Pubbl. Gio, 9 Mar 2017
Responsabilità della P.A. per deterioramento del verde pubblico: inquadramento e disciplina normativa
Modifica paginaAnalisi del danno da deterioramento del verde pubblico con riferimento alla pratica della capitozzatura.
Ancora ricorrente è il tema delle buone pratiche per la gestione del verde pubblico e della responsabilità della P.A. per il deterioramento dello stesso.
Preliminarmente, è opportuno chiarire in quale ambito di responsabilità si verta. In secondo luogo, preme far menzione alla problematica della pratica dannosa di taglio di alberi nota come “capitozzatura”, diffusa in tutta Italia.
In particolare, in questo caso, la Pubblica Amministrazione, più che valorizzare il verde pubblico, ne favorisce la rovina, ricorrendo a gare al massimo ribasso quale unica modalità di affidamento dei lavori di gestione del patrimonio arboreo e forestale. Viene in evidenza la tematica del danno ambientale, introdotto, per la prima volta, nell’ordinamento giuridico italiano, con legge n. 349 dell’8 Luglio 1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente.
La disciplina in esame definiva il danno ambientale come “compromissione dell’ambiente attraverso un qualsiasi fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge.” Il suo art. 18 configura l’ambiente quale bene giuridico autonomo, oggetto di tutela in sé e per sé, tramite gli istituti della responsabilità civile per danno ambientale e dell’azione giurisdizionale amministrativa per l’annullamento dei provvedimenti lesivi dell’ambiente.
La natura della responsabilità per danno ambientale è aquiliana e trova, pertanto, il proprio fondamento normativo nell’art. 2043 c.c. La relativa competenza spetta, quindi, al giudice ordinario. La tematica in commento trova ampio supporto nella legislazione comunitaria; infatti, è intervenuta al riguardo la Direttiva 2004/35/CE del 21 Aprile 2004, in materia di responsabilità ambientale, con riguardo alla prevenzione ed alla riparazione del relativo danno.
Il primo recepimento della direttiva comunitaria poc’anzi citata è stato operato con legge n. 266/2005, ossia la legge finanziaria per l’anno 2006. Però, è solo con l’emanazione del Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006) che si assiste ad una reale riforma della normativa in materia paesaggistica ed ambientale, a partire dalla definizione di danno ambientale, ritenuta come: “Qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima.”
La breve cornice normativa a cui si è fatta menzione, appariva doverosa in relazione alla citata pratica della capitozzatura: una tecnica di potatura che danneggia le piante. Quest'ultima, consiste nel taglio dei rami sopra il punto di intersezione con il tronco o altro ramo principale, affinché resti solo quest'ultimo o una parte della chioma. Si tratta, quindi, di una modalità di recisione molto drastica. A tal proposito, infatti, è stato ritenuto dai più che gli interventi eseguiti sugli alberi con tale tecnica ingenerino un danno agli alberi ed al paesaggio, nonché un danno economico per l’amministrazione.
Per comprendere quali siano le conseguenze, in capo all’amministrazione, per il deterioramento del verde pubblico, che si verifica in caso di cattive pratiche gestionali, preme sottolineare che la possibilità di una tutela concreta del bene ambientale incontra un limite nel fatto che il soggetto legittimato ad agire per danno ambientale è lo stesso cui spettano i poteri di tutela del relativo bene.
In una prima fase dell'evoluzione giurisprudenziale, la Consulta era ferma nel ritenere che la legittimazione attiva dello Stato era dovuta al fatto che "esso ha affrontato le spese per riparare il danno o nel fatto che esso abbia subito una perdita economica, ma nella funzione a tutela della collettività e degli interessi all'equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio." (Si veda, a tal proposito, la nota sentenza n. 641/1987.)
In sostanza, quindi, secondo la Corte costituzionale l'unico soggetto a poter tutelare il bene danneggiato era lo Stato, stante la natura di interesse collettivo dell'ambiente.
Questo orientamento, però, è stato fortemente criticato, soprattutto per il fatto che il Legislatore del 1986 riconosceva la legittimazione ad agire in giudizio agli enti territoriali su cui incidano i beni oggetti del fatto lesivo, ma la titolarità del diritto al risarcimento spettava esclusivamente allo Stato.
Con legge n. 265 del 1999 fu riconosciuta anche alle associazioni ambientaliste la possibilità di agire in giudizio, innanzi al giudice ordinario, al fine di ottenere il risarcimento per il danno ambientale, spettante al Comune ed alla Provincia.
L'attuale Testo Unico ambientale non prevede espressamente la legittimazione attiva degli enti per danno ambientale, con ciò facendo dubitare circa la permanenza di tale possibilità, stante la nuova disciplina che lo stesso reca in materia. Tra l'altro, tale normativa non risolve il problema della legittimazione attiva in caso di danno ambientale, soprattutto in quanto differenzia la disciplina per le azioni risarcitorie per equivalente ed in forma specifica e quelle di ripristino ambientale.
Ai sensi dell'art. 305 del D. Lgs. 152/2006, infatti, l'azione di ripristino può essere esercitata esclusivamente dal Ministero dell'ambiente, essendo riconosciuto, però, all'ente territoriale interessato dal relativo danno un diritto di partecipazione al procedimento per presentare osservazioni e denunce; inoltre, lo stesso Ministero può richiedere all'ente in questione di intervenire, senza che questo possa in alcun modo avviare autonomamente un giudizio per il ripristino dello status quo ante nei confronti del soggetto danneggiante.
Invece, per quanto concerne l'azione risarcitoria, l'art. 311 del D.lgs. 152 riserva allo Stato la legittimazione attiva, non consentendo anche agli enti territoriali di esperire autonomamente tale azione. Resta, però, in vigore la possibilità che le associazioni ambientaliste intervengano nei giudizi per danno ambientale.
Tirando le fila del discorso, la legittimazione attiva degli enti locali nel caso di danno ambientale, non essendo espressamente prevista dal Testo Unico, è riconosciuta, attualmente, solo a livello pretorio, sulla base del principio generale del neminem laedere, dal momento che il danno all'ambiente rappresenta una violazione del diritto della personalità dell'ente.
In sostanza, non è infrequente che l’ente pubblico si trovi ad essere contemporaneamente attore e convenuto. Ai sensi dell’art. 28 della Costituzione la responsabilità degli enti pubblici, per atti compiuti in violazione dei diritti, è diretta e riconducibile alla disciplina della responsabilità aquiliana, in virtù del principio di immedesimazione tra organo e funzionari. La tesi in esame è suffragata da alcune pronunce della Suprema Corte. Si cita, a titolo esemplificativo, la sentenza n. 864 del 2008 con cui si è ribadito che la responsabilità dell’autorità pubblica sorge in caso di comportamenti illeciti del dipendente se volti a realizzare un fine istituzionale e “se il dipendente è lo strumento attraverso il quale l’Amministrazione si muove, quel dipendente deve agire secondo gli scopi che essa si propone; in mancanza di tale circostanza il comportamento di tale agente non può in alcun modo essere riferito alla pubblica Amministrazione.”
Infine, è direttamente responsabile l’ente pubblico il cui dipendente abbia commesso un illecito per mancanza di direttive fornite dai superiori. Per aversi responsabilità diretta dell’ente pubblico per il fatto illecito del proprio dipendente devono sussistere i seguenti presupposti:
- Esistenza di un rapporto di servizio tra ente pubblico e dipendente;
- Nesso di causalità tra il comportamento e l’evento dannoso;
- Riferibilità all’amministrazione dell’attività posta in essere.
In attuazione delle disposizioni comunitarie, i criteri di risarcimento del danno ambientale devono seguire un preciso ordine di operatività. Infatti, in primo luogo, occorre intervenire tentando di riportare le risorse danneggiate allo status quo ante. Solo nel caso in cui ciò non sia assolutamente possibile, sarà possibile ricorrere ad un risarcimento per equivalente.