Pubbl. Lun, 3 Apr 2017
Delitto circostanziato tentato e configurabilità del tentativo in relazione al delitto di furto di speciale tenuità
Modifica paginaIndividuati i criteri di distinzione tra circostanze ed elementi costitutivi del reato, è di assoluta rilevanza, ai fini della tematica de qua, analizzare i rapporti giuridici intercorrenti tra gli istituti della circostanza e del tentativo, facendo particolare riferimento alle due fattispecie di reato in oggetto.
Individuare i criteri di distinzione tra circostanze ed elementi costitutivi del reato è uno dei problemi più controversi in quanto non sussiste alcun tipo di differenza a livello ontologico-qualitativo. Il legislatore potrebbe attribuire al medesimo elemento la prima o la seconda connotazione tecnica come avviene ad esempio in merito all’abuso dei poteri inerenti una pubblica funzione, che in genere è ritenuta essere un aggravante ex art. 61, n. 9, c.p., ma nulla impedisce al legislatore di valutarlo come elemento costitutivo ex art. 323 c.p.
In dottrina sono state elaborate varie tesi finalizzate ad evidenziare i caratteri distintivi tra circostanze ed elementi costitutivi.
I fautori della prima tesi, denominata “tesi dell'accessorietà”, hanno utilizzato il carattere dell’accessorietà per identificare le circostanze, evidenziando anche un altro fattore, che le circostanze sono elementi accidentali, irrilevanti ai fini dell’esistenza dell’illecito, mentre gli elementi costitutivi hanno un’efficacia qualitativa. Le critiche mosse nei confronti di questa tesi vertono principalmente sulla mancata enunciazione di un criterio distintivo dell’individuazione della situazione di fatto come elemento accidentale o meno rispetto al reato e anche il criterio per individuare gli elementi accessori o gli elementi essenziali del reato.
Secondo un altro indirizzo dottrinario denominato “tesi dell’inidoneità a ledere il bene protetto”, le circostanze sarebbero inidonee a ledere il bene giuridico protetto, a differenza degli elementi costitutivi che sarebbero in grado di alterare il piano dell’offesa. Anche questa tesi come la prima è respinta dalla dottrina prevalente, poiché per poter accertare l’offesa non si può prescindere dal distinguo di elementi costitutivi ed accidentali.
Una terza corrente dottrinaria sostiene la “tesi della diversa struttura della norma” ponendo l’accento su un carattere distintivo insito nella struttura logica della norma, in quanto il reato contiene un precetto primario diretto ai consociati ,invece le circostanze hanno un precetto secondario rivolto al giudice, rilevante solo ai fini sanzionatori. Le critiche mosse nei confronti di questa teoria sono simili a quelle esternate nei confronti della tesi dell’ inidoneità a ledere il bene protetto , poiché anche in questo caso viene fatta una valutazione aprioristica che non può precedere l’opzione interpretativa, tutt’ al più potrebbe orientarne la sistemazione successiva.
Risulta poco convincente anche la tesi (elaborata prima della L. n. 19/90) di coloro che optano, nel dubbio, per la natura di elemento costitutivo o di circostanza del reato, partendo dal presupposto che la responsabilità oggettiva costituisca un’eccezione nel sistema dell’imputazione penale e, dunque, si sarebbe dovuto nel dubbio affermare la natura di elemento essenziale, il quale avrebbe consentito l’imputazione soggettiva. I dubbi in merito a questa tesi sorgono dal fatto che poggiando su un principio di favor rei, tale criterio non sarebbe invocabile per le circostanze attenuanti.
Un’ultima tesi finalizzata ad evidenziare le differenze tra elementi costitutivi e circostanze del reato valorizza la relazione di specialità. In particolare, tra il reato circostanziato e il reato semplice deve intercorrere un rapporto di specialità, dovendo il primo costituire una sottofattispecie della fattispecie del reato semplice, in cui rientra integralmente come una sua ipotesi particolare. La critica mossa verte sul fatto che un rapporto di specialità è riscontrabile non soltanto rispetto a figure circostanziate, ma anche rispetto a figure autonome di reato.
Una volta terminata la disamina delle cinque posizioni dottrinali tese ad evidenziare le differenze intercorrenti tra circostanze ed elementi costitutivi del reato, per analizzare le ragioni sottese al rapporto tra circostanze e tentativo giova evidenziare che in questo rapporto estremamente complesso e articolato subentra il disposto normativo enunciato dal legislatore nell’art. 56 c.p., il quale non dispone nulla in relazione alle circostanze, fatta eccezione per la sola specifica previsione del pentimento operoso.
La vexata quaestio riguarda soprattutto le modalità attraverso cui le circostanze del reato possano interferire rispetto ad un ipotesi di fattispecie tentata.
A tal proposito la dottrina ha elaborato tre figure: la prima è il delitto tentato circostanziato, nel quale le circostanze si sono compiutamente realizzate nell’ambito del delitto tentato; la seconda figura è il delitto circostanziato tentato, nel quale le circostanze non sono state realizzate, ma rientrano nel proposito criminoso dell’agente e gli atti compiuti si presentano idonei e diretti in modo non equivoco a commettere il delitto circostanziato; ed infine la terza ipotesi riguarda il delitto circostanziato tentato circostanziato.
Analizzando nello specifico la seconda fattispecie, ovvero il delitto circostanziato tentato, la tesi prevalente in dottrina ritiene che sia giuridicamente ammissibile la sola ipotesi del tentativo circostanziato di delitto, negando qualsiasi rilevanza all’ipotesi del tentativo di delitto circostanziato.
Quanto appena affermato trova un suo fondo di veridicità in base a tre considerazioni: la prima è che il nostro ordinamento non conosce la circostanza meramente tentata, la seconda considerazione verte sul fatto che la disciplina obiettiva posta per le circostanze non consente di attribuire rilevanza giuridica ad una circostanza putativa o ipotetica, ed infine che le circostanze incentrate sulla realizzazione di un evento risultano ontologicamente incompatibili con una forma di reato, come il tentativo, che prescinde necessariamente dalla verificazione del risultato.
Contrariamente, un indirizzo minoritario, partendo dall’ idea che le circostanze rappresentano elementi costitutivi di una nuova fattispecie che si aggiunge a quella base, giunge a ritenere che il tentativo di delitto circostanziato trovi il suo fondamento giuridico nello stesso art. 56 c.p.
Dunque secondo tale impostazione l’art. 56 c.p. svolgerebbe la sua funzione estensiva dando luogo a nuove figure di delitti tentati, non solo nei confronti delle fattispecie semplici, ma anche rispetto alle fattispecie circostanziate, trattandosi in entrambi i casi di fattispecie incriminatrici.
Secondo tale indirizzo dottrinario, gli argomenti dinanzi accennati sarebbero facilmente superabili in quanto: per la prima considerazione si rileva che ad essere tentata non è la singola circostanza ma tutta la fattispecie circostanziata; per quanto riguarda la considerazione successiva si replica che non si tratta di applicare una circostanza non realizzata, ma di tenere giuridicamente conto del fatto che nel tentativo di delitto circostanziato la condotta dell’ agente è rivolta alla realizzazione del reato semplice ma circostanziato; ed infine per quanto riguarda la terza considerazione si sottolinea che le circostanze relative del reato sono perfettamente compatibili con il delitto circostanziato tentato se di esse si tiene conto non come entità realizzate, bensì come entità rientranti nel piano esecutivo del delitto perfetto.
Successivamente, sempre ad opera della dottrina, nel tentativo di verificare l’ammissibilità ontologica delle singole circostanze è stato osservato che le circostanze attinenti all’ entità del danno possono rilevare nel delitto tentato soltanto con riferimento al danno patrimoniale effettivamente prodotto, escludendo perciò implicitamente la configurabilità ontologica del delitto circostanziato tentato.
Su altro fronte si è osservato che le circostanze in esame possono trovare applicazione a condizione che le modalità del fatto siano tali da fornire la prova rigorosa che se l’ evento si fosse verificato ne sarebbe derivato un danno di particolare gravità o di speciale tenuità, ammettendo così la configurabilità del delitto circostanziato tentato.
Nello specifico, in merito alla configurabilità del tentativo in relazione al delitto di furto di speciale tenuità ci sono stati vari arresti da parte della Corte di Cassazione.
Con la sent. n. 44153/2008, in riferimento al delitto di tentato furto, i giudici hanno affermato che ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, deve aversi riguardo al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato qualora fosse stato consumato.
Successivamente, sempre la Cassazione con la sent. n. 33408/2009 ha statuito che la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può essere ravvisata anche nel delitto tentato, quando le modalità del fatto criminoso siano idonee a fornire concrete e univoche indicazioni sull’ entità del pregiudizio che si sarebbe determinato nel caso in cui l’ azione delittuosa fosse stata portata a compimento.
Sulla questione sono intervenute anche le S.U. con la sent. n. 28243/2013 affermando che l’attenuante del danno di speciale tenuità, nei reati contro il patrimonio, è applicabile anche nel caso di delitto tentato, premesso che la sussistenza dell'attenuante in questione sia sempre desumibile dal fatto con certezza, attraverso un giudizio ipotetico che sia in grado di stabilire preventivamente se il delitto di furto nel momento in cui fosse stato portato a termine potesse effettivamente cagionare un danno di minima rilevanza.
Dunque si verificherà la circostanza normativa enunciata nell’art. 62 n.4 nel momento in cui, all’esito del giudizio di certezza, si potrà affermare con certezza che il danno così determinato sarebbe stato di speciale tenuità.