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Pubbl. Mar, 28 Feb 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

La riforma Gelli è legge. Ecco come cambia la responsabilità medica.

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Stefania Tirella


Numerose le novità introdotte dalla legge Gelli in tema di responsabilità medica, in ambito civile e penale. La riforma ha un obiettivo ambizioso: contrastare la medicina difensiva. Ma sarà davvero in grado di farlo?


Indice: 1. Legge Gelli, le novità in sintesi e il fine perseguito; 2. Responsabilità civile. Addio alla responsabilità contrattuale. La nuova responsabilità sarà extracontrattuale; 3. Responsabilità penale. Introduzione dell’art. 590 sexies c.p; 4. Il tentativo obbligatorio di conciliazione; 5. Il Fondo di garanzia.

1. Legge Gelli, le novità in sintesi e il fine perseguito.

È stata definitivamente approvata la Legge Gelli, che introduce rilevanti modifiche in tema di responsabilità medica.

La legge, che porta il titolo “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, per un verso, conferma talune intuizioni già desumibili per via interpretativa dal decreto Balduzzi, per altro verso, introduce delle autentiche novità.

In estrema sintesi, i punti più salienti della riforma possono essere individuati nei seguenti:

  • La responsabilità civile degli esercenti le professioni sanitarie diventa ufficialmente extracontrattuale.
  • La responsabilità penale viene disicplinata attraverso l’introduzione di un nuovo articolo nel codice penale, l’art. 509 sexies c.p.
  • Viene introdotto il tentativo di conciliazione (in alternativa allo strumento della mediazione) come condizione di procedibilità per l’azione di risarcimento danni.
  • Viene prevista l’istituzione di un Fondo di garanzia per il risarcimento dei danni subiti dai pazienti.

Lo scopo perseguito dal legislatore è quello di combattere la c.d medicina difensiva, intesa come pratica dei medici volta a evitare possibili azioni legali di responsabilità, conseguenti al proprio operato.

Si parla, in particolare, di medicina difensiva positiva quando si assiste ad una eccessiva prudenza, che si esplica attraverso servizi terapeutici o diagnostici sproporzionati e superflui rispetto a quanto strettamente necessario.

Si parla, invece, di medicina difensiva negativa quando l’eccessiva prudenza si traduce nel rifiuto di compiere operazioni che presentino alti profili di rischio o nel rifiuto di occuparsi di pazienti che presentino condizioni cliniche delicate.

Nel primo caso, il paziente rischia di essere sottoposto ad un surplus di esami e terapie, nel secondo caso di essere abbandonato a se stesso, anche quando un coraggioso intervento medico consentirebbe di aumentare le chance di guarigione.

In entrambi i casi, a risultare lesi sono il diritto alla salute costituzionalmente tutelato, le finanze pubbliche, la tranquillità della classe medica, il rapporto medico-paziente.

Il percorso normativo, iniziato con il decreto Balduzzi e proseguito con la legge Gelli, è dunque volto a garantire una maggiore serenità a questa categoria di professionisti, vessata da continue (e spesso pretestuose) azioni di risarcimento danni, intentate da pazienti che, in un’epoca storica in cui non risulta concepibile che non tutto possa essere dominato dall’uomo, di fronte ad un insuccesso della terapia o dell’operazione medico-chirurgica, mostrano sempre maggiori difficoltà ad accettare l’idea che la mancata guarigione possa essere addebitabile al caso o alla “natura delle cose” e, in un clima generale di sfiducia, preferiscono ricorrere in giudizio per far valere le proprie ragioni.

Esaminiamo allora nel dettaglio le novità appena introdotte.

2. Responsabilità civile. Addio alla responsabilità contrattuale. La nuova responsabilità sarà extracontrattuale.

L’art. 7 della nuova legge, al comma 3, sancisce la natura extracontrattuale della responsabilità degli esercenti la professione sanitaria, salvo che abbiano assunto un’obbligazione contrattuale con il paziente.

Art. 7. Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria

1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose.

2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina.

3. L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5 della presente legge e dell'articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge.

4. Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo.

5. Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile.

Viene così posto definitivamente fine al dibattito che aveva interessato la giurisprudenza all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Balduzzi, che all’art.3 affermava che “l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si  attiene  a  linee  guida  e  buone   pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde  penalmente  per colpa lieve. In tali casi resta comunque  fermo  l'obbligo  di  cui all'articolo  2043  del  codice  civile.  Il  giudice,  anche   nella determinazione del risarcimento del danno,  tiene  debitamente  conto della condotta di cui al primo periodo.” Il riferimento all’art. 2043 cc aveva infatti diviso la dottrina e la giurisprudenza.

In particolare, secondo l’opinione maggioritaria, nulla era mutato sotto il profilo civilistico, in quanto la responsabilità doveva continuare a considerarsi di natura contrattuale.

La tesi che optava per la natura contrattuale trovava il suo più autorevole avallo nella sentenza della Corte di Cassazione n.589/99. In particolare, la responsabilità veniva qualificata come “responsabilità da contatto sociale”, cioè derivante dal particolare rapporto che si instaura tra il medico dipendente della struttura sanitaria e il paziente, a seguito dell’accettazione da parte della struttura ospedaliera.

Si tratta di una forma di responsabilità che intercorre tra soggetti che, pur non avendo formalmente stipulato alcun contratto, entrano appunto in “contatto”, con la derivazione di obblighi di protezione in capo ad uno di essi (il medico) nei confronti dell’altro (il paziente).

L’esclusione della responsabilità extracontrattuale si spiegava alla luce del fatto che medico e paziente non potrebbero considerarsi tra loro “soggetti estranei”. Il danno cagionato dal medico al paziente non potrebbe considerarsi assimilabile al danno cagionato dal quisque de populo ad un soggetto qualunque, trattandosi di un danno provocato da un soggetto ad un altro che si era affidato alle sue cure, nell’ambito di un rapporto contrattuale di fatto, connotato dall’affidamento del secondo verso il primo.

Il richiamo all’art. 2043 c.c. nella legge Balduzzi veniva pertanto spiegato come un più generico richiamo alla responsabilità civilistica, tenuta ferma anche nel caso in cui il medico non fosse chiamato a rispondere penalmente del proprio operato.

Secondo una diversa e minoritaria opinione[1], il riferimento all’art. 2043 cc doveva invece considerarsi un chiaro indice della inequivocabile volontà del legislatore di affermare la natura aquiliana della responsabilità medica.

L’attuale riforma ha pertanto messo la parola “fine” alla querelle precedente, affermando a chiare lettere la scelta fatta.

Si tratta di una pura questione dogmatica? Non proprio. Le differenze tra le due forme di responsabilità sono infatti molteplici e le più significative riguardano i seguenti aspetti:

1. Termine di prescrizione: mentre per la responsabilità contrattuale il termine di prescrizione è decennale, per quella extracontrattuale è dimezzato.  La responsabilità del medico potrà pertanto essere fatta valere entro 5 anni, a partire dal momento in cui il danno si manifesta.

2. Oneri probatori: mentre nel caso della responsabilità extracontrattuale, gli oneri probatori sono addossati al danneggiato, che dovrà provare il fatto, il danno ingiusto, il nesso di causalità tra fatto e danno e l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, nel caso della responsabilità contrattuale  il creditore, secondo un orientamento risalente ad un arresto della Corte di Cassazione del 2001, può limitarsi ad allegare l’inadempimento, spettando viceversa al debitore provare l’avvenuto adempimento o che l’inadempimento, pur sussistente, è determinato da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile[2].

3. In tema di danni risarcibili, in ambito contrattuale, l’art. 1225 cc stabilisce che “se l'inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione”. Tale norma non si ritrova invece in ambito extracontrattuale.

Il regime diventa dunque più favorevole per l’esercente la professione sanitaria, fermo restando invece (e non potrebbe essere diversamente) quello, più di favore per il paziente, della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria.

La conseguenza (prevedibile) è che i pazienti che riterranno di agire in giudizio per domandare un risarcimento del danno presumibilmente cagionato dal medico, preferiranno citare direttamente la struttura ospedaliera, che rimane responsabile dei propri dipendenti e collaboratori, ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 1218- 1228 cc, salvo poi esercitare il diritto di regresso.

Rimane una precisazione (alquanto scontata) da fare e cioè che il regime della responsabilità rimarrà di natura contrattuale nel caso in cui tra medico e paziente sia stato stipulato un vero e proprio contratto, come accade nel caso in cui il rapporto si sia instaurato al di fuori di una struttura ospedaliera, all’interno di uno studio medico.

Si potrebbe pertanto profilare un dubbio di legittimità costituzionale alla luce dell’art. 3 Costituzione. Le differenze sostanziali del rapporto medico-paziente nel privato e nel pubblico sono tanto marcate da giustificare una differenza di disciplina così consistente? Il dubbio rimane, per ora, irrisolto.

3. Responsabilità penale. Introduzione dell’art. 590 sexies c.p.

Rilevanti modifiche sono state introdotte anche sotto il profilo penalistico.

Viene infatti introdotto nel codice penale l’art. 590 sexies c.p.

Art. 590-sexies, Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario.

1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.

2. Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Pe comprendere la reale portata della nuova disposizione, non si può prescindere dalla lettura della precedente norma contenuta nell’art.3 del decreto Balduzzi: “l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività  si  attiene  a  linee  guida  e  buone   pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde  penalmente  per colpa lieve”.

Due dati saltano subito all’occhio: la differenziazione tra colpa grave e colpa lieve e il richiamo alle linee guida e buona pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

La regola desumibile da questa disposizione era pertanto la seguente:

  1. Il medico che si fosse attenuto alle linee guida e alle buone pratiche e che non fosse né in colpa lieve né in colpa grave, non sarebbe stato penalmente responsabile.
  2. il medico che non si fosse attenuto alle linee guida e alle buone pratiche e che fosse in colpa lieve o grave, sarebbe stato penalmente responsabile.
  3. Il medico che si fosse attenuto alle linee guida e alle buone pratiche, in un caso specifico in cui avrebbe invece dovuto ragionevolmente discostarsene, sarebbe stato penalmente responsabile solo se in colpa grave e non anche nelle ipotesi di colpa lieve.

Il decreto Balduzzi aveva pertanto introdotto un tendenziale obbligo di rispettare le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, obbligo da rispettare tuttavia non in maniera meccanica e automatica, ma previo esame della specificità del caso concreto.

In altre parole, la logica del decreto Balduzzi era la seguente: una buona linea guida, che nel 99% dei casi, se rispettata, può dare esiti soddisfacenti, in un caso su 100 potrebbe invece, se rispettata pedissequamente, dare luogo ad esiti negativi. Il medico deve quindi saper riconoscere se, nel caso a lui sottoposto, la linea guida debba essere disapplicata e, in caso di verifica positiva, discostarsene.

Se non lo fa ed è in colpa grave, è responsabile penalmente.

Se non lo fa ed è in colpa lieve, non risponde penalmente.

L’ambito di esenzione di responsabilità del medico, già di per sé piuttosto circoscritto, era stato poi ancor più ristretto dalla interpretazione data dalla giurisprudenza, che aveva delimitato il concetto di colpa alla sola accezione della imperizia.

Le prime applicazioni giurisprudenziali avevano infatti applicato la norma ai soli casi di imperizia lieve e non anche ai casi di negligenza lieve o imprudenza lieve, basandosi sull’assunto secondo il quale le linee guida e le buone pratiche accreditate contengano solo regole di perizia.

Il principio “culpa levis sine imperitia non excusat”, espresso dalla sentenza “Pagano[3], confermato dalla sentenza “Cantore”[4],  accolto persino dalla Corte Costituzionale[5], era  stato quindi seguito dalla giurisprudenza successiva, con esiti contestati da attenta dottrina[6] che aveva rilevato come non solo i contorni applicativi fossero stati già stati circoscritti da un’interpretazione così restrittiva, ma anche come spesso la giurisprudenza avesse negato l’applicazione della legge a casi di apparente negligenza, qualificabili in realtà come casi di imperizia.

D’altra parte, il confine tra imperizia e negligenza è davvero sottile. Si faccia il caso di un omesso o ritardato approfondimento diagnostico, cui segua la morte del paziente. Il non avere eseguito un determinato esame è questione di negligenza o di imperizia? È davvero così agevole distinguere nel concreto tra i due profili di colpa?

Proprio prendendo gradualmente consapevolezza delle suesposte difficoltà, la giurisprudenza[7] aveva progressivamente manifestato un’apertura verso l’accoglimento dell’idea che le linee guida e le buone pratiche mediche non attenessero ai soli profili di perizia, ma anche ai profili di diligenza, arrivando così ad allargare le maglie della legge Balduzzi.  

Il cammino intrapreso dalla giurisprudenza era stato d’altra parte salutato con favore dalla dottrina, anche in considerazione del rischio di decisioni arbitrarie da parte dei giudici, data la quasi interscambiabilità[8] tra i concetti di perizia e diligenza, potendo definirsi l’imperizia una negligenza o un’imprudenza qualificata dall’ambito tecnico in cui essa ha luogo.

Ecco quindi manifestato il primo punto di divergenza tra le due normative e il primo aspetto già soggetto a critica: la legge Gelli, concepita con lo scopo di “alleggerire” la responsabilità medica, rischia di rappresentare in realtà un passo indietro rispetto ai primi risultati che la giurisprudenza aveva faticosamente raggiunto.

Il legislatore è stato infatti chiaro nel circoscrivere l’ambito applicativo della riforma ai soli casi di “imperizia”.

Occorre inoltre evidenziare un ulteriore aspetto: la nuova disciplina non fa più riferimento (a differenza tanto della legge Balduzzi, quanto del disegno di legge prima delle ultime modifiche) alla gradazione della colpa.

Scomparso il riferimento alla colpa grave, il medico torna quindi a rispondere penalmente della propria imperizia anche nelle ipotesi di colpa lieve, decretandosi così un ulteriore peggioramento per la classe medica rispetto alla disciplina precedente.

Quasi invariato rimane invece l’obbligo del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali (che rispetto alle prime si pongono non più su un piano di alternatività, ma di supplenza), le quali, per finalità di chiarezza e certezza, verranno raccolte e pubblicate in modo da essere più facilmente  consultabili.

Se la facile reperibilità delle linee guida possa davvero garantire la serenità del medico è poi una questione ulteriore. Non è infatti da escludersi che talune linee guida, in quanto agganciate ad un sapere scientifico in continua evoluzione, si presentino “superate” (nonostante l’obbligo biennale di aggiornamento) rispetto al caso specifico da affrontare e ciononostante non del tutto insoddisfacenti.

Attenta dottrina[9] ha quindi rilevato come tale sistema rischi di spingere i sanitari ad appiattirsi verso livelli di mediocrità nella adozione delle proprie scelte, optando per l’applicazione sicura e tranquillizzante delle linee guida, quando invece uno slancio verso percorsi innovativi e più efficaci, ma non ancora consolidati a livello scientifico, potrebbero fare la differenza e produrre maggiori benefici.

Il medico che, per ipotesi, abbia curato la propria preparazione e professionalità, interessandosi a metodi terapeutici all’avanguardia, ma non ancora consolidati nella comunità scientifica, si troverebbe di fronte alla drammatica alternativa di disapplicare le linee guida, rischiando di andare incontro ad una responsabilità penale se gli esiti non dovessero essere quelli sperati o di seguire le linee guida in maniera prudente, così precostituendosi una causa di esclusione della responsabilità penale, ma magari con scarsi risultati per il paziente, che vedrebbe così irrimediabilmente compromesso il proprio diritto alla salute.

Se quindi l’attuale riforma rappresenti davvero un passo avanti nella lotta alla medicina difensiva sarà il tempo a dirlo, ma sicuro è che gli esiti in gran parte dipenderanno dalla sensibilità della giurisprudenza, dalla volontà o meno di intraprendere un’operazione di “ortopedia giuridica” rispetto gli aspetti più critici della nuova fattispecie.

4. Il tentativo obbligatorio di conciliazione.

La riforma introduce, con finalità deflattive del contenzioso, il tentativo obbligatorio di conciliazione come condizione di procedibilità dell’azione di risarcimento danni derivanti da responsabilità sanitaria.

L’attore è tenuto pertanto a presentare ricorso ex art. 696bis c.p.c dinanzi al giudice competente o, in alternativa, ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 28/2010.

La partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva, effettuato secondo il disposto dell'articolo 15 della legge Gelli, è obbligatoria per tutte le parti, incluse le imprese di assicurazione, che sono tenute a formulare un’offerta di risarcimento del danno ovvero a comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla.

Nel caso in cui l’impresa non abbia formulato l’offerta di risarcimento e la sentenza successiva veda vittorioso il danneggiato, il giudice trasmette copia della sentenza all'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza.

La mancata partecipazione alla conciliazione viene inoltre sanzionata dal giudice con il provvedimento che definisce il giudizio, condannando le parti assenti al pagamento delle spese di consulenza e di lite, a prescindere dall'esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata in via equitativa, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione.

5. Il Fondo di garanzia.

Viene inoltre istituito Un Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, alimentato dal versamento di un contributo annuale dovuto dalle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità dei sanitari e gestito dalla CONSAP.

Il Fondo di garanzia concorrerà al risarcimento del danno nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie, intervenendo nei seguenti casi:

a) qualora il danno sia di importo eccedente rispetto ai massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati dalla struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero dall’esercente la professione sanitaria ai sensi del decreto di cui all’articolo 10 della legge;

b) qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria risultino assicurati presso un’impresa che al momento del sinistro si trovi in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa o vi venga posta successivamente;

c) qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria siano sprovvisti di copertura assicurativa per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall’albo dell’impresa assicuratrice stessa.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Trib. Milano, sez. I civ., sentenza n. 9693 del 17 luglio 2014 (pubbl. 23 luglio 2014), est. Patrizio Gattari.
Trib. Milano, sez. I civ,. sentenza 2 dicembre 2014 n. 1430. Est Roberto Bichi.
[2] La regola viene comunque invertita nel caso in cui si tratti di obbligazione di non facere, in quanto sarebbe più facile per il creditore provare la condotta attiva lesiva, piuttosto che per il debitore provare un fatto negativo, quale appunto il non aver fatto qualcosa.
[3] Cass. Pen. Sez. IV, 29 gennaio 2013 n.16237.
[4] Cass. Pen. Sez. IV, 9 aprile 2013 n. 16237.
[5] Corte Cost. ord. 6 dicembre 2013 n. 295.
[6] P. PIRAS, Culpa levis sine imperitia non ecusat: il principio si ritira e giunge la prima assoluzine di legittimità per la legge Balduzzi, in Diritto Penale Contemporaneo.
[7] Cass. Pen. Sez, IV. 9 ottobre 2014 n. 47289: “non può tuttavia escludersi che le linee guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera dell’accuratezza di compiti magari non particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale”.
Vedi anche Cass. Pen. Sez. IV, 19 gennaio 2015 n.9923.
[8] G. BETTIOL, Diritto penale, Padova, CEDAM, 1982, p. 477.
[9] P.F. POLI, Il d.d.l Gellli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, in Diritto Penale Contemporaneo.