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Pubbl. Lun, 19 Set 2016

La c.d. clausola rescissoria in ambito calcistico

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Marco Perasole


L´esempio lampante di come un´invenzione giornalistica possa portare fuori strada profani e tifosi. A tal proposito, una breve riflessione appare necessaria al fine di chiarire i termini di un istituto che, sempre più spesso, viene utilizzato nell´ambito della contrattazione sportiva.


Le cronache sportive degli ultimi anni testimoniano, in occasione di tesseramenti o trasferimenti di calciatori di grande fama, l’inserimento nei contratti di una particolare tipologia di clausola: la c.d.  clausola rescissoria. Ogni estate è un argomento ricorrente e il mondo del calcio è spesso al contempo - consapevolmente o meno - “vittima e carnefice” di questa invenzione giuridica e/o giornalistica, regina della contrattazione moderna: oggigiorno, i più grandi campioni del calcio (ma non solo...) ne hanno una, apposta all’interno contratto stipulato con le società di appartenenza: Neymar (230 milioni di euro circa), Messi (250 milioni di euro circa), C. Ronaldo (1 miliardo di euro circa), Bale (1 miliardo di euro circa) e in ultimo Higuain (94 milioni di euro circa, con riferimento alla sua ex squadra Ssc Napoli).

Ma cos’è davvero la c.d. “clausola rescissoria”?

Nello specifico, per clausola – definita impropriamente – “rescissoria”, si intende quell’istituto giuridico che permette lo scioglimento di contratto, in corso di esecuzione, attraverso il pagamento di una somma di danaro.

La c.d. “clausola rescissoria” trae il proprio fondamento giuridico nell’ordinamento spagnolo, in particolare nell’art. 16 del Real Decreto 1006/1985, all’interno del quale si prevede la facoltà per lo sportivo professionista di recedere unilateralmente dal contratto di lavoro in corso, in qualsiasi momento, dietro pagamento di un indennizzo che, in assenza di determinazione consensuale tra le parti, sarà fissato dal giudice del lavoro in ragione di una pluralità di criteri.

La previsione di questo diritto, per la dottrina spagnola, è ovviamente un presupposto doveroso, giacché l’impossibilità di recedere unilateralmente dal contratto di lavoro costituirebbe un grave pregiudizio alla libertà ed autonomia contrattuale del lavoratore. La ratio seguita nelle previsioni del legislatore spagnolo del 1985 consisteva, quindi, nella volontà di conciliare la libertà contrattuale del professionista sportivo e gli interessi economici della società che si vedeva privata dell’atleta, riconoscendo al calciatore il diritto alla risoluzione anticipata del contratto e al club il diritto ad ottenere un indennizzo per il pregiudizio subito.

Presto, tuttavia, tale disciplina cominciò ad evidenziare effetti distorsivi, poiché, in seguito al clamore suscitato da trasferimenti di celebri calciatori, come quello del campione brasiliano Luis Nazario Da Lima Ronaldo (trasferito nel 1997 dalla società FC Barcellona all’Inter FC), sono state poste clausole di recesso di consistenza molto elevate, spesso manifestamente sproporzionate: si tendeva, quindi, più che a prevedere un indennizzo per il club cedente, a dissuadere le società interessate ad assicurarsi le prestazioni sportive del calciatore o a ottenere somme elevatissime nel caso di trasferimento, configurando, secondo parte della dottrina spagnola, un abuso di diritto da parte delle società.

In altre ipotesi, al contrario, l’indennizzo determinato non rifletteva concretamente il reale valore delle prestazioni sportive del calciatore, giacché, venendo la somma stabilita ab origine del rapporto contrattuale e ex ante al trasferimento per il tramite della clausola, non risultava prevedibile, di frequente, il successivo processo di maturazione dell’atleta, il conseguente miglioramento delle prestazioni e l’aumento del loro valore di mercato. In questi casi, quindi, spesso riferiti a calciatori appena promossi in prima squadra e provenienti dai settori giovanili, la somma pattuita come indennizzo si è rivelata troppo esigua per il valore del giocatore, permettendo la rottura unilaterale del rapporto contrattuale in un modo tale da recare un pregiudizio alle società che avessero formato l’atleta.

Poco fa ho utilizzato il termine “impropriamente” non a caso. Infatti, nell’ordinamento italiano, nel rispetto delle definizioni civilistiche date dal legislatore, si dovrebbe parlare di clausola risolutiva piuttosto che di clausola rescissoria, meglio ancora clausola penale, ai sensi degli articoli 1382-1384 del nostro Codice Civile.

Appare improprio definirla “clausola rescissoria” in quanto, la rescissione presuppone un’anomalia (stato di pericolo o lesione) al momento della conclusione del contratto, mentre si parla di risoluzione quando i vizi (inadempimento di una delle parti, impossibilità sopravvenuta della prestazione e l’eccessiva onerosità) si verifichino dopo la conclusione del contratto.

Va quindi escluso, sin da subito, l’accezione e il riferimento all’istituto della rescissione strictu sensu.

Secondo la dottrina italiana è possibile definirla invece clausola risolutiva espressa unilaterale, cui acceda una clausola penale, o di recesso convenzionale, cui acceda una multa penitenziale.

Nella prima ipotesi, in particolare, le parti convengono che il loro rapporto si risolva qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta nelle modalità pattuite (art. 1456 c.c.). In tale ipotesi la risoluzione avviene di diritto, se la parte non inadempiente dichiara all’altra di volersi avvalere della clausola. La risoluzione non è, dunque, in tal caso automatica, non consegue cioè de iure al mancato adempimento dell’obbligazione secondo le modalità pattuite, perché, come detto, è necessario che la parte interessata dichiari all’altra che intende avvalersi della clausola risolutiva (art.1456, comma 2). Rispetto al momento in cui la clausola è stata pattuita, potrebbe, infatti, essere sopravvenuto un interesse del creditore all’adempimento tardivo, interesse che verrebbe frustrato se la risoluzione fosse automatica. La facoltà accordata dalla legge al creditore di dichiarare la sua intenzione, com’è ovvio, ha la funzione di far salva la fondamentale scelta tra adempimento e risoluzione, prevista dall’art. 1453 c.c.
Considerata, quindi, l’infungibilità della prestazione del lavoratore sportivo, è ovvio dedurre come alla società debitrice, di fronte al rifiuto dell’atleta di prestare i propri servizi, non rimanga altra soluzione che dichiarare la volontà di avvalersi della clausola, incamerando la penale pattuita. È chiara, a tal proposito, la funzione risarcitoria di quest’ultima.

Nella seconda ipotesi, invece, i contraenti convengono che uno di essi, nella fattispecie il calciatore, abbia facoltà di liberarsi unilateralmente dal vincolo contrattuale in deroga al principio generale della vincolatività del contratto, dietro pagamento di un corrispettivo. L’art. 1373 c.c. prevede, infatti, la possibilità che il contratto sia sciolto ad iniziativa di una delle parti e, dunque, unilateralmente. Attesa la vincolatività dell’accordo, il recesso è quindi possibile solo se il relativo potere sia stato attribuito in sede di contratto e può essere esercitato solo finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. I contraenti possono, altresì, fissare la prestazione di un corrispettivo per il recesso, che, secondo le regole generali, può essere versato anticipatamente (caparra penitenziale) o più comunemente al momento del recesso stesso (multa penitenziale).

Lo spartiacque tra le due ipotesi risiede nel quantum della prestazione di indennizzo: se, infatti, in entrambi i casi il soggetto inadempiente può essere obbligato ad una prestazione sostitutiva di entità convenzionalmente prefissata, la clausola penale può essere diminuita dal giudice se manifestamente eccessiva o se l’obbligazione principale è stata parzialmente eseguita, mentre la multa penitenziale non può subire modifiche, in quanto vale a remunerare la soggezione alla scelta altrui.

La clausola, che ancora una volta vale la pena ricordare è impropriamente detta “rescissoria”, nell’ambito dell’ordinamento calcistico trova il suo fondamento normativo nel principio di diritto romano “pacta sunt servanda”, sancito dal titolo IV del Regolamento FIFA adottato dal Comitato Esecutivo della FIFA il 18 Dicembre 2004 ed entrato in vigore il 1 luglio 2005.

L’art. 13 di detto Regolamento sancisce il principio cardine per cui “un contratto fra un professionista ed una società può aver fine solo alla sua scadenza o per mutuo consenso” e, all’art. 14, che “Entrambi le parti possono risolvere un contratto senza incorrere in conseguenze di sorta (sia pagamento di un’indennità o imposizione di sanzioni sportive) nel caso di giusta causa” (es. mancato pagamento dello stipendio o l’aver disputato meno del 10% delle gare ufficiali durante una stagione ex art. 15).

In caso di risoluzione del contratto senza giusta causa, l’art. 17 prevede per la parte inadempiente il pagamento di una “indennità” da quantificarsi secondo alcuni criteri oggettivi definiti in sede di ricorso, oltre alle previste sanzioni sportive nel caso in cui la risoluzione senza giusta causa avvenga durante il cosiddetto “periodo protetto” (tre anni se è stato concluso prima del 28° anno di età, due anni se concluso dopo il 28° anno).

In sostanza, l’art. 13 del Regolamento evidenzia, dunque, l’ubi consistam del principio di stabilità contrattuale, prevedendo che il contratto fra un professionista ed una società sportiva possa terminare solo alla sua scadenza naturale o per mutuo accordo tra le parti ma, al contempo, gli artt. 14-15, nell’ottica di un contemperamento delle contrapposte esigenze, prevedono una doppia deroga allo stesso.

Il fondamento normativo della c.d. clausola “rescissoria” è da ricercarsi nel comma 2 dell’art. 17 del Regolamento che menziona in modo esplicito la validità di detta tipologia di clausola in quanto afferma che “L’ammontare dell’indennità può essere prevista nel contratto o può essere stabilita fra le parti”. Dall’analisi letterale del testo e interpretando lo stesso alla luce della contrattazione moderna sembrerebbe che, la Fifa, cerchi quasi di incentivare l’uso di tali clausole in caso di risoluzione del contratto in assenza di giusta causa, il cui importo stabilito a tavolino tra le parti vincolerebbe le parti stesse ed eviterebbe così giudizi finalizzati a definirne l’importo secondo i criteri su menzionati.

Nello specifico, tale indennizzo è dovuto dal calciatore (che è parte contrattuale) che intende risolvere anticipatamente il suo contratto in assenza di giusta causa e, pertanto, presuppone, o una contrattazione con conseguenziale accordo ex ante sulla quantificazione di tale somma tra l’entourage dello stesso calciatore e la società calcistica di riferimento (altra parte contrattuale), o uno “scontro” ex post in sede giudiziale tra le medesime parti contrattuali, diventate intanto parti processuali.

Nella pratica però, tale somma – sempre più pattuita ex ante in sede di contrattazione contrattuale - viene pagata dalla società che ne vuole acquistare i nuovi diritti, anche negoziando le modalità di pagamento e/o finanche l’importo (nonostante la pattuizione calciatore-società ex ante, viene spesso utilizzata anche come riferimento quantistico del valore del giocatore), facendo così perdere le finalità e la ratio stessa della clausola.