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Pubbl. Lun, 20 Mar 2017

La tutela della lingua italiana nella giurisprudenza costituzionale

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Sergio Nadin


La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 42 del 2017, ribadito il primato della lingua italiana quale vettore della tradizione e della cultura del Paese, riconosce la possibilità agli atenei di attivare corsi in lingua straniera secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza.


Come spesso accade, anche in questo caso la lettura di un pronunciamento della Corte Costituzionale consente di riflettere sull’incidenza dello sviluppo degli usi culturali (per definizione, rapido ed imprevedibile) sulla realtà giuridica (che si caratterizza per la lentezza del proprio evolversi).

In questo caso lo scontro vede protagonista la lingua di bandiera – per inciso, una delle più articolate al mondo, che permette di rappresentare concetti complessi propri sia della filosofia sia della scienza – e il suo primato all’interno della cultura italiana, che si trova a dover cedere il passo alle lingue straniere, sempre più spesso utilizzate non solo nel parlare comune, ma anche nei contesti scientifici.

La Sentenza della Corte Costituzionale n. 42 del 2017 (deposito in data 24/02/2017) risolve il seguente problema: è compatibile con la Carta Fondamentale la norma di rango primario che rende possibile per gli atenei italiani proporre corsi di studio in lingua straniera?

Vediamo gli elementi che, in tesi, causano attrito: l’art. 2, comma 2, lett. l) della Legge 30 dicembre 2010, n. 240 (“Norme in materia di organizzazione delle universita', di personale accademico e reclutamento, nonche' delega al Governo per incentivare la qualita' e l'efficienza del sistema universitario”), il quale così recita: “rafforzamento dell'internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilita' dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attivita' di studio e di ricerca e l'attivazione, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera”. Secondo il rimettente Consiglio di Stato, tale norma consentirebbe, appunto, “l’attivazione generalizzata ed esclusiva” di corsi di studio universitari in lingua straniera.

Il problema si è posto proprio in quanto, in forza di tale norma, con delibera del 21/05/2012, il Senato accademico del Politecnico di Milano ha attivato alcuni corsi di laurea magistrale e di dottorato esclusivamente in lingua inglese; delibera prontamente impugnata presso il Tribunale Amministrativo Regionale competente da un nutrito numero di docenti, strenui difensori della lingua di patria natia.

All’applicazione della citata fonte primaria si oppongono veri e propri pesi massimi della Costituzione Italiana: art. 3, che codifica il principio di uguaglianza formale e sostanziale; art. 6, che prescrive la tutela delle minoranze linguistiche; l’art.33, che sancisce la libertà dell’arte e della scienza, come del loro insegnamento.

In sostanza, le tesi a sostegno dell’incostituzionalità dell’articolato si possono riassumere come di seguito.

Innanzitutto, l’uso esclusivo della lingua straniera contrasterebbe con i principi di ragionevolezza, non discriminazione e proporzionalità ricavabili dall’art. 3 Cost. In questo senso, viene spiegato il tema forse più forte dell’intero impianto argomentativo, ossia: l’imposizione della conoscenza così specifica della lingua – tale da poter affrontare un corso di studi altamente tecnico e specialistico – crea necessariamente una barriera all’accesso apparentemente priva di logica, dal momento che non pare possibile assumere che gli stessi concetti non possano essere espressi in lingua italiana.

In secondo luogo, l’uso esclusivo della lingua straniera determinerebbe un insanabile contrasto con l’art. 6 Cost., il quale – secondo la scuola di pensiero dottrinaria e giurisprudenziale che va per la maggiore – sancisce il “carattere ufficiale della lingua italiana, come lingua che caratterizza lo Stato italiano” (in giurisprudenza, inter alia, Corte Cost., 20 gennaio 1982, n. 28; orte Cost. 22 maggio 2009, n. 159; in dottrina, v. P. Barile, Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 38).

 Infine, la disposizione mal si adatta anche alla norma contenuta nell’art. 33 della Costituzione, in quanto, da un lato, inciderebbe sui metodi d’insegnamento dei docenti, dall’altro, imporrebbe a coloro che non hanno una preparazione così elevata nella lingua di astenersi dall’insegnamento a determinati livelli.

L’intuizione di coloro che sostengono la tesi dell’incostituzionalità, quindi, si risolve nel logico ragionamento per cui se la lingua straniera è un mezzo per padroneggiare i principi di una determinata disciplina scientifica e l’università è il luogo in cui queste discipline vengono insegnate, imporre una preconoscenza così specifica di uno strumento è fondamentalmente irragionevole.

La decisione della Corte sorprende, non tanto per l’esito (che ha visto il rigetto della questione costituzionale sollevata), ma per aver dato spazio nel corpo argomentativo ad un quanto mai attuale ed interessante bisogno di tutela della cultura nazionale di fronte allo tsunami degli influssi esteri, che, irrompendo anche nel parlato quotidiano, stravolgono l’intero assetto delle radici culturali e di come questi due elementi debbano trovare un equilibrio per evitare un insanabile contrasto con l’art. 9 della Costituzione, nel punto in cui stabilisce che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica”.

La Corte adita, prima di tutto, rivede nella lingua italiana sia un elemento fondamentale dell’identità culturale e della tradizione del Paese, sia un vettore della stessa, trattenendo in sé il significato ed il significante, il messaggio ed il contenuto, entrambi gli aspetti – come ben sottolinea la Corte – tutelati dalla Carta Costituzionale.

Pacifica, dunque, la centralità nella tradizione e nell’ordinamento della lingua italiana, il plurilinguismo della società contemporanea, corollario del fenomeno di globalizzazione in atto, deve affiancare la trasmissione “del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica” tramite, appunto, l’italiano.

La difficoltà di coordinare le due importanti e contrapposte forze trova il suo apice proprio nella sede naturale in cui la cultura ed il sapere viene trasmesso, ossia la scuola e l’università, ove si forma l’uomo e il cittadino e nel cui contesto si devono considerare i principio della parità nell’accesso all’istruzione (art. 34 Cost.), la garanzia ai più capaci e meritevoli di raggiungere i più alti gradi degli studi (art. 34 Cost.) e la libertà d’insegnamento che deve essere garantita ai docenti (art. 33 Cost.).

Ciò che – secondo la Consulta – impedisce di ravvedere nella disposizione censurata una norma che si pone in contrasto con l’equilibrio descritto è quell’”anche” posto dal legislatore nelle misure concesse alle università per incentivare la conoscenza di determinate branche del sapere. La congiunzione “anche”, esprimendo un’eventualità, rende possibile una lettura costituzionalmente orientata della norma, tale da contemperare “le esigenze sottese alla internazionalizzazione – voluta dal legislatore e perseguibile (…) dagli atenei – con i principi di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost.” ed in funzione della quale le università, nell’ambito della propria autonomia, possano decidere quali corsi di studio abbiano le caratteristiche per essere attivati esclusivamente in lingua straniera.

In ultima analisi, posto il primato della lingua italiana e la parallela necessità di perseguire l’arricchimento culturale anche tramite il perfezionamento delle lingue estere, nonché l’utilizzo di queste ultime nelle varie discipline, la norma censurata trova la propria salvezza, non tanto nell’esigenza che ad un corso in lingua straniera se ne affianchi uno in lingua italiana, ma nella circostanza che nell’offerta formativa proposta dal singolo ateneo solo alcuni corsi vengano svolti in lingua straniera, in funzione di una precisa scelta accademica che tenga conto delle precipue caratteristiche della disciplina insegnata.