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Pubbl. Sab, 11 Feb 2017

Camminodiritto verso la guerra. #2: la seconda guerra del Golfo

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Saverio Setti
Dirigente della P.A.Ministero della Difesa


Seconda puntata di una serie di episodi scelti per un´analisi del diritto dei conflitti armati.


Sommario: 1. Introduzione; 2. Antefatto e fatto; 3. Il giudizio delle legge (ad oggi).

1. Introduzione

La seconda guerra del Golfo è uno dei conflitti recenti che forse più di tutti influenza il nostro quotidiano modo di vivere. L’invasione da parte di una colazione a guida statunitense dell’Iraq nel 2003 è stata un’operazione che ha rapidamente portato alla deposizione di Saddam Hussein[1], ma che si è trascinata per quasi nove anni[2] in un conflitto di liberazione da parte delle forze insorgenti. È lecito pensare che l’instabilità duratura dell’area, unita alla forte presenza di radicalismo islamico, possa aver favorito lo sviluppo dell’attuale Stato Islamico.

 

2. Antefatto e fatto

All’indomani dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti d’America, che avevano precedentemente intrapreso una limitata politica di rientro dalle questioni mondiali, capovolsero la loro idea di politica estera dichiarando la guerra al terrore. Durante una sessione congiunta al Congresso, il neo eletto George W. Bush dichiarò: “Il nostro nemico è una rete radicale di terroristi e ogni governo che li sostiene. La nostra guerra al terrore inizia con al-Qāʿida, ma non finisce lì. Non finirà fino a quando ogni gruppo terroristico di portata globale sarà trovato, fermato e sconfitto”[3]. Si è da alcuni ritenuto (Chomsky et alii) che, in questo modo, gli Stati Uniti siano prepotentemente tornati ad una politica di potenza, ormai abbandonata dalla teoria e dalla prassi giuridica delle relazioni internazionali. Ciò è vero solo in parte. Se, infatti, gli USA da un lato si pongo unilateralmente quali ultimi decisori in ordine alla qualificazione di uno Stato quale “canaglia”[4] è d’altra parte innegabile che gli Stati Uniti abbiano sempre cercato una giustificazione che potesse sorreggere i loro attacchi. Giustificazione che mai si è basata sull’intenzione dichiarata di competere con altri soggetti statali in modo aggressivo per appropriarsi delle risorse del sistema-mondo. Che questo, incidentalmente sia stata una concausa della guerra in discorso, non è qui oggetto di questione, tuttavia non si può parlare di riemersione di politica di potenza sic et simpliciter[5], essendo sempre stata dichiarata una legittima difesa.

A guerra d’Afghanistan non ancora conclusa, l’amministrazione statunitense spostò la sua attenzione all’apertura di un nuovo teatro operativo nella regione irachena. Si pensò, infatti, che il presidente Hussein stesse compiendo una grande operazione di riarmo “nel campo delle armi di distruzione di massa, disobbedendo alle risoluzioni dell'ONU ed alle restrizioni che esse impongono”[6]. Il Dipartimento di Stato ritenne che una vittoriosa guerra in Iraq avrebbe potuto elevare il prestigio statunitense, che si sarebbe posto quale baluardo della democrazia nel Medio oriente. Sul piano macro-strategico la “conquista” dell’Iraq avrebbe fornito un caposaldo per ogni eventuale azione contro la Siria e l’Iran, oltre a garantire un centro di controllo di grande valore in terra terroristica. Naturalmente sul punto assai forti furono le voci di dissenso[7]. La posizione di riarmo iracheno era certamente oggetto di notevoli dubbi, mancando prove incontrovertibili e non potendo considerare tali le dichiarazioni (strategicamente suicide) del dittatore. La più grande critica mossa agli Stati Uniti in merito, però, riguardò il malcelato desiderio del Paese di affrancarsi dalla dipendenza petrolifera venezuelana e saudita: l’occupazione dell’Iraq[8] avrebbe agevolato le società petrolifere nordamericane nell’acquisizione della risorsa; queste ultime avrebbero aumentato la produzione, facendo calare il prezzo del greggio e favorendo la ripresa dell’economia reale dei Paesi occidentali.

Nonostante fosse, per Costituzione il Comandante in capo delle Forze Armate, il Presidente Bush chiese ed ottenne dal Congresso l’autorizzazione all’uso della forza militare per difendere gli Stati Uniti dalla continua minaccia irachena a partire dall’11 ottobre 2002 in poi. Successivamente, gli USA, ottennero una unanime risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU[9] che imponeva all’Iraq di adempiere ai propri obblighi in materia di disarmo chimico e nucleare e di consentire un illimitato accesso ad ispettori imparziali. L’Iraq accettò pienamente le richieste del Consiglio, consentendo ad una commissione dell’AIEA[10] guidata da Muḥammad al-Barādeʿī di accedere ad ogni sito missilistico o militare al fine di condurre le attività istruttorie. Il rapporto ONU si concluse il 30 gennaio 2003 con una dichiarazione di grande improbabilità che l’Iraq fosse in grado o comunque avesse avviato un programma di armamento nucleare. Il 5 febbraio Colin Powell, Segretario di Stato, tentò di far approvare dal Consiglio l’autorizzazione ad un’azione militare presentando delle prove artefatte (come egli stesso dichiarerà in futuro[11]) secondo cui l’Iraq avrebbe avviato la produzione di armi di distruzione di massa su piattaforme ruotate mobili, sì da sfuggire alle ispezioni. Le prove non convinsero i 15 del Consiglio[12], dunque la questione non fu messa all’ordine del giorno e gli Stati Uniti riunirono una Coalizione di Volenterosi, lanciando un ultimatum di esilio a Saddam Hussein.

Scaduto l’ultimatum, la mattina del 20 marzo, le navi da guerra iniziarono un fitto bombardamento di missili Cruise che, unito al massiccio attacco aereo, in poche ore paralizzarono la catena di comando e controllo dell’esercito iracheno. Questo era male armato e scarsamente motivato. I reparti di élite della guardia repubblicana (Fedā'iyyīn Ṣaddām) avevano mezzi assai poco efficaci contro le divisioni alleate (le sanzioni avevano impedito l'importazione di pezzi di ricambio). A conti fatti, gran parte delle unità irachene si sgretolarono prima di incontrare il nemico, per via dei bombardamenti, e dell'incompetenza o delle diserzioni dei loro comandanti. Dal confine sud con il Kuwait iniziò l’avanzata della forza di terra, che, insieme ai reparti di paracadutisti infiltrati al nord iniziò una manovra a tenaglia su Baghdad. Preso il primo pozzo a sud (Umm Qaṣr) la direttrice di attacco si sdoppiò: il grosso degli americani proseguì verso ovest e verso nord, evitando di prendere d'assalto le città salvo quando necessario per impossessarsi di ponti sul Tigri o sull'Eufrate. Gli Iracheni opposero resistenza per alcuni giorni nei pressi di Hilla e Karbala, aiutati da una tempesta di sabbia. Tuttavia il 9 aprile, tre sole settimane dopo l'inizio dell'invasione, gli americani entrarono a Baghdad e le rimanenti difese irachene crollarono: il 10 aprile i Curdi entrarono a Kirkuk e infine il 15 aprile cadde anche la città natale del rais, Tikrīt. Il 1 maggio del 2003, dal ponte dell’Abramo Lincoln il Presidente Bush dichiarò la vittoria, probabilmente ignaro che il conflitto sarebbe durato altri nove sanguinosi anni.

 

3. Il giudizio delle legge (ad oggi)

Le questioni di natura legale che vengono in immediato rilievo affrontando l’argomento in discorso sono fondamentalmente due: la legittima difesa preventiva e la disciplina dell’occupazione militare.

La prima questione necessita subito di un chiarimento: essa inerisce non lo ius in bello, ovvero l’insieme delle norme che disciplinano le ostilità tra belligeranti e le relazioni di questi tra loro e Stati terzi. La legittima difesa (preventiva o meno) inerisce lo ius ad bellum, ovvero il diritto di uno Stato di ricorrere alla guerra per tutelare alcune sue posizioni giuridiche soggettive.

Com’è noto, l’architettura generale della Carta dell’ONU pone, in carico agli Stati, un divieto di utilizzo della forza come strumento per risolvere le controversie[13]. Una precisa eccezione è stabilita dall’art. 51, che positivizza il diritto “naturale”[14] di autotutela individuale o collettiva. Testualmente la Carta ONU riporta: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Per quanto qui di interesse, questo testo autorizza la legittima difesa preventiva? La maggioranza della dottrina ritiene insuperabile il dato testuale (nel caso abbia luogo un attacco armato), sottolineando che è logicamente impossibile difendersi legittimamente da un attacco che non sia stato posto in essere. Non solo. Ammettendo la possibilità di legittima difesa preventiva, sarebbe possibile arretrare la tutela di questo strumento idealmente ad ogni atto di politica estera posto in essere da uno Stato, rendendo indistinguibile una difesa da un’aggressione. La dottrina statunitense si è sforzata di trovare ragioni giustificatrici. Si è argomentato che la Carta, nel definire naturale il diritto alla legittima difesa, non abbia fatto altro che far proprio un diritto preesistente (giacché altrimenti non l’avrebbe qualificato come naturale). Poiché, però, l’unico diritto internazionale preesistente è quello consuetudinario e questo ammetteva la legittima difesa preventiva, la Carta dell’ONU non avrebbe fatto altro che prendere atto di questa situazione. Questa ricostruzione è stata servente alla c.d. dottrina Bush[15], annunciata dal Presidente durante un discorso ai cadetti di West Point[16] nel giugno 2002. Secondo queste linee guida per far fronte alla minaccia dell’uso di armi di distruzione di massa, contro cui la dissuasione è inutile, gli Stati possono intervenire anche nel caso in cui il nemico sia in possesso di armi di distruzione di massa (e sia pronto ad usarle) ovvero ospiti organizzazioni terroriste[17]. Come appena visto, questa interpretazione è incompatibile con l’art. 51 della Carta dell’ONU.

Tuttavia una certa qual prevenzione è, a parere di chi scrive, certamente ammissibile. Si considerino alcuni esempi. È certamente lecito, anche per quelli che sostengono una interpretazione restrittiva dell’art. 51, reagire in legittima difesa allorquando l’attacco sia stato sferrato, sia in corso d’opera, ovvero non sia stato ancora portato a compimento. Si pensi ad una squadra navale diretta inequivocabilmente contro un porto che assumesse una formazione da battaglia o facesse alzare in volo aerei da guerra o ricognitori (es. Pearl Harbour). Ulteriore considerazione va fatta per i moderni sistemi di armamento, anche intercontinentali. Assurdo sarebbe limitare la reazione al momento in cui un missile abbia già colpito l’obiettivo, provocando una distruzione tale da rendere impossibile una reazione[18]. Questa interpretazione mortifica ed annulla il diritto “naturale” alla legittima difesa, poiché sostanzialmente vassallizza lo Stato obiettivo a chi abbia per primo lanciato l’attacco. S questa linea si può, allora affermare la liceità della difesa preventiva a condizione che questa si attivi nell’imminenza di un attacco armato. Imminenza che deve, naturalmente, intendersi in maniera assai restrittiva: atti idonei ed inequivocabilmente diretti ad attaccare, ad es. l’apertura di un condotto di lancio missilistico di un sottomarino, ovvero il rifiuto di uno o più aerei militari di porre fine ad una violazione territoriale, o, ancora, la preparazione di un bombardamento di artiglieria rilevata a mezzo satellitare.

Seconda ed ultima tematica qui analizzata è quella dell’occupazione militare. Per circa nove anni a partire dalla dichiarazione di vittoria la Coalizione occidentale ha, sostanzialmente, occupato militarmente l’Iraq. Senza scendere nello specifico, cosa comporta, legalmente, questa situazione. Ai sensi dell’art. 42 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja, poiché un territorio possa dirsi occupato occorre che esso sia posto di fatto sotto l’autorità di un esercito nemico. Come si evince dal secondo comma, requisito essenziale è l’effettività di questo stato. È, pertanto, sotto occupatio bellica solo quel territorio ove l’esercito nemico sia in grado di imporre nella massima parte della organizzazione sociale e spaziale il proprio volere, prescindendo dall’instaurazione di una struttura stabile di amministrazione militare.

L’occupante, però, non è sovrano del territorio: non può, infatti procedere all’annessione pendente bello, né può procedere a smembramenti od istituzioni di entità statuali nuove, essendo per questo necessario procedere ad un accordo di pace. La popolazione dei territori occupati è legata all’occupante da un vincolo di obbedienza, ma non di fedeltà. Sicché costoro non possono essere costretti a servire nelle sue Forze Armate, ausiliarie, civili ovvero a prestare giuramenti[19]. Ratione materiae, l’occupante ha il dovere di vigilanza sulla proprietà pubblica e privata, agendo come un usufruttuario (ma v. infra). L’art. 64 vieta poi la deportazione in massa o individuale delle persone ed obbliga l’occupante a mantenere in vigore la legislazione penale previgente all’invasione nel territorio occupato, salvo le disposizioni che minaccino l’occupante o siano contrarie ai diritti dell’uomo (si pensi alle leggi razziali nei territori tedeschi occupati nel ’44 dagli Alleati).

Venendo, infine, ai poteri dell’occupante, questi possono riassumersi nel noto ed accettato principio secondo cui “la guerra finanzia la guerra”.  L’occupante potrà procedere alla requisizione di tutti i beni militari nemici. Dietro compenso, potrà appropriarsi di beni pubblici necessari al sostentamento ed all’acquartieramento delle proprie truppe. Se richiesto “dalle imperiose necessità della guerra” potranno requisirsi tutti i beni pubblici. Infine, si ricorda come l’occupante possa agire quale usufruttuario di tutti i beni strategici, cambiandone la destinazione d’uso se necessario, si pensi alla conversione di uno scalo aereo civile occupato in aeroporto militare.

 

[1] Le operazioni sono iniziate il 20 marzo 2003 e la dichiarazione di vittoria è del 1 maggio.

[2] Esattamente per 8 anni e 8 mesi.

[3] « Our enemy is a radical network of terrorists and every government that supports them. Our war on terror begins with al Qaeda, but it does not end there. It will not end until every terrorist group of global reach has been found, stopped and defeated. » (cfr., A Nation Challenged, in The new York Times, 21 sett. 2001, disponibile su http://www.nytimes.com/2001/09/21/us/nation-challenged-president-bush-s-address-terrorism-before-joint-meeting.html?pagewanted=2&pagewanted=all).

[4] In merito il presidente Bush parò di “Asse del male”, costituita da Iraq, Iran e Korea del Nord. (cfr. M. Rosemberg, Axis of Evil, in About Geography, 5 maggio 2010, disponible su http://geography.about.com/od/lists/a/axisofevil.htm).

[5] Per un approfondimento: Hans J. Morgenthau, Scientific Man vs. Power Politics, Chicago: The University of Chicago Press, 1946.

[6] National Intelligence Estimate dell’ottobre 2002, disponibile su https://fas.org/irp/cia/product/iraq-wmd.html.

[7] Ben raccolte in William Rivers Pitt, Scott Ritter, Guerra all'Iraq. Tutto quello che Bush non vuole far sapere al mondo., Fazi Editore, 2002.

[8] Che dispone di giacimenti assai cospicui nelle zone di Halfaya, Majnoon, Rumalia, Qurna dell’ovest e Zubaia.

[10] Agenzia internazionale per l’energia atomica.

[11] Intervista rilasciata il l’8 settembre 2005 alla ABC, disponibile su http://abcnews.go.com/2020/Politics/story?id=1105979&page=1.

[12] Solo 4 espressero opinione favorevole (USA, Regno Unito, Spagna e Bulgaria) gli altri (Francia, Germania, Cina, Pakistan, Siria Messico, Cile, Camerun, Angola, Guinea e Russia) espressero parere contrario.

[13] Art. 2 par. 4.

[14] O “fondamentale”, restando irrilevante la qualità giupositivista o naturalista dello stesso ai fini di questo scritto.

[15] Agile ed interessante A. Curachi, La dottrina Bush ed il concetto di Preemprive War, in Informazioni della Difesa, 4-2009, p. 26 e segg., disponibile su http://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/La_dottrina_Bush_ed_il_concetto_di_P_21War.pdf.

[16] L’Accademia militare federale dell’Esercito degli Stati Uniti d’America.

[17] La strategia della guerra preventiva è stata fatta propria dalla Strategia di Sicurezza Nazionale del periodo 2002-2010, disponibile su https://www.whitehouse.gov/administration/eop/nsc.

[18] Si pensi all’ipotesi di bomba al cobalto, in grado di produrre un fallout di così lunga durata da uccidere lentamente tutte le forme di vita del pianeta. L'idea della bomba al cobalto si basa sulla possibilità di utilizzare i neutroni presenti nell'esplosione nucleare di una bomba H per trasmutare del comune cobalto (cobalto-59 non radioattivo) nell'isotopo cobalto-60 radioattivo.

La bomba è quindi costruita come una normale bomba H in cui l'uranio provoca 2/3 dell'energia sprigionata ed il restante terzo appartiene alla reazione di fusione nucleare (in una bomba H la fissione dell'uranio innesca la fusione nucleare). La differenza è nello strato esterno, detto tamper, che è costituito da cobalto metallico. Al momento dell'esplosione, i neutroni veloci prodotti dalla fusione termonucleare bombardano il cobalto-59 trasmutandolo in cobalto-60 radioattivo e disperdendolo poi nel fallout.

Il cobalto-60 decade per decadimento beta in nichel-60 (stabile) il quale diseccitandosi emette raggi gamma. Il cobalto-60 ha un periodo di dimezzamento pari a 5,27 anni.

[19] Artt. 44-45 del Regolamento annesso alla IV Conv. Ginevra.