, infatti, non vi è ancora un fatto dotato di rilevanza penale, con la conseguenza che il luogo di commissione del reato va identificato con quello in cui la condizione si verifica.

A ben vedere dunque, qualora la giurisprudenza di legittimità si dovesse uniformare all’indirizzo intrapreso dalla sentenza Santoro, le implicazioni pratiche non sarebbero molto diverse, con la differenza però di fornire alle stesse delle più solide impalcature logico-giuridiche.

Note e riferimenti bibliografici
[1] Cass. Pen. Sez. V. 22 marzo 2017, n. 13910.
[2] NEPPI-MODONA, Concezione realistica del reato e condizioni obiettive di punibilità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1971, 186 e seg.
[3] F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 8° edizione, Cedam.
[4] Art. 832 cc.
[5] Art. 2740 cc.
[6] G. BAFFA, La velata ammissione di colpa dei giudici di legittimità: la sentenza dichiarativa di fallimento è (e non può non essere) condizione oggettiva di punibilità nei reati di bancarotta prefallimentare, in Giurisprudenza Penale.
[7] Cass. Pen. Sez. V 7 marzo 2014 n. 32352.
[8] F. MUCCIARELLI, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario tra teoria e prassi?, in Diritto Penale Contemporaneo, Riv. Trimestrale 4/2015.


Note e riferimenti bibliografici