Pubbl. Mer, 22 Giu 2016
Il gap di legittimazione del Parlamento in regime di «Porcellum»
Modifica paginaUn atto legislativo, contrario alla Costituzione, non è legge; se ciò non è vero allora le Costituzioni scritte sono tentativi assurdi, da parte del Popolo, di porre dei limiti a un potere per sua stessa natura non limitabile (John Marshall, Chief Justice).
Approvata da entrambi i rami del Parlamento – anche in seconda votazione alla maggioranza assoluta – la riforma Renzi-Boschi1 sembra essere inarrestabile, pur destando grande agitazione tra i costituzionalisti. Il testo di legge costituzionale, in effetti, modifica profondamente la seconda parte della Carta Repubblicana e, in combinato disposto con la nuova legge elettorale (c.d. italicum), potrebbe – secondo alcuni autorevoli commentatori – alterare il sistema democratico così come consacrato dallo stesso articolo 1 della nostra legge fondamentale.
I dubbi sulla riforma non sono pochi e la critica di taluni accademici arriva fino a dubitare della legittimazione stessa del Parlamento a poter azionare l'art. 138 della Costituzione (c.d. procedura di revisione costituzionale). In effetti i giudici delle leggi con sentenza n. 1 del 2014 hanno dichiarato parzialmente incostituzionale la L. n. 270 del 2005 (cd. legge Calderoli o Porcellum): la normativa elettorale da cui trae legittimazione legale il Parlamento che tutt'oggi legifera.
A tal proposito sembra doveroso chiedersi se e in che misura il Parlamento eletto con legge parzialmente incostituzionale possa ritenersi legittimato ad agire in nome del Popolo. Ebbene, in un detto contesto emergono due principi fondamentali del diritto: il principio di continuità degli organi costituzionalmente necessari ed il principio di supremazia della Costituzione. Se è infatti vero che un organo indefettibile dello Stato quale il Parlamento non può cessare di esistere, è altrettanto vero che “a legislative act contrary to the Constitution is not law”2.
La Consulta nella citata sentenza del 2014 ha eccezionalmente delimitato gli effetti della sua pronuncia di incostituzionalità. Non si può tuttavia pacificamente ritenere che detta delimitazione possa nascondere il vizio della legge Calderoli, provvedendo ad una piena legittimazione del Parlamento eletto facendo uso di criteri e proporzioni che si sono rivelati contrari alla norma suprema.
Con l'avvento delle Costituzioni contemporanee, il diritto positivo ha subito una notevole trasformazione logica e scientifica. Anzitutto il costituzionalismo si è fin da sempre posto l'obiettivo di limitare il potere del Parlamento, prima organo sovrano e insindacabile. Al giorno d'oggi infatti è pacifico ritenere che il Parlamento possa approvare atti legislativi entro i limiti e le forme dalla Costituzione. Ciò significa che ogni atto contrario alla Costituzione è un non atto, dato che il Parlamento gode di una legittimazione limitata, determinata dalla Costituzione stessa.
Così qualora la Consulta dovesse riscontrare un contrasto tra la legge ordinaria del Parlamento e la norma di rango costituzionale, la prima dovrà essere immediatamente espunta dall'ordinamento giuridico e gli effetti della pronuncia travolgere la radice stessa della legge dato che la norma è incostituzionale fin dal momento in cui è promulgata3. Il principio supremo di certezza del diritto, ad ogni modo, limita gli effetti ex tunc delle pronunce di costituzionalità ad evitare che queste ultime possano riaprire processi già conclusi alla data della sentenza.
È tuttavia da escludere, data la contrarietà al principio di supremazia della Costituzione, che una norma di legge dichiarata incostituzionale possa continuare a produrre effetti nell'ordinamento giuridico. I giudici delle leggi, nella sentenza n. 1 del 2014, argomentano muovendo dall'indiscutibile deduzione secondo cui “le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso”. A tal riguardo la Consulta è così giunta alla conclusione che il Parlamento – sebbene abbia tratto legittimazione da una norma di legge parzialmente contraria alla Costituzione, essendo il fatto dell'elezione dei deputati e dei senatori di per sé concluso – non può essere travolto dalla pronuncia di incostituzionalità.
Se può però definirsi concluso il fatto dell'elezione, non può altrettanto dirsi degli effetti dell'elezione stessa. In tal senso sembra desumersi che sebbene i parlamentari non possano essere rimossi per il fatto dell'incostituzionalità, questi non potranno deliberare, salvo però il principio di continuità dello Stato. In detto contesto il Parlamento è e non può cessare di esistere, ma gli atti dallo stesso adottati non potranno essere ulteriori rispetto a quelli necessari ad assicurare la continuità fisiologica dello Stato.
In un passaggio marginale della sentenza, ma dal contenuto assai più rilevante, la Corte Costituzionale paragona – sembrerebbe a mero titolo esemplificativo – il regime delle Camere elette con la detta legge dichiarata parzialmente illegittima al periodo di prorogatio dei poteri del «vecchio» Parlamento prima che questo possa essere sostituito da quello «nuovo».
In effetti, quanto alla legittimazione dei rami legislativi, la situazione del Parlamento attuale non è poi tanto differente da quello in regime di prorogatio ex art. 61 della Costituzione. In entrambi i contesti ci troviamo di fronte ad un Parlamento che non gode ovvero non gode più della legittimazione necessaria per poter agire nel pieno esercizio dei suoi propri poteri. Il Parlamento in prorogatio non trova quindi più la necessaria legittimazione per poter agire «senza limiti» (oltre la Costituzione), ciò perché il Popolo, con le nuove elezioni, ha voluto sostituire i suoi rappresentati. Il Parlamento in regime di Porcellum, invece, non possiede la necessaria legittimazione di cui prima poiché è stato eletto, sì dal Popolo, ma per mezzo di una procedura costituzionalmente illegittima, che non ha consentito agli elettori di poter scegliere effettivamente da chi farsi rappresentare.
Il gap di legittimazione, in entrambe le forme di continuazione necessaria delle funzioni indefettibili degli organi necessari dello Stato, non consente dunque una piena forza d'azione. È da ciò per lo più pacifico in dottrina ritenere che “i poteri delle Camere in prorogatio non possano eccedere la c.d. ordinaria amministrazione”4, da intendere latu sensu con l'adozione di “quegli atti che, pur ad alto tasso di politicità, sono costituzionalmente indifferibili”5. La Corte Costituzionale sembrerebbe poi avallare indirettamente detto indirizzo, con riferimento alle pronunce relative al regime di prorogatio dei Consigli Regionali. A tal riguardo la Corte ha avuto modo di affermare più volte che i Consigli Regionali, in detto periodo, “dispongono di poteri attenuati, confacenti alla loro situazione di organi in scadenza”6; pertanto, in mancanza di esplicite indicazioni contenute negli statuti, devono limitarsi al “solo esercizio delle attribuzioni relative ad atti necessari e urgenti, dovuti o costituzionalmente indifferibili”7.
A fronte di quanto detto fin ora sorge spontanea una domanda: è ragionevole, oltre che costituzionalmente legittimo, procedere, per mezzo di un Parlamento (di fatto) in regime di prorogatio, all'approvazione di una revisione, meglio, di una riforma della Costituzione che comporti una modifica sostanziale dell'assetto istituzionale repubblicano?
Note e riferimenti
1 Pubblicazione in G.U., Serie Generale n. 88 del 15/04/2016.
2 Caso Marbury v. Madison, Corte Suprema degli Stati Uniti d'America (1803).
3 Salvi i casi di sopravvenuta incostituzionalità, individuati dalla Corte Cost., in via d'eccezione, di volta in volta.
4 P. Carretti, U. De Siervo, Istituzioni di Diritto Pubblico (2010), G. Giappichelli, Torino, p. 166. In tal senso conforme anche R. Bin., G. Pitruzzella, Diritto Costituzionale (2014), G. Giappichelli, Torino, p. 236.
5 Ibidem.
6 Corte Cost., 19/12/1991, n. 468.
7 Corte Cost., 15/07/2015, n. 158.