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Pubbl. Mar, 28 Feb 2017

Camminodiritto verso la guerra #3: la battaglia di Stalingrado

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Saverio Setti
Dirigente della P.A.Ministero della Difesa


Terza puntata di una serie di episodi scelti per un´analisi del diritto dei conflitti armati.


1. Introduzione

Chi legge questo testo dimentichi di sedere di fronte allo schermo. Si immagini 19enne, nato nei pressi di Mosca, arruolato nell’Armata Rossa di Stalin per partecipare alla Grande guerra patriottica. Obiettivo: respingere il lupo nazista, che aveva addentato la gola dell’orso russo.

Si immagini di essere inquadrato come soldato semplice di fanteria, nella 126a Kuropatenko, di stanza a Stalingrado. Vestito di un rozzo cappotto grigio con mostrine rosse, appena sufficiente a proteggere dalla media di -4 gradi. Ci si aduna, pronti per un’offensiva in fila per due: a uno viene dato un fucile, all’altro le munizioni. Il primo a cadere sotto il fuoco delle mitragliatrici fisse tedesche, lascerà il suo materiale all’altro.

2. Antefatto e fatto

La battaglia di Stalingrado è uno dei momenti più drammatici ed importanti del Secondo conflitto mondiale[1]. Iniziata il 17 luglio del 1942, quando l’avanguardia tedesca iniziò l’attacco alla città per poi assestarvisi, terminò nell’inverno del ’43, a seguito del completo annientamento della 6a Armata tedesca da parte delle ingenti forze sovietiche, al comando del Tenente Generale Čujkov.

L’importanza di questa battaglia è chiara sotto vari aspetti. Storico, poiché si tratta di un assedio in cui la pervicacia dei comandanti condusse al macello oltre un milione e mezzo di militari. Strategico, poiché essa segna il punto culmine della parabola delle forze tedesche e contestualmente il capovolgimento del fronte orientale. Tattico, poiché lo studio dei movimenti e delle tre decisioni operative dei comandanti tedeschi e russi eleva questo fatto storico a paradigma dell’assedio contemporaneo e del combattimento nei centri abitati (ovviamente di tipo convenzionale[2]).

La direttrice di attacco tedesca ovest nel 1942 fu fortemente voluta dal Führer, che aveva ordinato un’azione di guerra lampo a partire dall’inizio della primavera, obiettivo: prendere Mosca prima dell’arrivo dell’inverno. Il piano sviluppato dallo Stato Maggiore del Reich era l’Operazione Fall Blau, che prevedeva l’impiego di una consistenze forza terrestre (1 milione di truppe delle fanterie, 2500 carri armati) e lo schieramento di 8 stormi di cacciabombardieri. A quest’operazione avrebbero partecipato contingenti alleati, tra cui l’ARMIR italiano. Il movimento in attacco prevedeva di conquistare i bacini del Don e del Volga, impadronendosi delle regioni metallurgiche di Stalingrado e quindi puntare ai pozzi petroliferi del Caucaso. In questo modo si sarebbe garantito alla Germania un aumento produttivo sorretto da un surplus energetico. La corsa d’attacco fu però rallentata dall’assedio di Sebastopoli, il che consentì allo Stato Maggiore sovietico di far convergere tutti i contingenti in ritirata dal fronte sul punto geografico di Stalingrado.

In ritardo, dunque, le vedette della 6a Armata tedesca, al comando di Paulus, avvistarono una Stalingrado da cui colonne di civili in fuga uscivano verso l’estremo ovest. Il 17 luglio le forze tedesche iniziarono l’accerchiamento della città, nel frattempo martellata dall’artiglieria e dai bombardamenti, al fine di fiaccare la resistenza sovietica. Tuttavia gli sforzi difensivi russi furono tenaci: l’ordine n. 227 di Stalin era laconico: “Non più un passo indietro”. Per più di un mese ondate di carri T-34 sovietici si infransero sulla linea della 16a e della 24a Panzer, come la risacca sugli scogli. La fase più drammatica della battaglia dal punto di vista sovietico ebbe inizio il 21 agosto 1942: in quella giornata la 6ª Armata del generale Paulus conquistava teste di ponte a est del Don e lanciava le sue forze corazzate concentrate in una puntata diretta nel corridoio Don-Volga in direzione di quest'ultimo fiume nella regione settentrionale della città. La difesa russa era, però, strenua. Si dovette ricorrere ad ulteriori e pesanti bombardamenti della Luftwaffe, che distrussero quasi completamente la città. Ma la città non cadeva. Paulus fu costretto ad ordinare una guerra di logoramento: gruppi di fanteria appiedata, armata di mitra e lanciafiamme procedettero ai rastrellamenti casa per casa, polverizzando la direttrice di attacco in una miriade di azioni a macchia di leopardo. Le truppe tedesche impiegarono tre sanguinosi mesi ad impadronirsi di gran parte di Stalingrado, ridotta ad un cumulo di macerie. Le perdite da entrambi i fronti erano state pesantissime, ma i russi erano a casa propria.

Infatti, mentre le linee di rifornimento tedesche si allungavano sempre più, Stalin, bloccato il nemico nel carnaio di Stalingrado, riuscì ad organizzare una controffensiva (operazione Urano). Primo obiettivo: chiudere le linee di rifornimento tedesche, quindi chiudere il nemico a tenaglia tra il Don ed il Volga (v. carta allegata), per poi logorarlo. Già il 23 novembre venne bloccata ogni possibilità di rifornimento per le truppe dell’Asse, chiuse nella celebre “sacca di Stalingrado”. L’unica cosa da fare sarebbe stata concentrare le forze tedesche per bucare la sacca e ritirarsi, salvando in parte l’armata. Nonostante le pressioni degli Stati maggiori, Hitler emise il suo "Ordine tassativo" (Führerbefehl): resistere[3].

Attesta la sacca, i sovietici iniziarono due operazioni (Tempesta invernale e Piccolo Saturno) per stringere i tedeschi verso il centro. Paulus resistette fino allo stremo delle forze, ma ben presto, oltre agli uomini, terminarono i rifornimenti e le munizioni. Nel gennaio del ’43, i russi lanciarono l’Operazione anello, l’offensiva finale verso il centro della città, riversando migliaia di uomini e carri armati. In pochi giorni crollarono tutti i contingenti alleati dell’Asse, tra cui il corpo d’armata alpino italiano, che iniziò la terribile ritirata del Don.

Duramente colpito dall’artiglieria, il comando di Paulus ricevette un ultimatum di resa, intimato dai russi per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Stremato, chiese istruzioni al Führer, la cui risposta fu l’ordine suicida di resistere. Contro ogni aspettativa, gli ultimi superstiti tedeschi, fiaccati dall’inverno e dalla mancanza di qualunque rifornimento, si arroccarono nel centro della città per una tragica opposizione. La lotta per la sopravvivenza era però impari. Ben presto i russi si impadronirono della pista d’emergenza creata in un viale della città. Mancava ora, ogni possibilità di fuga. La condotta dell’azione da parte dei russi fu spietata: nessun prigioniero. Ormai completamente distrutta, la 6ª Armata riunì i pochi feriti ancora in vita a sud del centro città. Accerchiato dalle divisioni corazzate, Paulus, nel frattempo promosso feldmaresciallo (un implicito invito al suicidio), decise per la resa definitiva. Era il 2 febbraio 1943. 

3. Il giudizio delle legge (ad oggi)

L’episodio qui in discorso è l’occasione per trattare il tema giuridico della cessazione delle ostilità tra i belligeranti ed, in particolar modo, del termine del combattimento deciso dal comandante in violazione dell’ordine superiore di resistere.

È bene, in primis, distinguere tra i vari istituti giuridici per evitare confusioni tipiche del gergo giornalistico.

Il trattato di pace è uno strumento disciplinato dal diritto internazionale[4] che pone termine definitivamente alle ostilità e fa terminare lo stato di guerra. Detto trattato è, in una moltitudine dei casi, preceduto dal c.d. preliminare di pace. Trattasi di uno strumento non vincolante per gli Stati, ma che consente una road map verso il trattato di pace. In esso sono date disposizioni in ordine ai territori degli Stati, alle loro forze armate ed ai trattati stipulati precedentemente la guerra. Nel trattato vengono altresì definite le responsabilità patrimoniali suddivise in: riparazione (i danni punitivi) e risarcimento dei danni cagionati ai pubblici ed ai privati dalle ostilità. È bene precisare che la stipulazione del trattato di pace è procedimento assai complesso, preceduto da vari preliminari, e che esso può porsi in essere anche molto tempo dopo il termine effettuale dei conflitti. Si pensi al trattato di pace tra gli Alleati e l’Italia, ratificato nel 1947: due anni dopo il termine delle ostilità. Come detto, normalmente, il trattato di pace (come ogni trattato internazionale) è sottoposto a ratifica interna, fatti salvi cari particolari. Se ne citeranno due. 1) il trattato di pace con l’Italia summenzionato prevedeva la nostra ratifica ma, per l’entrata in vigore, disponeva sufficienti le ratifiche di Francia, Regno Unito, Stati Uniti ed Unione sovietica[5]; 2) il termine della I Guerra del Golfo è il risultato di un trattato di pace unilaterale disposto con risoluzione del Consiglio di Sicurezza[6], l’entrata in vigore del quale fu condizionata all’accettazione da parte dell’Iraq.

L’armistizio (generale) è una sospensione delle attività di combattimento. Trattasi di una convenzione di natura politica che può contenere clausole territoriali, dunque l’entrata in vigore è subordinata alla ratifica interna, ma solo se l’armistizio è concluso in forma scritta. La prassi evidenzia una vasta casistica di armistizi conclusi oralmente dai plenipotenziari (dunque immediatamente in vigore), così come sono possibili armistizi solo locali.

Particolare tipo di armistizio è la resa senza condizioni, che si sostanzia in un armistizio generale unilaterale recettizio. Si noti che dal secondo dopoguerra in poi, con il sostanziale bando giuridico della guerra ad opera della Carta dell’ONU, l’armistizio è divenuto lo strumento principe per porre termine alle ostilità (si pensi a quello vigente tra le due Coree, ancora formalmente in stato di guerra). Tra l’altro le linee di demarcazione armistiziali (il 38° parallelo nell’esempio ricordato) sono protette dal diritto internazionale[7].

La capitolazione è l’atto che comporta la resa di alcune truppe. È lo strumento cui ricorse Paulus in narrativa qui esposta. Si tratta di una convenzione di guerra a carattere militare. Convenzioni di questo tipo possono essere concluse direttamente dai comandanti militari di contingente (nell’esempio narrato Paulus era l’ufficiale tedesco più alto in grado) ed entrano immediatamente in vigore senza bisogno di un procedimento di ratifica. In sostanza, ai comandanti è affidato un limitato ius contrahendi, caratterizzato dalla speditezza da un lato e dall’inidoneità alla produzione di effetti politici e territoriali dall’altro. La legge italiana di guerra (artt. 85-86) disciplina la capitolazione disponendo che i capitolati acquisiscono lo status di prigioniero di guerra.

La Convenzione dell’Aja è piuttosto laconica in merito. Si limita, infatti, ad imporre che le condizioni di capitolazione debbano essere scupolosamente rispettate (art. 35) e che si debba tener conto dell’onore militare. Quest’espressione sta a significare che non possono compiersi atti di barbarie sui capitolati quando questi abbiano strenuamente e con valore combattuto. È, in merito, previsto il particolare rito dell’onore delle armi, con cui il vittorioso mostra il proprio rispetto per il vinto. Viene così celebrato[8]. Sul campo di battaglia una rappresentanza degli sconfitti (di solito una compagnia[9]) disarmata, sfila, al comando del proprio ufficiale (cui è consentito di tenere la sciabola), preceduta dalla propria bandiera di guerra impennata, davanti alle fila dei vincitori. Questi presentano le proprie armi in segno di rispetto[10].

Poteva Paulus capitolare contrariamente agli ordini del Führer? Concordemente si ritiene di sì. Il Comandante della 6a Armata aveva fatto quanto in suo potere per resistere, ed anche oltre. Dunque sul piano strategico militare non si sarebbe potuto tacciarlo di codardia. Sul piano prettamente giuridico s’è detto che la capitolazione può legittimamente essere disposta dal comandante sul capo, giacché egli solo conosce le condizione della propria armata. La trattativa per la capitolazione non prevede la previa esibizione dei pieni poteri, l’unico presupposto formale è la titolarità del comando sul campo. È fuori di dubbio che Hitler avrebbe preferito una completa distruzione della 6a Armata, prova ne sia la promozione a Feldmaresciallo (il più alto grado militare tedesco fino al 1945[11]) pochi giorni prima della capitolazione.  Tuttavia, nonostante il dovere di obbedienza, si trattò di un ordine solo implicito (dunque giuridicamente improduttivo di effetti) e strategicamente inutile, finalizzato solo a chiudere epicamente una guerra persa con un estremo esempio di fedeltà.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] A. Giannuli, Dalla Russia a Mussolini, Roma, Editori Riuniti, 2005, p. 235.
[2] Ovvero in un contesto di guerra, caratterizzato da una contrapposizione chiara tra due belligeranti ed in assenza di armi di distruzione di massa.
[3] Secondo parte della dottrina le valutazioni di Hitler furono di natura strategica:
1) una ritirata in massa e repentina della gran quantità di truppe e materiali era molto difficoltosa e poteva degenerare nel caos con conseguente perdita di truppe e materiali insostituibili per contenere l'offensiva sovietica;
2) la perdita del fronte sul Volga avrebbe compromesso i risultati già raggiunti dall'offensiva tedesca d'estate (in particolare sarebbe stata a rischio la copertura del fronte caucasico da cui Hitler sperava ancora di strappare le preziose risorse petrolifere di cui aveva bisogno);
3) precedenti battaglie invernali nel 1941-42, in cui grossi reparti tedeschi avevano resistito con successo benché accerchiati, davano fiducia sulla possibilità di una difesa efficace e prolungata fino all'arrivo di una colonna di soccorso;
4) ottimistiche speranze erano riposte in un rifornimento regolare per via aerea delle truppe accerchiate nella sacca. Fonte: E. Bauer, Storia controversa della seconda guerra mondiale, Novara, DeAgostini, 1971, Vol. IV, p. 279.
[4] In particolare dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
[5] Art. 90.
[6] 697 del 1991.
[7] Dispone l’art. 40 del Regolamento annesso alla IV Conv. dell’Aja che ogni violazione dell’armistizio commessa da una delle parti consente all’altra il diritto di denunciarlo e, in caso di urgenza, di riprendere lecitamente le ostilità.
[8] L’onore delle armi è disposto dal comandante vincitore sul campo, dietro richiesta dello sconfitto.
[9] Circa 130 soldati più i comandanti.
[10] La 185a Divisione Folgore ricevette l’onore delle armi al termine dell’eroica resistenza di El Alamein.
[11] Quando Hilter creò, appositamente per Hermann Göring, il grado di maresciallo del Reich (Reichsmarschall)