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Pubbl. Dom, 26 Feb 2017

Focus: la concorrenza sleale

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Jessica Lo Votrico


Analisi della disciplina in materia di concorrenza sleale: ambito di applicazione, fattispecie tipiche e atipiche frutto della ricostruzione giurisprudenziale.


Sommario: 1. Quadro generale;  2. Profili normativi; 3. Fattispecie illecite; 4. Sanzioni e rimedi esperibili.

1. Quadro generale 

Il progressivo aumento della produzione industriale e, di conseguenza, delle imprese operanti sul mercato ha implementato il fenomeno della concorrenza, con conseguente necessità di una disciplina legislativa atta a evitare la creazioni di ostacoli o impedimenti al corretto esplicarsi della libertà di iniziativa economica.  E’ questo un valore costituzionalmente riconosciuto all’art. 41: a ciascun cittadino è, infatti, riconosciuto il diritto di offrire beni e servizi della propria impresa in un mercato equo e concorrenziale.     

2. Profili normativi

La disciplina sulla concorrenza sleale trova compiuto riconoscimento per la prima volta nel codice civile del 1942. Il codice del commercio del 1882, infatti, non contempla nessuna previsione normativa e ogni pratica commercialmente scorretta veniva sanzionata riconducendola allo schema dell’illecito civile. Tale schema è ripreso dalle previsioni normative di cui agli articoli 2598-2601 c.c.: una pratica commerciale per esser definita scorretta deve integrare tutti gli elementi richiesti in caso di illecito (dolo o colpa nella condotta, evento lesivo e nesso di causalità tra condotta ed evento lesivo).

Con il termine di concorrenza sleale si indicano tutti quegli atti in cui vengono utilizzate pratiche commercialmente scorrette per sottrarre clienti ad un impresa concorrente creando un danno ingiusto alla stessa.

2.1. Ambito di applicazione

Due sono, pertanto, i requisiti previsti affinché tali previsioni normative esplichino efficacia: 

A) entrambi i soggetti (colui che pone in essere l’atto commercialmente scorretto e chi ne subisce le ingiuste conseguenze) devono detenere la qualifica di imprenditori;

In ordine a tale affermazione dottrina e giurisprudenza sono divisi: un primo orientamento di natura estensiva fa leva sul dato letterale di cui all’art. 2598 c.c secondo cui chiunque può compiere atti di concorrenza sleale; l’orientamento maggioritario ritiene, tuttavia, che si tratti di una disciplina settoriale e che, pertanto, sia invocabile solo dai detentori di impresa. Il 3 comma dell’art. 2598, infatti, parla “di altrui azienda” e di “obblighi di correttezza professionale” che sono posti a carico solo di chi svolge attività di impresa. L’imprenditore, inoltre, risponde non solo degli atti compiuti direttamente ma anche di quelli posti in essere dai propri dipendenti o ausiliari nel suo interesse. In quest’ultimo caso, pertanto, si configurerà una responsabilità solidale dell’autore materiale della pratica scorretta e dell’imprenditore titolare in nome e nel cui interesse la pratica è venuta a realizzarsi. 

B) deve sussistere un rapporto di concorrenza fra i soggetti coinvolti. I due imprenditori, pertanto, devono operare nello stesso settore merceologico-produttivo rivolgendosi allo stesso segmento di mercato. 

E’ importante sottolineare, inoltre, che dottrina e giurisprudenza di legittimità sono concordi nell’affermare che nel valutare la pratica commercialmente scorretta la valutazione sull’esistenza della concorrenza tra due imprenditori può anche essere solo potenziale. La Cassazione ha, infatti, di recente affermato nella pronuncia n. 10643 del 2015 che la disciplina di cui agli articoli 2598-2601 c.c. tuteli anche situazioni di mera concorrenza potenziali "ravvisabili sia in relazione ad una possibile estensione o espansione nel futuro dell’attività imprenditoriale concorrente (purchè nei termini di rilevante probabilità), sia nelle diverse ipotesi di i attività preparatorie all’esercizio dell’impresa, quando si pongano in essere fatti diretti a dare inizio all’attività produttiva”

3. Fattispecie illecite 

Due sono le principali condotte tipizzate dalla disciplina legislativa (gli atti di confusione e gli atti di denigrazione o appropriazione di pregi altrui) a cui si affianca, al n. 3, una clausola generale di chiusura del sistema in cui si ricompense ogni atto non conforme ai principi di correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’azienda altrui. 

3.1. Atti confusori

Il n. 1 dell’art. 2598 c.c individua i cd. atti confusori ovvero tutti quegli atti volti a creare confusione nel mercato con i prodotti o l’attività di un’azienda concorrente. E’ illecita, pertanto, la condotta di chi utilizza le qualità o i segni distintivi altrui ncreando confusione e sviamento della clientela altrui. Il concetto di atto cofondibile va esteso ad ogni possibile utilizzazione dei segni distintivi dell’impresa (ditta, marchio, insegna) ma anche rispetto ad elementi letteralmente non ricompresi nella disposizione legislativa quali gli slogan pubblicitari o il dominio internet dell’impresa concorrente. Non potendosi, tuttavia, ravvisarsi confusione ogni qualvolta due imprese utilizzino quale segno distintivo una parola utilizzata comunemente da tutti gli imprenditori del ramo merceologico per contraddistinguere una categoria di prodotti o ancora nel caso in cui vengano utilizzate forme o modelli standardizzati e, quindi, di uso comune.

3.2 Atti denigratori

Il n. 2 di cui all’art. 2598 c.c prevede fra gli atti di concorrenza sleale “la diffusione di notizie o apprezzamenti sui prodotti di un’azienda concorrente qualora siano idonee a screditare un’impresa o tali da rendere possibile l’appropriazione di pregi dei prodotti dell’impresa concorrente”. 

In entrambi i casi si tratta di atti volti alla falsificazione di notizie di mercato attraverso il meccanismo pubblicitario; in cui, tuttavia, si perseguono fini diversi: nel caso della denigrazione, infatti, lo scopo è quello di sviare e creare un danno all’impresa, l’appropriazione, invece, mira ad attirare clienti attribuendosi caratteristiche non proprie ma dell’azienda concorrente.

La giurisprudenza di legittimità afferma che la denigrazione per configurarsi deve rivolgersi a un pubblico vasto ed indistinto; non potendosi ricondurre, invece, ad episodi saltuari intervenuti con singoli interlocutori.
Non costituiscono in ogni caso atti denigratori tutti quegli atti in cui informazioni sull’impresa concorrente sono rese per reagire un altrui attacco ingiusto o per fornire descrizioni tecniche in relazione ai propri prodotti; non è illecita, pertanto, la pubblicità comparativa se finalizzata al confronto di caratteristiche tecniche di prodotti di diverse imprese. 

3.3 Clausola generale “ogni atto non conforme alla correttezza professionale”: casistica giurisprudenziale

Il n.3 di cui all’art. 2598 c.c contiene una norma di chiusura del sistema della disciplina sulla concorrenza sleale, identificando una categoria di atti atipici non ben individuati che è stata implementata dall’opera costante della giurisprudenza di merito e di legittimità.
Fra tali atti rientra sicuramente la concorrenza parassitaria: ovvero la sistematica imitazione dei prodotti di un’azienda altrui tale da denotare lo sfruttamento della creatività altrui. 

Pratica commercialmente scorretta è il dumping, ovvero la ripetuta vendita sottocosto dei propri prodotti volta all’eliminazione dei concorrenti dal mercato o ancora la violazione di segreti aziendali, la rilevazione a terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da parte di terzi.

4. Sanzioni e rimedi esperibili

Due sono le forme di tutela esperibili in caso di pratiche commercialmente scorrette: l’azione tipica dell’inibitoria (art. 2599 c.c) e il risarcimento del danno (art. 2600 c.c )

I provvedimenti inibitori prescindono dalla prova di una condotta dolosa o colposa e dall’esistenza di un danno ingiusto a carico della società. Tale forma di tutela, infatti, si concretizza nell’accertamento della condotta commercialmente scorretta e nel successivo impedimento della sua reiterazione, disponendo ogni mezzo integrativo atto a far cessare la situazione di concorrenza sleale.       Il risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2600 c.c, richiede la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 2043 in materia di responsabilità extracontrattuale: una condotta lesiva perpetrata da un imprenditore, un evento ingiusto a danno di un impresa commerciale concorrente e che questi due elementi siano sorretti da un nesso causale. Tuttavia, rispetto alla disciplina generale dell’illecito civile, la colpa dell’imprenditore, accertato l’atto commercialmente sleale, si presume; tale presunzione non vale per la condotta dolosa che va necessariamente provata.  

La legittimazione, ai sensi dell’art. 2601, va estesa anche alle associazioni professionali degli imprenditori e agli enti rappresentavi della categoria nella misura in cui l’atto commercialmente sleale pregiudichi gli interessi di un’intera categoria.

Accanto al risarcimento, inoltre, il secondo comma dell’art. 2600 c.c prevede la possibilità di pubblicazione della sentenza, anche in assenza dall’esistenza di un danno effettivo.