Pubbl. Ven, 24 Mar 2017
Maternità surrogata. Il primo “si” della giurisprudenza italiana.
Modifica paginaLa Corte d’Appello di Trento riconosce il legame parentale tra due padri e i figli nati da una maternità surrogata all’estero, così ampliando il concetto di “famiglia”, sempre meno ancorata al dato genetico e sempre più basata sull’importanza del rapporto affettivo.
1.Il fatto
Nel 2009 una coppia omosessuale si rivolge, nel rispetto delle leggi in vigore in un Paese estero, ad una donna disposta a sostenere la gravidanza per altri e la fecondazione avviene attraverso la donazione del seme da parte di uno dei due uomini. Al momento della nascita, un primo provvedimento giudiziale attesta che la gestante non è genitore dei gemelli nati e che unico genitore e padre degli stessi è il donatore del seme.
Successivamente, con un secondo provvedimento giudiziale, i due atti di nascita vengono emendati, aggiungendo come secondo genitore il marito del padre biologico.
Viene così riconosciuta la cogenitorialità della coppia.
Traferitisi in Italia, i due padri chiedono, con ricorso ex artt. 702 bis cpc e 67 l. 218/1995, la trascrizione nei registri dello stato civile del provvedimento con il quale si attesta la genitorialità di entrambi, ma la richiesta della coppia si scontra con il rifiuto alla trascrizione opposto dall’Ufficiale dello stato civile, il quale ritiene il provvedimento in questione contrario all’ordine pubblico.
Secondo l’Ufficiale costituisce infatti principio di ordine pubblico la diversità di sesso dei genitori.
È davvero così? Secondo la Corte d’appello di Trento, no.
2. Le argomentazioni
I due padri adducono a sostegno della propria richiesta il contesto affettivo e familiare nel quale è maturata la scelta di ricorrere alla maternità surrogata, aggiungendo che, sin dalla nascita, i bambini (ormai dell’età di sei anni) hanno riconosciuto come padri entrambi i ricorrenti e che come tali siano sempre stati considerati dalla cerchia di familiari, amici e colleghi.
A ulteriore fondamento della richiesta, viene sostenuto inoltre che non contrasta né con l’ordine pubblico interno né con l’ordine pubblico internazionale il riconoscimento di una bigenitorialità dello stesso genere, sottolineando l’inesistenza di una norma di diritto interno che richieda, come requisito per il riconoscimento della genitorialità, il sesso diverso dei genitori e ricordando la giurisprudenza della Corte europea per i diritti umani sulla indifferenza all’orientamento sessuale del genitore per valutare il benessere del figlio.
Il Procuratore generale argomenta invece la propria contrarietà al riconoscimento di efficacia del provvedimento estero sostenendo, in particolare, come non esista nel nostro ordinamento un diritto inviolabile alla paternità o alla maternità e come sia sancito solamente il diritto alla creazione di una famiglia conseguente al matrimonio.
Relativamente invece alla necessità di garantire un riconoscimento giuridico ad una situazione di fatto comunque esistente e consistente nella formazione di un nucleo familiare formato dai due padri e i due figli, viene osservato invece che una valida copertura di tale situazione potrebbe essere offerta dalla disciplina delle unioni civili e da quella sulla adozione in casi particolari.
L’argomentazione principale addotta a sostegno della contrarietà al riconoscimento della bigenitorialità rimane comunque quella della contrarietà all’ordine pubblico ed è proprio su questo aspetto che la Corte d’Appello si sofferma maggiormente.
Ai fini della individuazione della nozione, la Corte rimanda alle argomentazioni di un importante precedente in materia, rappresentato dalla sentenza n. 19599/2016 della Corte di Cassazione, la quale ha dato atto dell’evoluzione di tale nozione.
I principi di ordine pubblico vengono dalla corte di Cassazione individuati solamente nei principi fondamentali della Costituzione, ovvero quei principi basilari dell’ordinamento che il legislatore non potrebbe sovvertire.
Il contrasto con l’ordine pubblico non potrebbe pertanto ravvisarsi nella contrarietà ad una norma che sia espressione di una scelta discrezionale e temporanea del legislatore, che magari potrebbe legittimamente essere mutata in futuro senza rischiare di essere dichiarata incostituzionale, ma solo nella contrarietà a ciò che rappresenti un principio supremo del nostro ordinamento.
Chiarito questo aspetto, la Corte d’Appello osserva che ad assumere rilievo preminente è l’interesse del minore, che nel caso di specie si sostanzia nel diritto a conservare in Italia lo status di “figlio” acquisito legittimamente mediante un atto formato in uno Stato straniero.
Tale diritto è riconosciuto anche a livello internazionale, in primis dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo ed è descritto come “il diritto del fanciullo a preservare la propria identità, ivi compresa a sua nazionalità, il suo nome, le sue relazioni familiari, così come riconosciute dalla legge, senza ingerenze illegali”.
La Corte osserva allora come questo interesse preminente dei minori verrebbe irrimediabilmente compromesso dal mancato riconoscimento in Italia di uno status conseguito legittimamente all’estero, con conseguente perdita dell’identità familiare consolidatasi nel tempo.
Tale interesse superiore dei minori potrebbe cedere solamente di fronte a ulteriori diritti fondamentali e interessi di rango superiore, che tuttavia non vengono rinvenuti.
La Corte aggiunge inoltre che, sebbene la maternità surrogata sia vietata dal nostro ordinamento, non possono farsi ricadere sui figli le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla violazione da parte dei genitori della disciplina di cui alla legge 40/2014, violazione posta in essere mediante il ricorso a pratiche fecondative illegali in Italia.
In ragione di ciò non può negarsi riconoscimento giuridico al provvedimento formato all’estero recante l’indicazione della cogenitorialità dei due padri, in nome di una tutela superiore degli interessi dei minori.