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Pubbl. Sab, 11 Mar 2017

Cambiamento di fisionomia per il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU

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Francesca Infante


Reattività dell´ordinamento giuridico italiano all´evoluzione normativa e giurisprudenziale del diritto dell´Unione Europea


Nel nostro ordinamento giuridico interno è l’art. 649 c.p.p. a fondare la garanzia fondamentale, tipica di ogni Stato di diritto, di non essere giudicato due volte per il “medesimo fatto” quando siano stati emanati una sentenza o un decreto penale divenuti irrevocabili.

A livello sovranazionale il divieto di bis in idem è stato codificato all’art. 4 del protocollo 7 CEDU quale “diritto a non essere giudicato o punito due volte” e, successivamente, recepito all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, dopo il Trattato di Lisbona, ha acquisito la medesima forza giuridica vincolante dei Trattati. Sebbene accolto nella Carta di Nizza, non si può ritenere - o almeno questo è l’orientamento dominante della giurisprudenza di legittimità e costituzionale interne -  che questo principio abbia un’applicazione diretta vieppiù ove si consideri che questo andrebbe trasportato nel nostro ordinamento insieme all’interpretazione che ne fornisce la Corte EDU.

Il nodo della questione risiede proprio in questo: la Corte EDU ha interpretato il principio del ne bis in idem in modo non del tutto compatibile con le coordinate del nostro ordinamento giuridico costringendo, pertanto, i giudici nazionali a sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui sembra contrastare con la suddetta interpretazione e, dunque, con l’art. 117 I comma della Costituzione. Come precisato dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 80/2011, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona non ha comportato un mutamento del sistema delle fonti e, conservando le norme della CEDU valore di norme interposte, non c’è altra strada per i giudici interni che quella di sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme nazionali che contrastino con quelle di cui alla CEDU.

La linea interpretativa uniformemente seguita dalla Corte EDU, almeno fino a tempi recenti, era quella di qualificare una sanzione o un processo come “penale” servendosi di criteri differenti da quelli codificati ed adottati dagli ordinamenti degli Stati membri e fondandosi su un canone di effettiva afflittività della sanzione applicata. Restano tutt’ora attuali i cd. “criteri Engel”, risalenti ad una decisione della Corte EDU del 1976, che individuano la “sanzione penale” in base alla qualificazione giuridica, alla natura pubblicistica degli interessi tutelati e alla finalità repressiva e general-preventiva della sanzione inflitta, nonché alla gravità delle conseguenze in cui si può incorrere.

Questi criteri vengono richiamati anche nella sentenza della Corte EDU, Grande Stevens c. Italia, del 2014 la quale censura nettamente l’ordinamento giuridico italiano per avere previsto un “doppio binario sanzionatorio” nel settore degli abusi di mercato. Proprio in base ai suddetti criteri, la Corte sovranazionale riconosce natura sostanzialmente penale alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di manipolazione del mercato ex art. 186 ter in considerazione della gravità desumibile dall’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e dalle conseguenze delle sanzioni interdittive. Non è stata ritenuta valida, pertanto, la riserva espressa dall’Italia, in sede di ratifica del Protocollo 7, in ordine agli artt. 2 e 4 dello stesso per la quale questi avrebbero trovato applicazione nell’ordinamento interno solo per gli illeciti che la legge italiana definisce, expressis verbis, come “penali, perché ritenuta troppo vaga e generica.

Evidenzia, inoltre, come nel nostro ordinamento manchi un meccanismo che consenta l’interruzione del secondo procedimento nel momento in cui il primo si sia concluso con provvedimento divenuto definitivo, soprattutto quando si tratti dello “stesso fatto” – accertamento che dovrà essere compiuto in concreto. Il vulnus al principio del ne bis in idem è tanto più grave quanto sistemica è la sua violazione in quanto è suscettibile di ripetersi all’infinito in tutti quei settori in cui il rapporto tra illecito amministrativo e penale non venga risolto nel senso di un concorso apparente di norme.

Secondo il suddetto meccanismo, a fronte di una sentenza di tale portata, non potendo il giudice italiano disapplicare la norma di cui all’art. 649 c.p.p., né essendo possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della stessa, ha sollevato questione di legittimità costituzionale sia degli artt. 187 bis e ter del d. lgs. 58/1998 sia dell’art. 649 c.p.p. La Corte Cost., con sentenza n. 102/2016, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni. Essa ha, dapprima, ricostruito il quadro normativo interno sugli abusi di mercato evidenziando che le due fattispecie dell’abuso di informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato erano, prima del 2005, sanzionate esclusivamente come delitti dagli artt. 184 e 185 del d. lgs. 58/1998; solo con una novella ex l. 62 del 2005, sono stati affiancati due paralleli illeciti amministrativi, insider trading e manipolazione di mercato, rispettivamente agli artt. 187 bis e 187 ter. In effetti, come osserva la Corte Cost., la sovrapponibilità tra questi ultimi e gli illeciti penali deriva dalla stessa tecnica di formulazione utilizzata dal legislatore del 2005 il quale fa “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato…”. Ricordando i principi affermati dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens c. Italia, la Corte Costituzionale ritiene, ragionando a contrario, che l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 bis del d. lgs. 58/1998 non comporterebbe l’applicazione dell’art. 4 Prot. 7 CEDU, ma determinerebbe un’evidente violazione dello stesso perché la sua espunzione dell’ordinamento giuridico aprirebbe la strada ad un secondo giudizio penale anziché vietare lo stesso.

La Corte Cost. sottolinea come il rispetto del divieto di bis in idem, nella giurisprudenza europea, abbia valore processuale e non sostanziale: nulla vieta che un medesimo fatto sia punito a più titoli e con diverse sanzioni, ma ciò deve avvenire in un unico procedimento o attraverso procedimenti coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro. Tuttavia questo obiettivo non può essere realizzato in via interpretativa ma deve provvedervi il legislatore e sembra collocarsi proprio in tale direzione la legge di delegazione europea per l’attuazione della Direttiva 2014/57/UE che impone agli Stati di adottare sanzioni penali per i casi più gravi di abuso di mercato commessi con dolo, permettendo loro di aggiungere una sanzione amministrativa, secondo quando previsto da un Regolamento Ue del 2014 che abroga le Direttive del 2003 e del 2004 sugli abusi di mercato.

Per quanto concerne, invece, la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 649 c.p.p., l’intervento additivo richiesto - si richiedeva una dichiarazione di illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede il divieto di un secondo giudizio quando un soggetto sia stato giudicato, per il medesimo fatto, con provvedimento divenuto irrevocabile, emesso all’esito di un procedimento amministrativo, che commina una sanzione di natura “sostanzialmente” penale - non avrebbe portato ad alcun coordinamento tra i due procedimenti ma solo a favorire quello più celermente definito, senza possibilità di risolvere in astratto il conflitto tra le due risposte sanzionatorie[1].

Nel 2016, la Corte EDU, in un caso riguardante la Norvegia, segna un importante cambio di rotta nell’interpretazione del principio del ne bis in idem affermando che esso vada mitigato quando “i due procedimenti siano condotti in parallelo”. Vi deve essere, tra di essi, una “connessione sostanziale”, desumibile dagli “scopi” dei procedimenti e dalla loro duplicità quale conseguenza prevedibile della condotta, che eviti la duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova, tenendosi conto della sanzione già irrogata in modo che la seconda risulti proporzionata; inoltre la connessione deve manifestarsi anche sul versante “temporale” non essendo, però, necessaria la contemporaneità.

Sebbene questa sentenza abbia riguardato la materia fiscale, non potrà che trovare applicazione in tutti quei casi in cui gli ordinamenti giuridici degli Stati membri abbiano scelto un doppio binario sanzionatorio, ponendosi in netta discontinuità con i principi affermati dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens c. Italia del 2014.

Può agevolmente immaginarsi l’effetto dirompente che, nel diritto interno, avrà questa sentenza, ed infatti, i primi sintomi iniziano a manifestarsi proprio nella nostra giurisprudenza di merito. Recente è un’ordinanza del GUP di Milano che, proprio in ossequio ai criteri di cui alla sentenza della Corte EDU del 2016, non ritiene violato il divieto di bis in idem con riguardo all’irrogazione, in via definitiva, di sanzioni amministrative. Tra le righe, essa contiene una critica all’inerzia del legislatore italiano in quando dà atto delle novità legislative europee, di poco successive alla sentenza della Grande Camera nel caso Stevens, che, proprio in materia di market abuse, consistono nel Regolamento 596/2014, con cui si ridefinisce lo strumentario sanzionatorio di tipo amministrativo, e nella Direttiva 2014/57 che demanda agli Stati membri l’individuazione di sanzioni penali minime, con una evidente scelta per il doppio binario sanzionatorio, purchè uniformato. Mentre il Regolamento è immediatamente applicabile, la direttiva non è stata attuata dal nostro legislatore nel termine previsto così contribuendo ad accrescere il livello di incertezza nel quale è destinato a muoversi il nostro operatore giuridico. Considerando, infatti, che la Corte Cost., con la sopra riportata sentenza n. 102/2016, non ha assunto una posizione netta sulle questioni di legittimità costituzionale prospettatele, probabilmente attendendo proprio un intervento del legislatore, il nostro ordinamento giuridico interno è rimasto immutato mentre quello europeo mostra degli importanti segni di cambiamento.

[1] L’art. 649 c.p.p. non si è salvato, però, da un’altra questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento alla parte in cui limita l’applicazione del principio del ne bis in idem al “medesimo fatto” inteso come “fatto giuridico” anziché come “fatto storico”. La Corte Cost., con sentenza n. 200/2016, ne ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale accogliendo l’intepretazione di “medesimo fatto” che fornisce la Corte EDU in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU; risulta possibile, infatti, ove per medesimo fatto si intenda quello giuridico, celebrare un secondo giudizio nei confronti dello stesso imputato allorchè le norme incriminatrici sono diverse e suscettibili di concorso formale. Bisogna, pertanto, far coincidere il concetto di “medesimo fatto” con quell’entità materiale individuata dalla condotta, dal nesso di causalità e dall’evento.