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Pubbl. Lun, 30 Gen 2017

L’indicazione delle iniziali è sufficiente ad integrare il delitto di diffamazione

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Simona Iachelli
Funzionario della P.A.Università degli Studi di Catania


La Corte di Cassazione penale, sezione V, con la sentenza n. 54177 del 6 giugno 2016, depositata lo scorso 20 dicembre 2016, ha stabilito che l’indicazione delle sole iniziali di un professionista e del foro di appartenenza bastano ad integrare il reato di diffamazione, laddove i fatti siano avvenuti in un ambito territoriale ristretto.


Sommario: 1. Premessa: considerazioni generali.  2. Vicenda processuale e quaestio juris. 3. Soluzione accolta dalla Suprema Corte.

1. Premessa: considerazioni generali.

La decisione in esame presenta molteplici aspetti d’interesse in tema di diffamazione a mezzo stampa. Preliminarmente, è opportuno analizzare brevemente la fattispecie delittuosa in esame.

Il delitto di diffamazione è previsto dall’art. 595 c.p. (1) nell’ambito dei delitti contro l’onore e consiste nel fatto di chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione.

Il bene giuridico tutelato dal reato de quo è la “reputazione”, concetto differente rispetto a quello di “onore”. Invero, mentre quest’ultimo è inteso come sentimento del proprio valore sociale, la reputazione, invece, è la considerazione e la stima di cui l’individuo gode nella collettività sia sotto il profilo morale che sociale.

Il riferimento ai concetti di onore e di reputazione consente di tracciare una linea distintiva tra le fattispecie di ingiuria e di diffamazione, le quali si differenziano, altresì, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, atteso che la diffamazione presuppone l’assenza della persona offesa.

Più nel dettaglio, l’elemento oggettivo del reato consta di tre requisiti: il primo consiste nell'assenza dell'offeso, il secondo è costituito dall'offesa all'altrui reputazione, il terzo concerne la modalità di comunicazione, nel senso che l'offesa deve essere comunicata a più persone.

Il primo requisito richiesto ai fini della configurabilità del delitto di diffamazione è l'assenza del soggetto passivo, che si deduce dall'inciso "fuori dai casi indicati nell'articolo precedente". Come già anticipato, detto requisito, consistente nell'impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l'addebito diffamatorio, distingue la diffamazione dall’ingiuria, recentemente depenalizzata per effetto del D.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7, la quale presuppone che l'offesa all'onore o al decoro sia fatta alla presenza della persona offesa. Al contrario, nella diffamazione si richiede che questa non sia presente al momento della condotta criminosa e che non si verifichino quei fatti che la legge equipara alla presenza, quali comunicazioni telefoniche, telegrafiche, scritti o disegni diretti alla persona offesa.

Il secondo requisito consiste nell'offesa alla reputazione di una persona. Al riguardo, secondo la dottrina prevalente, il termine "offesa" non deve essere interpretato come lesione, bensì come probabilità o possibilità che l'uso di parole o di atti destinati a ledere l'onore provochi una effettiva lesione. La diffamazione, infatti, viene qualificata come reato di pericolo, non richiedendosi un effettivo pregiudizio per la reputazione del soggetto passivo (2). In ogni caso, la giurisprudenza richiede l'idoneità offensiva della condotta a ledere il bene giuridico tutelato.

Infine, per quanto riguarda il requisito della comunicazione con più persone, occorre che l'agente renda partecipi dell'addebito diffamatorio almeno due persone (tra le quali non vanno ovviamente conteggiati il soggetto passivo, il soggetto attivo e gli eventuali concorrenti nel reato), le quali siano state in grado di percepire l'offesa e di comprenderne il significato. La diffamazione è un reato di evento "non fisico, ma psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte del terzo (rectius dei terzi) della espressione offensiva".
In particolare, secondo la giurisprudenza, è sufficiente la comunicazione ad una sola persona, purché questa, a sua volta, la comunichi ad altre, e ciò si sia verificato.
Inoltre, non occorre che la propagazione a più persone dei fatti lesivi dell'onore o del decoro di una persona avvenga simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purché risulti comunque rivolta a più soggetti. (3)

Trattasi di reato istantaneo che si consuma con la comunicazione con più persone lesiva della reputazione. Ne discende che, quando la comunicazione sia avvenuta in tempi diversi, il reato è consumato nel momento in cui si perfeziona la comunicazione con la seconda persona.

Sotto il profilo soggettivo, la diffamazione è un delitto a dolo generico. In particolare, il dolo "consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell'altrui reputazione ma anche nella volontà che la condotta denigratoria venga percepita da più persone". Occorre, pertanto, che l'autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona, ma con modalità che lascino intendere che egli si rappresenti e voglia l'evento che notizia o commento sicuramente vengano a conoscenza di altri. (4)

Infine, per quanto concerne le circostanze aggravanti, la diffamazione a mezzo stampa, ai sensi degli artt. 595, comma 3, c.p. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, é considerata la più importante aggravante del delitto di diffamazione, in considerazione della particolare diffusività del mezzo adoperato per diffamare e del potere di persuasione psicologica e di orientamento d’opinione che la stampa possiede che rende più̀ incisiva la diffamazione e determina, quindi, una maggiore offesa all'altrui reputazione.

2. Vicenda processuale e quaestio juris.

La pronuncia in esame origina dalla sentenza con cui il G.U.P. del Tribunale aveva prosciolto gli imputati dai delitti di cui agli artt. 595 c.p. e 13 della Legge 47/48, consistiti, per uno di questi, comandante della Polizia municipale, nel redigere e diffondere un comunicato stampa, in cui, tra l’altro, offendeva la reputazione di un avvocato indicato, sia pure indirettamente, come complice di falsità in atto pubblico compiuto da un suo cliente; per altri imputati, in qualità di redattori e direttori di giornali on line, per aver pubblicato il suddetto comunicato stampa e aver omesso il controllo necessario ad evitare che fosse pubblicato.

Avverso la sentenza del G.U.P., la difesa ricorreva per Cassazione, lamentando l’errata interpretazione dell’art. 595 c.p. In particolare, secondo il ricorrente, il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che l’indicazione delle sole iniziali del professionista e l’indicazione del paese ove questi aveva lo studio professionale non erano elementi tali da far risalire immediatamente alla sua identificazione da parte dei lettori.

3. Soluzione accolta dalla Suprema Corte. 

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha accolto tale motivo di impugnazione, osservando che "i fatti di cui al processo si sono svolti in un ambito territoriale ristretto così da poter avere interesse e rilievo per un pubblico di lettori circoscritto all'ambito giudiziario; tuttavia, allo stesso tempo, e per la stessa appartenenza al settore ove il ricorrente opera, il pubblico sarebbe stato sufficientemente informato ed in condizione di collegare utilmente le notizie ricavabili dal testo incriminato" 
In particolare, secondo i giudici di legittimità, "sia pure con riferimento al suindicato ristretto ambito sociale e lavorativo, l'individuazione dell'avvocato che sarebbe stato complice del suo assistito della falsità ideologica per cui quest'ultimo era stato condannato, nonostante l'assenza del nome e cognome per esteso, era non solo possibile, ma facile ad opera in particolare dei professionisti frequentanti gli ambienti giudiziari, del personale degli Uffici Giudiziari di quel territorio e degli stessi Magistrati che vi esercitavano le funzioni".

Ad avviso della Suprema Corte, quindi, l'indicazione delle sole iniziali del professionista, nonché del foro di appartenenza e del paese in cui aveva lo studio, sono elementi che rendono piuttosto agevole la sua individuazione, soprattutto quando il mezzo adoperato per la diffusione dell'articolo diffamatorio è la rete internet. Quest'ultima, infatti, è in grado di "allargare la platea dei potenziali lettori in grado di giungere all'identificazione del professionista implicato nel delitto d falsità ideologica con il proprio cliente, potenzialmente aumentandone il lamentato effetto lesivo della sua onorabilità".

In definitiva, con la pronuncia in commento, gli ermellini ribadiscono il principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui "il reato di diffamazione a mezzo stampa è configurabile anche in assenza di esplicite indicazioni nominative, quando i soggetti verso cui le espressioni ritenute diffamanti sono state rivolte, siano individuabili tramite riferimenti alle attività lavorative svolte". 

Infine, è opportuno soffermarsi sulla posizione della Corte di Cassazione con riferimento alla responsabilità del direttore del giornale telematico. In particolare, i giudici di Piazza Cavour ritengono infondato il ricorso nella parte in cui coinvolge gli imputati che rivestivano il ruolo di direttori responsabili dei giornali telematici, atteso che "il direttore di un periodico on-line non è responsabile per il reato di omesso controllo, ex art. 57 cod. pen., sia per l'impossibilità di ricomprendere detta attività on-line nel concetto di stampa periodica, sia per l'impossibilità per il direttore della testata on-line di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori 'postati' direttamente dall'utenza".

Trattasi di un orientamento piuttosto consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte affrontato il problema dell'applicabilità dell'art. 57 c.p. (5) al direttore del periodico online. 

In particolare, la Suprema Corte ritiene non applicabile il citato art. 57 c.p. al direttore del giornale online, in quanto la norma si riferisce esclusivamente alla carta stampata e non è suscettibile di interpretazione estensiva, con la conseguenza che il concetto di "stampato" non può includere anche il "prodotto di internet", in ossequio al principio di tassatività vigente in materia penale.

La non assimilabilità del “prodotto di internet” allo “stampato” si fonda principalmente sulla definizione di “stampe o stampati, contenuta all’art. 1 della L. 47/1948, che richiede quale elemento indefettibile, oltre alla destinazione alla pubblicazione, “che si tratti di “riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico–chimici”: caratteristiche che certo non presenta il “prodotto di internet”.

La non assimilabilità del “prodotto di internet” allo stampato, dunque, comporta l'inapplicabilità dell’art. 57 c.p. al direttore del periodico on line, in virtù del divieto di analogia in malam partem. (6)

 

Note e riferimenti bibliografici

1. Art. 595 c.p.: "Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
"
2. R. Garofoli, Compendio di diritto penale, Parte speciale, 2014 - 2015. (Clicca qui per acquistare il volume)
3. Cass. Pen., sez. V, 4 novembre 2010, n. 7408
4. Cass. Pen., sez. V, 4 luglio 2013, n. 47175, in Dir. Pen. e processo, 2014, 1, 21.
5. Art. 57 c.p.: "Salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo."
6. Cass. Pen., sez. V, 16 luglio 2010, n. 35511.