Pubbl. Ven, 30 Gen 2015
Limiti contrattuali alla concorrenza e libertà costituzionali
Modifica paginaLa Suprema Corte, con la sentenza 24159/2014, chiarisce i limiti del patto di non concorrenza alla luce dei principi costituzionali.
La Suprema Corte di Cassazione ha recentemente statuito (sentenza n. 24159 del 12 novembre 2014) - ribadendo le considerazioni già svolte dalla Corte territoriale d'appello - la nullità dei limiti contrattuali alla concorrenza di cui all'art. 2596 c.c., per contrasto con la libertà costituzionale di iniziativa economica privata (v. art. 41 Cost.).
Il background della pronuncia, in breve, concerne un patto di non concorrenza stipulato tra cedente e cessionario d'azienda: il primo si impegnava, per un periodo di tre anni, a non intraprendere alcuna attività che rientrasse - ovviamente al momento della cessione - nell'oggetto sociale della azienda. Quest'oggetto, si badi, era sì determinato ma non circoscritto ad una singola attività, bensì ad un insieme (seppure oggettivamente collegato).
L'amministratore unico della s.r.l. di riferimento ritenendo che il cedente, con il proprio comportamento, avesse violato i vincoli contrattuali assunti - avendo avuto contatti con alcuni dei suoi ex clienti e fornitori - adiva l'autorità giudiziaria per la soluzione della controversia.
I giudici di legittimità hanno ritenuto conforme a diritto la nullità del patto dichiarata dalla Corte d'appello. Fondamentalmente, le previsioni contrattuali al vaglio di quest'ultima erano tali da impedire qualsiasi sfruttamento delle competenze (know-how, come oggi si suol dire) dell'imprenditore cedente in un intero settore economico. Dunque la soluzione adottata sembra, almeno prima facie, condivisibile: il contratto in questione è nullo.
Solo due punti sembrano controvertibili.
In primo luogo, la nullità poteva essere dichiarata ai sensi dell'art. 2596 c.c. ( [Il patto] è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività [...] ), e quindi ricorrendo all'art. 41 Cost., eventualmente, solo come argomento a fortiori. Così facendo si sarebbe evitato quel fenomeno, stigmatizzato da parte della dottrina, di c.d. sovra-interpretazione delle norme costituzionali.
In secondo luogo, per quanto riguarda il pagamento delle spese di giudizio - cui è stata condannata la ricorrente - si sarebbe potuto, forse, compensarle. Bisognerebbe, infatti, tenere nella giusta considerazione il fatto che la controparte abbia tratto vantaggio dal patto de qua (mai adempiuto) ai fini delle condizioni complessive del contratto di cessione d'azienda.