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Pubbl. Ven, 11 Nov 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Concorso esterno in associazione mafiosa. Un atto di fede?

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Stefania Tirella


La Corte di Cassazione annulla la sentenza del Gip di Catania con la quale era stata sostenuta l’ inesistenza del concorso esterno in associazione mafiosa, confermando il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sul tema.


Sommario: 1. Concorso esterno in associazione mafiosa: il dibattito – 2. La Corte Edu sul Caso Contrada. Una sentenza scomoda - 3. Le prime reazioni della giurisprudenza italiana alla sentenza della Corte Edu - 3a. La sentenza del Gip di Catania e la sentenza n. 32996/2016 della Corte di Cassazione  - 3b. La Corte d’Appello di Caltanissetta sull’istanza di revisione formulata da Contrada – 4. Sulla legittimità costituzionale del concorso esterno in associazione mafiosa.

1. Concorso esterno in associazione mafiosa: il dibattito.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32996/2016[1], ha annullato la pronuncia del Gip del Tribunale di  Catania[2], che tanto scalpore aveva suscitato sostenendo l’ inesistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

La sentenza in questione, in realtà, si inserisce in una più ampia querelle sulla natura (legale o giurisprudenziale) di tale reato e sulla necessità (vera o presunta) di introdurre una fattispecie ad hoc, anziché continuare a rinvenirne il fondamento nel combinato disposto degli artt. 110 c.p – 416-bis c.p.

Si tratta di un dibattito assai più antico e profondo di quanto si creda[3], sul quale periodicamente i riflettori si riaccendono, per lo più a seguito di arresti giurisprudenziali che si pongono in dissonanza rispetto all’opinione maggioritaria, secondo la quale il concorso esterno in associazione mafiosa esiste e nessun contrasto con il principio di legalità si pone o si è mai posto.

Un orientamento maggioritario, appunto, non unanime, ma che difficilmente accetta di confrontarsi serenamente con le voci “dissenzienti”, tanto da indurre autorevole dottrina[4] a parlare di una vera e propria “guerra di religione”, nella quale non sono ammessi margini di dubbio circa l’esistenza del dogma.

I rischi derivanti dalla crisi del dogma sarebbero d’altra parte molto alti.

In un Paese nel quale l’intreccio tra la mafia e i c.d “colletti bianchi rappresenta un vero e proprio cancro, che si espande tramite la corruzione e impedisce a legalità, meritocrazia, trasparenza ed efficienza di diventare le vere fondamenta della società, è forse comprensibile che vengano assunte posizioni piuttosto rigide. Attenta dottrina[5] ha persino ravvisato in talune pronunce la volontà di perseguire una certa “pedagogia giurisprudenziale”, ovvero la volontà di stigmatizzare talune condotte in modo esemplare, soprattutto laddove sono stati intentati processi per concorso esterno a carico di imputati già condannati per gli stessi fatti a titolo di favoreggiamento aggravato dal fine di agevolare la mafia, con buona pace del principio di ne bis in idem.

Il fenomeno del concorso esterno, d’altra parte, non è un fenomeno dai chiari contorni e lo dimostrano bene le ripetute sentenze delle Sezioni Unite penali, che ciclicamente sono intervenute a risolvere contrasti interpretativi e a disegnare in modo più marcato i confini di questo reato, la cui pericolosità sta proprio in questo: nel porsi a cavallo tra ciò che è legale e ciò che è illegale, in un sistema in cui persino lo spartiacque tra  vittime e collusi è talvolta difficile da individuare.

Proprio tale difficoltà di esatta tipizzazione della fattispecie potrebbe essere alla base di questo atteggiamento del legislatore, che, in circa trenta anni di applicazione del reato nelle aule dei Tribunali, si è guardato bene dall’intervenire normativamente.

Ed ecco che, in questo contesto travagliato, si inserisce la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul Caso Contrada, la cui portata dirompente esplode in tutta la propria forza nella sentenza del Gip di Catania.

2. La Corte EDU sul Caso Contrada. Una sentenza scomoda.

È necessario partire dalla sentenza[6] della Corte EDU sul Caso Contrada per comprendere fino in fondo le reazioni della giurisprudenza italiana.

Nel 2006 la Corte d’Appello di Palermo condanna, in sede di rinvio e con sentenza divenuta definitiva, Bruno Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa, per avere “sistematicamente contribuito alle attività e alla realizzazione degli scopi criminali dell'associazione mafiosa Cosa Nostra” fornendo ad alcuni associati “informazioni confidenziali concernenti le investigazioni e le operazioni di polizia in corso” contro alcuni di loro.

Un dato occorre subito mettere in evidenza: i fatti contestati risalgono ad un periodo compreso tra il 1979 e il 1988.

È un elemento cruciale, perché è proprio su questa circostanza che si costruisce il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, per asserita violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 C.E.D.U.

Art 7. CEDU, Nulla poena sine lege:

1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

Si afferma, infatti, che Bruno Contrada sarebbe stato condannato per un reato non esistente al momento della commissione dei fatti, ma creato dalla giurisprudenza successivamente. D’altra parte, la stessa sentenza del Tribunale di Palermo del 1996, che aveva condannato in primo grado l’imputato, ammetteva l’esistenza di almeno tre contrastanti orientamenti sulla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa.

La Corte EDU accoglie il ricorso, dichiarando la violazione all’articolo 7 della Convenzione, che  proibisce l’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato e impone di non applicare la legge penale in modo estensivo a svantaggio dell’imputato, ad esempio per analogia.

La legge deve individuare in maniera chiara  i reati e le pene, consentendo al cittadino di prevedere esattamente le conseguenze delle proprie azioni.

E' bene evidenziare che, quando la Corte EDU parla di “legge”, non si riferisce esclusivamente al testo normativo[7], ma a qualsiasi disposizione (anche di origine giurisprudenziale) che sia “enunciata con una precisione tale da permettere al cittadino di regolare la propria condotta”.[8]

In questa affermazione emerge tutta la natura poliedrica del principio di legalità, che presenta tra le varie sfaccettature quella della prevedibilità e della determinatezza.

La Corte, dopo aver dato per assodata la natura giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa, osserva come tale reato sia comparso per la prima volta nella sentenza Cillari del 1987, per poi divenire oggetto di applicazioni giurisprudenziali divergenti fino alla sentenza Demitry del 1994, con la quale le Sezioni Unite ne ammettono la configurabilità in modo incontrovertibile.

A giudizio della Corte EDU, dunque, il ricorrente non poteva legittimamente prevedere al momento della commissione del fatto le conseguenze penali del proprio comportamento, anche e soprattutto sul piano sanzionatorio.

3. Le prime reazioni della giurisprudenza italiana alla sentenza della Corte EDU

La sentenza ha da subito innescato un’importante dibattito sulla correttezza delle argomentazioni utilizzate dai giudici di Strasburgo e sulle conseguenze di una simile presa di posizione.

Attenta dottrina[9] ha osservato che, sebbene sia comprensibile che la Corte richieda che, affinché possa parlarsi di prevedibilità, vi sia un consolidamento del diritto vivente attraverso l’intervento delle Sezioni Unite Penali, non si è adeguatamente tenuto conto del fatto che nemmeno le ripetute pronunce delle Sezioni Unite sono state sufficienti a realizzare pienamente tale risultato, senza contare che nei Paesi come il nostro non vige la regola della vincolatività del precedente giurisprudenziale.

Condivisibili o meno che siano le considerazioni della Corte europea, la giurisprudenza si trova comunque a confrontarsi con questa pronuncia e la sentenza del Gip di Catania, di recente annullata dalla Corte di Cassazione, ne rappresenta una delle prime ricadute interne.

3a. La sentenza del Gip di Catania e la sentenza n. 32996/2016 della Corte di Cassazione  

La sentenza del Gip di Catania del 12 febbraio 2016 ( ampiamente esaminata da Cammino Diritto nell’articolo “Sentenza Contrada e concorso esterno in associazione mafiosa: un´occasione mancata o addirittura un pericolo?”) , proprio partendo dalle considerazioni svolte dalla Corte Europea,  giunge a negare l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Viene infatti sottolineato che, sebbene nel corso del tempo vi siano stati ben due progetti di legge volti a introdurre una fattispecie apposita,  ancora oggi la disciplina del reato de quo deve essere individuata nei principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di legittimità, con applicazioni talvolta “nebuolose” e imprecise e con la conseguenza che “se i giudici sono soggetti soltanto alla legge, secondo il disposto dell' articolo 101 della Costituzione, occorre una norma di legge affinché il giudice adotti un provvedimento giurisdizionale motivato”.

La sentenza è stata tuttavia annullata di recente dalla Corte di legittimità, affermando che “la sentenza resa nel caso Contrada c. Italia muove da una premessa del tutto errata, ossia che il reato del quale si discute abbia origine giurisprudenziale, laddove, al contrario, la punibilità del concorso eventuale di persone nel reato nasce, nel rispetto del principio di legalità, sancito dall’art. 1 c.p e dall’art. 25, secondo comma Cost., dalla combinazione tra le singole norme penali incriminatrici speciali e l’art. 110 c.p”.

La Corte rimarca che, in realtà, un fondamento normativo per il reato in questione esiste ed è proprio rappresentato dal combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p, i cui esiti applicativi hanno certamente dato luogo ad incertezze, le quali però non potevano indurre in errore l’agente sulla rilevanza penale di determinate condotte.

Il problema si collega quindi a quello della ragionevolezza dell’interpretazione della legge penale.

Se a fronte di un dato letterale della norma sono possibili più interpretazioni, talune sfavorevoli e altre favorevoli, l’imputato non può giovarsi dei dubbi interpretativi per andare esente da responsabilità penale.

Ebbene, secondo Il Collegio, sarebbe sufficiente la ragionevolezza dell’interpretazione sfavorevole, in quanto, diversamente opinando, “qualora la Cassazione volesse fornire, per la prima volta, una lettura diversa e più sfavorevole a quella dell’imputato rispetto all’esegesi recepita in precedenti pronunce, non potrebbe mai farlo, perché in ogni caso l’agente non avrebbe potuto essere informato di tale ricostruzione del significato normativo delle previsione incriminatrice, dal momento che sempre il giudice di legittimità interviene dopo che la condotta è stata tenuta. Ciò comporterebbe che, sia pure con riferimento a interpretazioni più sfavorevoli per l’imputato, il precedente giudiziario sarebbe vincolante anche in altri procedimenti”.

La Corte di legittimità ha pertanto disinnescato la “vis” potenzialmente distruttiva della giurisprudenza europea. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca anche la pronuncia della Corte d’Appello di Caltanissetta, davanti alla quale è stata presentata istanza di revisione da parte proprio di Bruno Contrada.

3b. La Corte d’Appello di Caltanissetta sull’istanza di revisione formulata da Contrada.

A seguito della sentenza della Corte Edu, Contrada ha formulato un’istanza di revisione della condanna definitiva.

La Corte Costituzionale ha infatti nel 2011 dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p.p “nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1 [CEDU] per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

A fronte di una pronuncia tanto chiara da parte dei giudici europei e di una condanna dell’Italia al pagamento di un risarcimento del danno morale in favore del ricorrente, si potrebbe immaginare che l’istanza di revisione sia stata senza ombra di dubbio accolta.

La Corte d’Appello, invece, ha seguito un diverso iter logico, ricavando da un passo della sentenza della Corte europea, un implicito mandato a riesaminare e valutare se il ricorrente fosse in grado di prevedere la propria futura condanna a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa.

La risposta, secondo i giudici, non può che essere positiva, considerato che “ad un soggetto quale Contrada, funzionario di polizia attivo nell’ufficio investigativo impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata, non potevano mancare elementi chiari e univoci per avere consapevolezza dell’esistenza del concorso esterno e della sanzionabilità in sede penale di condotte che offrivano un contributo alle organizzazioni mafiose, anche se rimanendo estranei alla configurabilità del sodalizio”.

L’istanza di revisione è stata pertanto rigettata.

La sentenza è stata tuttavia criticata da autorevole dottrina[10] che ha osservato come in realtà la Corte EDU avesse già effettuato il giudizio relativo alla prevedibilità, concludendo in senso negativo.

Con questa pronuncia, pertanto, alla violazione dell’art. 7 CEDU si sarebbe aggiunta quella dell’art. 46 CEDU,  a tenore del quale gli Stati firmatari della Convenzione si sono obbligati a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte Europea e dunque a rimuovere le conseguenze della violazione accertata.

Articolo 46 CEDU
Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze

1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.

2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione.

3. Se il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione. La decisione di adire la Corte è presa con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti che hanno il diritto di avere un seggio in seno al Comitato.  

4. Se il Comitato dei Ministri ritiene che un’Alta Parte contraente rifiuti di conformarsi a una sentenza definitiva in una controversia cui essa è parte, può, dopo aver messo in mora tale Parte e con una decisione adottata con voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti che hanno il diritto di avere un seggio in seno al Comitato, adire la Corte sulla questione dell’adempimento degli obblighi assunti dalla Parte ai sensi del paragrafo 1.

5. Se la Corte constata una violazione del paragrafo 1, rinvia il caso al Comitato dei Ministri affinché questo esamini le misure da adottare. Se la Corte constata che non vi è violazione del paragrafo 1, rinvia il caso al Comitato dei Ministri che ne chiude l’esame.

Se pertanto la violazione della CEDU è stata posta in essere tramite una sentenza, è proprio quest’ultima ad essere illegittima e a dover essere rimossa.

4. Sulla legittimità costituzionale del concorso esterno in associazione mafiosa.

La Corte di Cassazione ha d’altra parte ribadito più volte la propria posizione in merito alla perfetta compatibilità del reato di concorso esterno  in associazione mafiosa e la Costituzione.

Con la sentenza n. 34147/2015[11] la Cassazione aveva infatti affermato il seguente principio di diritto: “E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis c.p. (nella parte in cui, secondo l'interpretazione giurisprudenziale in atto dominante, incriminano il c.d. "concorso esterno" in associazioni di tipo mafioso), sollevata per asserito contrasto con l'art., 25, comma 2, della Costituzione e con gli artt. 117 della Costituzione e 7 della Convenzione EDU, per violazione del principio di legalità. Il c.d. "concorso esterno" in associazioni di tipo mafioso non è un istituto di (non consentita, perché in violazione del principio di legalità) creazione giurisprudenziale, ma è incriminato ìn forza della generale (perché astrattamente n'feribile a tutte le norme penali incriminatrici) funzione incriminatrice dell'art. 110 c.p., che estende l'ambito delle fattispecie penalmente rilevanti, ricomprendendovi quelle nelle quali un soggetto non abbia posto in essere la condotta tipica, ma abbia fornito un contributo atipico, causalmente rilevante e consapevole, alla condotta tipica posta in essere da uno o più concorrenti, secondo una tecnica normativa ricorrente”.

Il medesimo principio è stato inoltre confermato da un più recente arresto della Cassazione[12], con l’ulteriore precisazione che “non e’ neppure ipotizzabile la violazione del principio di determinatezza e di ragionevolezza della pena, in quanto, per il concorrente esterno, sotto il primo profilo, la pena e’ quella prevista dall’articolo 416 bis c.p., e, sotto il secondo profilo, il giudice, applicando norme generali (attenuanti nonché articoli 132-133 c.p.), può comminare una pena adeguata al concreto disvalore della condotta tenuta dall’agente”.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Cass. Pen. sent. 12/10/2016 n. 32996
[2] Tribunale di Catania, Giudice delle Indagini Preliminari, sent. 21/12/2015 n. 1077.
[3] Già nel 1996, Fiandaca, quale relatore di un convegno sugli strumenti giuridici di contrasto alla mafia, prospettò la necessità di predisporre un intervento legislativo ad hoc, provocando un dibattito molto acceso, riportato dallo stesso Autore nello scritto “Il concorso esterno agli onori della cronaca”, in Foro it. 1997, V. 1 ss.
[4] G. FIANDACA, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in Diritto Penale Contemporaneo 1/2012.
[5] C. VISCONTI, Sulla requisitoria del P:G nel processo Dell’Utri: un vero e proprio atto di fede nel concorso esterno, in Diritto Penale Contemporaneo 1/2012.
[6] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Strasburgo, sent. 14/04/2015, ricorso n. 66655/13, CAUSA Contrada c. Italia.
[7] Bisogna infatti ricordare che la CEDU si applica non solo ai Paesi di Civil Law, ma anche a quelli di Common Law.
[8] C. EDU, Sunday Times c. Regno Unito, §49.
[9] A. MANNA, La sentenza Contrada ed i suoi effetti sull’ordinamento italiano: doppio vulnus alla legalità penale?, Diritto Penale contemporaneo, 2016.
[10] F. VIGANO’, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della Corte EDU, in Diritto Penale Contemporaneo, 2015.
[11] Cass. Pen. Sez. II, sent. 30/04/2015 n. 34147/2015
[12] Cass. Pen. Sez. II, sent. 13/04/2016 n. 181.