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Pubbl. Ven, 10 Giu 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Nascere in Euro. Parte 1 di 4: La democrazia è la forma politica del capitalismo

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Saverio Setti
Dirigente della P.A.Ministero della Difesa


Analisi storica, economica e politologica dello sviluppo dell´Unione monetaria e dell’opposizione politica ad essa in due casi di studio: la Lega Nord ed il Movimento 5 Stelle.


Questo contributo fa parte di una serie di articoli di approfondimento sull'Euro: 

Parte 1 - “La democrazia è la forma politica del capitalismo”
Parte 2 - "È destino che la società libera sia più produttiva"
Parte 3 - "Bond, Eurobond"
Parte 4 - "Paradigma dell'economista? Non spacciarsi da profeta"

***

Sommario: 1. Premessa metodologica; 2. Gli antefatti; 3. Il Piano Werner; 4. Alla caccia del “Serpente”; 5. Nascita del Sistema monetario europeo.

1. Premessa metodologica

Un saggio[1] storico, economico e scientifico deve riportare i dati in modo asettico e distaccato. Falso. Compito di scrive un apporto scientifico è quello di riportare con assoluta correttezza tutti i dati ricavati dall’esperienza, ma non può limitarsi a ciò. Egli, anzi, deve proseguire nel “mettere a sistema” questi dati, al fine di trarne conclusioni che estraggano dai dati quell’apporto conoscitivo che in essi è solo potenziale. Ciò che è proscritto è, naturalmente, il piegare questi dati in funzione del risultato che si vuole raggiugere, non certamente leggere i dati con una prospettiva analitica e formare delle conclusioni che, ben venga, possono essere criticate. Questo è il sistema di progresso scientifico.

Perché una storia dell’euro? Perché più ora che prima si parla di Brexit, si utilizza l’euro come spauracchio addebitandogli le crisi nascenti da un sistema in cui sopravvivono decisori sempre più sbiaditi, sempre più stanchi, sempre più attaccati a concezioni storico-economiche passate.

Giuristi, economisti, studiosi di relazioni internazionali e storici hanno speso vite a studiare quel novum che è l’Unione Europea: che, non fosse per altro, ha avuto il merito di portare un periodo di pace nel vecchio continente come non se ne vedevano dalla pax romana.

Certo, deficit democratico, troppo avanti sul piano economico e indietro sul piano politico, non ci sentiamo cittadini europei, non è questa l’Europa che vogliamo eccetera. E tuttavia conosciamo davvero ciò che così aspramente critichiamo? Iniziamo con la storia di questa moneta unica, che macroscopicamente ci ha dato stabilità nella più grande crisi degli ultimi duecento anni, che microscopicamente ci consente di andare in vacanza a Ibiza senza fare ore di coda o perdere denaro nel cambio.

Bene, ma perché la Lega Nord ed il MoVimento 5 Stelle? Perché dopo aver tracciato la storia dell’euro sarebbe troppo facile esprimersi in entusiastiche valutazioni sugli eurobond, sulla necessità che in una famiglia si metta in comune il debito eccetera. Ebbene si chiuderà in maniera provocatoria, delineando l’atteggiamento anti-euro di cui si fanno portatori i due maggiori partiti antisistema nel nostro panorama economico-politico. 

Infine, per mantenere un certo distacco dall’agone politico, si è scelto di cristallizzare la situazione a settembre 2012, appena prima della ribalta di Matteo Salvini.

2. Gli antefatti

La profonde basi economiche, e non ideali, dell’unione monetaria europea affondano in quella che è stata felicemente definita come l’epoca d’oro della crescita dell’Europa. Gli anni tra il 1957 ed il 1973 furono felicemente vissuti come la fase più luminosa del capitalismo a livello mondiale: lo standard di vita europeo stava correndo verso la parità con quello americano. 

Fatto 100 il reddito pro capite degli Stati Uniti, quello europeo (misurato in parità di poteri di acquisto) aumentò da un valore di 40 nel 1950 a circa 70 nel 1973. Tutto ciò accompagnato da tassi di inflazione e disoccupazione stabilmente ancorati a bassi livelli (rispettivamente, in media, il 2 e il 4%).[2]

Le teorie macroeconomiche sulle economie aperte che prevalevano in quegli anni ponevano forte accento sull’insularità degli attori statali quali agenti economici. Questo perché lo Stato egemone, gli USA, garantiva stabilità di cambio[3]. Il principio di libera circolazione dei capitali, inoltre, assegnava alla politica monetaria il compito di stabilizzazione esterna, poiché le politiche monetarie nazionali non erano vincolate a considerazioni inerenti la bilancia dei pagamenti. Esisteva, dunque una relazione reale e di natura finanziaria tra gli Stati.

Questo clima favorì non solo la rapida crescita degli scambi commerciali all’interno della CEE, ma anche e soprattutto la graduale riduzione delle tariffe interne, che furono azzerate nel 1968, con ben diciotto mesi di anticipo rispetto alle scadenze previste[4].

L’abbassamento della tariffazione doganale comportò, in linea di massima, l’aumento dell’importanza del commercio comunitario nel contesto della bilancia commerciale del singolo Stato.

Questo circolo virtuoso innescò un rapido processo espansivo che non incontrava resistenze da parte dell’offerta, posti l’abbondanza di materie prime e di forza lavoro, e di conseguenza poteva essere efficacemente assorbita dalla domanda. Né deve stupire che la distanza tecnologica tra gli USA e la CEE si sia rivelata un vantaggio per quest’ultima. In primis perché la domanda degli europei era, ovviamente, più elastica, poi perché i costi di introduzione di una data tecnologia sono empiricamente più bassi rispetto alla sua ricerca ex novo o al suo rimpiazzo, infine perché le innovazioni, di processo e di prodotto, si possono diffondere con rapidità. Nell’area comunitaria, dunque, i Paesi con la maggior crescita sono risultati essere quelli con il reddito pro capite più basso[5].

Questa evoluzione ha dato grande impulso alla crescita delle singole industrie private, fino a creare una progressiva europeizzazione delle strutture produttive interne. Certo, rare furono le fusioni tra grandi aziende private, ma lo sviluppo dell’interscambio ha senz’altro portato ad una spontanea convergenza degli apparati produttivi e di domanda delle economie comunitarie.

All’inizio degli anni Settanta la quota mondiale degli scambi apparteneva per il 29.1% alla Comunità, per il 18.8% agli Stati Uniti e per il 6.1% al Giappone[6].

Come già accennato questa struttura si basava sulle esternalità positive del sistema di Bretton Woods, ma anche sul fatto che gli USA fossero capaci di reggere il sistema anche sul piano dell’economia reale e non solo su quello finanziario. Posto che qualunque mercato è un sistema in ottimo paretiano[7], il deficit americano si tramutava in altrettanto attivo sui conti degli altri Paesi, in particolare europei, che potevano così allentare il vincolo esterno allo sviluppo e assegnare alle esportazioni il ruolo trainante della crescita. Quest’ultimo stato di cose era reso possibile dal fatto che, in quegli anni, gli Stati Uniti avevano visto eroso il loro margine di competitività, anche a causa della congiunturale e relativa rivalutazione reale del dollaro, che aveva spinto le imprese a stelle e strisce ad esternalizzare e a farlo nella zona del mondo più “simile” agli Stati Uniti: l’Europa. L’estremizzazione di questo processo condusse il Paese leader a subordinare l’espansione interna a quella esterna e a farlo in assenza di meccanismi di regolazione del sistema internazionale che rendessero reciprocamente compatibili queste politiche. Il sistema economico mondiale stava iniziando a cedere.

Il deficit federale statunitense giunse a toccare i 6 miliardi di dollari del 1971[8], il tutto mentre l’amministrazione Nixon spendeva enormi risorse nel carnaio del Vietnam. Con il passare del tempo il disavanzo del conto capitale portò sistematicamente in passivo la bilancia dei pagamenti americana. Di conseguenza, al di fuori degli USA, si accumulò un ammontare di dollari di diverse volte il controvalore di tutto l’oro posseduto dalla Federal Reserve. Si ebbe così la dimostrazione che la convertibilità del dollaro in oro reggeva soltanto perché le banche centrali non esercitavano tale diritto. Il 15 agosto 1971 Nixon sospese ufficialmente la convertibilità tra oro e dollaro, ponendo a garanzia di quest’ultimo la possibilità di comprare prodotti statunitensi. Contestualmente l’intera economia mondiale fu scossa dai ripetuti shock petroliferi, che colpirono pesantemente non solo le importazioni, ma anche tutte le attività microeconomiche.

In estrema sintesi, il contesto economico mondiale che vide la nascita dell’euro è la fotografia di una condizione profondamente mutevole sul piano monetario e reale, la cui causa manifesta è il passaggio da una struttura delle relazioni economiche internazionali caratterizzata da un assetto di tipo egemonico, ad uno di tipo oligopolistico. L’emergere di più centri di potere economico in grado di influire sull’andamento internazionale e l’assenza di meccanismi di convergenza, che inevitabilmente hanno portato ad istanze neomercantiliste, hanno investito i rapporti commerciali tra le due aree chiave del mondo: le sponde dell’Atlantico. Ad esse si sono aggiunti nuovi attori, spesso in posizione economicamente conflittuale, quali, ad esempio, l’OPEC[9], che hanno contribuito a frammentare e quindi a creare squilibri generatori di spinte inflazionistiche e recessive. All’inizio degli anni Settanta, il mondo era all’inizio di un grave periodo di stagflazione[10]. Di qui la necessità di ampie e profonde ristrutturazioni delle economie sviluppate e, per quanto qui d’interesse, di quelle europee.

3. Il Piano Werner

In un regime di cambio fisso, la politica monetaria è sostanzialmente decisa dalla banca centrale del Paese egemone; le altre banche centrali perdono sovranità monetaria a favore di questa. Con il passare del tempo, però, ci si rese conto della profonda anomalia sistemica del regime di cambio fisso. Era impossibile, e lo diverrà anche dopo l’introduzione dell’euro, mantenere simultaneamente le quattro seguenti caratteristiche in un sistema economico:

  • Libertà di movimento dei capitali;
  • Tasso di cambio fisso (o moneta unica);
  • Libero commercio estero;
  • Possibilità di attuare in autonomia una politica monetaria divergente rispetto a quella della banca centrale del Paese economicamente più potente;

questi quattro obiettivi, ciascuno dei quali in sé auspicabile, furono battezzati da Tommaso Padoa Schioppa “quartetto inconciliabile”, e poi razionalizzati dal pensiero economico successivo come Terzetto impossibile. Fermo il cambio e liberi i movimenti di capitali, l’offerta di moneta non può essere fissata a discrezione della banca centrale; se infatti la espande troppo, o si blocca in qualche modo la fuga dei capitali oppure non si può impedire il deprezzamento della moneta.

Con il venir meno della parità ufficiale, i cambi divennero fluttuanti. Lo scostamento dei tassi di cambio dal loro livello normale, cioè il loro overshooting o undershooting, iniziò ad avere importanti conseguenze sull’attività economica interna, sulle industrie e sui settori esposti alla concorrenza internazionale. Ne consegue che le autorità nazionali di economie molto aperte non potevano permettersi una politica di bonario disinteresse nei confronti del cambio.

I riflessi sull’economia reale di queste difficoltà macroeconomiche non si fecero attendere. Dai dati OCSE dell’epoca[11], risulta un netto ridimensionamento della dinamica di crescita dell’attività produttiva e degli scambi intracomunitari, in termini non solo assoluti ma anche relativi rispetto ad altre aree e Paesi, in primis gli Stati Uniti ed il Giappone, con un rallentamento del processo di accumulazione e quindi di produzione che investe tutti i membri. Le disparità intracomunitarie, le difficoltà di adattamento al nuovo capitalismo, una disoccupazione media del 5% frenarono la tendenza alla convergenza ed allo spillover positivo visto nella fase precedente. Venne così messa in evidenza la debolezza macroeconomica europea, destinata a manifestarsi a più riprese nei cicli economici successivi. Debolezza che può essere definita come

l’incapacità di generare una politica espansiva comune o, se si vuole, la capacità di generare, al massimo, una politica deflazionistica su base continentale.[12]

Molti erano i dilemmi cui la Comunità andava incontro sul piano economico. Adottare una linea accomodante e sostenere la domanda per contrastare la crescente disoccupazione o scegliere misure di austerità per contenere l’inflazione e migliorare le bilance commerciali?

Sul piano monetario, come ricorda Padoa Schioppa[13], la scelta migliore era senz’altro quella di procedere verso

una piena unione monetaria […] la via maestra che conduce direttamente al coordinamento delle politiche e alla convergenza economica, sostituendo diverse autorità monetarie con un’unica centrale.

Ma il Trattato di Roma, in materia, era piuttosto vago. L’articolo 3 si limitava a stabilire la necessità di indirizzare «l’azione della Comunità all’applicazione di procedure che permettano di coordinare le politiche economiche degli stati membri e di ovviare agli squilibri nelle loro bilance dei pagamenti»; era anche prevista la creazione di un comitato monetario con funzione consultiva.

Ma anche sulla linea monetaria gravava un pesante dilemma: l’armonizzazione delle politiche economiche è il presupposto o il risultato dell’unione monetaria?

Molte furono le proposte.

Francia, Belgio e Lussemburgo assunsero posizioni «monetariste», considerando prioritaria l’istituzione di vincoli comuni alle politiche monetarie e alla libertà di cambio. Tali vincoli avrebbero forzatamente spinto i governi all’armonizzazione.

Germania, Olanda e Italia spingevano per la visione «economicista», che puntava alla primaria armonizzazione delle politiche economiche e alla riduzione delle principali divergenze, al fine di dare solida base all’unione monetaria in divenire.

Tutte le visioni riconobbero la necessità di far convergere le politiche per realizzare un’integrazione monetaria, che potesse essere gestita da istituzioni comunitarie, benché il primum movens dovesse nascere all’interno degli esecutivi dei Paesi membri. Questo perché il contesto europeo non era affatto isolato, anzi. Tutti i Paesi fondatori erano vincolati alla CECA, alla CEE, al GATT, al FMI, alla Banca Mondiale e, in sostanza, al capitalismo.  

Nell’incontro del 6 marzo 1970 il Consiglio dei ministri della CEE creò un gruppo di lavoro che avrebbe avuto il compito di gettare le basi programmatiche del grande progetto di unione monetaria. A presiedere tale commissione fu chiamato il presidente e ministro delle Finanze lussemburghese Pierre Werner[14].

Il rapporto finale della Commissione Werner è un ragionevole compromesso tra le varie posizione europee e contiene una coerente definizione di cosa si debba intendere per unione monetaria, una proiezione delle future istituzioni che dovranno reggerla e i passi per arrivarci.

L’unione economica e monetaria deve servire a creare un’area in cui beni, servizi, uomini e capitali circolino liberamente senza distorsioni competitive[15].

La piena integrazione, assicurava il Piano, avrà effetti più che positivi in termine di benessere economico. Questo perché il trasferimento della responsabilità monetaria complessiva alla Comunità, la liberalizzazione completa dei capitali e l’introduzione di un’unica valuta[16] creeranno un’area ottimale, libera da shock asimmetrici. Conviene chiarire il concetto[17], poiché trattasi di problema cui l’UE non è ancora riuscita a dare risposta convincente, nonostante il Piano Werner fornisse buone premesse.

È definibile area valutaria ottimale quella in cui non si verifichino shock asimmetrici tali da avvantaggiare un particolare Paese. Si consideri, ad esempio, che di due Paesi, uno sia specializzato nella produzione di un bene e l’altro in quella di un altro bene. Se, per un qualunque motivo, viene ad aumentare la domanda del primo bene e a ridursi quella del secondo[18], un deprezzamento della moneta di quest’ultimo Paese (e un apprezzamento di quella del primo) potrebbe bastare a stabilizzare la domanda di entrambi i beni. Se però non fosse possibile variare la parità, nel secondo Paese si verificherebbe una caduta dell’occupazione mentre nel primo si verificherebbero condizioni per un boom seguite dall’inflazione. Per migliorare la situazione servirebbe la libertà completa per i lavoratori di emigrare dal secondo Paese verso il primo e per i capitali di essere investiti in senso inverso.

Il Piano Werner prevedeva che l’infrastruttura centrale di comando e controllo dell’economia si basasse sull’esempio statunitense della Federal Reserve, ma che andasse oltre. Con la dissoluzione del potere monetario statale serviva un forte organismo garante della libertà di circolazione, una sorta di regolazione capitalistica dell’embedded liberalism.

per arrivare ai citati risultati, il Piano prevedeva tre fasi distinte distribuite in un periodo decennale.

La prima fase era, ovviamente, l’armonizzazione delle politiche di bilancio, da attuarsi secondo una visione comune a lungo termine delle linee fondamentali di una politica economica e monetaria il cui finalismo sia orientato all’unicità. A questo scopo si ipotizzava di dotare la CEE di personalità economica internazionale, rendendola una realtà quasi-statale in grado di esprimersi in maniera unitaria nelle grandi organizzazioni economiche mondiali.

La seconda fase prevedeva il coordinamento delle politiche economiche a medio termine. L’introduzione di vincoli finanziari di bilancio in progressione geometrica di strettezza e la progressiva diminuzione dei margini di fluttuazione in ambito macroeconomico avrebbero introdotto rigore e  convergenza, consentendo, però, agli stessi attori economici di adeguarsi all’europeizzazione nel modo che credevano più opportuno. A sostegno dello sviluppo era prevista la creazione di un Fondo europeo di cooperazione monetaria.

La terza ed ultima fase sarebbe stata l’integrazione del fondo nel sistema delle banche centrali che, inevitabilmente, si sarebbe creato.

La strategia del Piano Werner, in ultima analisi è pensata alla luce dell’intreccio tra sviluppo economico e rimodellazione dell’assetto  istituzionale, senza una vera sintesi tra approccio economicistico e approccio monetaristico[19].

Si tratta, senza dubbio, di un piano ambizioso, da cui emerge chiaramente l’intento politico di dirigere l’economia, perché se da un lato è vero che sul piano empirico l’Europa politica si costruisce a partire dall’Europa economica, d’altro canto è pur vero che la tecnica ha bisogno di una guida politica. Questo perché la tecno-finanza ed il welfare state si respingono a vicenda[20].

In retrospettiva, è possibile rilevare che l’eccessiva audacia, o meglio l’eccessiva fiducia, del Piano Werner fu frenata dalle ancora troppo forti ipoteche nazionali sul progetto di integrazione conseguenti ad una crisi economico-sociale che spingeva gli esecutivi degli Stati membri, in ottica di vote-seeking, ad adottare misure anticicliche. Efficacemente scrive Ingravalle:

la questione si chiarisce […] guardando alla dinamica teorica del Piano Werner e alla dinamica pratica della vicenda dell’integrazione monetaria che ha dato luogo allo SME. Effettivamente l’integrazione economica ha posto l’esigenza dell’integrazione monetaria. L’esigenza: e a un’esigenza si può dare soddisfazione o meno. […] Non esiste alcuna  necessità storica che obblighi a soddisfare una simile esigenza[21].

Il Piano Werner ebbe, tra gli altri, il grande merito di stabilire a chiare lettere non solo che l’obiettivo finale doveva essere la moneta comune, ma anche che la via per giungervi non doveva essere tecnocratica, ma politica.

Il 22 marzo 1971, il Consiglio approvò il Piano e decise che entro dieci anni i Paesi della CEE avrebbero dovuto avere un’unione economica e monetaria.

4. Alla caccia del “Serpente”

Nel dicembre dello stesso anno, Nixon, timoroso per il crescere del disordine monetario ed incapace di trovare nuovi rimedi, tornò sui suoi passi. Riunì il G-10[22] per negoziare un ritorno ai cambi fissi. Le parti convennero nel fissare una divergenza massima di ± 2,25% ai tassi di parità. Questa maggiore elasticità, chiaramente permetteva una divergenza massima calcolata in un periodo di tempo di ± 4,5%. L’ampiezza della fluttuazione diveniva ancora più rilevante se si considerava un arbitraggio a tre, ad esempio lira, marco e dollaro.

Questo sistema venne chiamato Serpente dei cambi[23].

Visto quanto espresso dal Piano Werner, uno scarto residuale del 9% era eccessivo perché era un oggettivo passo indietro verso la convergenza. Dunque la risposta dei Paesi CEE si concretizzò nell’introduzione di un «corridoio dentro il Serpente». I membri decisero di mantenere effettivo il valore in dollari delle loro divise, ma si impegnarono a restringere progressivamente le bande di oscillazione tra le loro valute (± 1,125% data 1 la parità con il dollaro).

Il Serpente funzionava in questo modo: quando la somma tra la percentuale di apprezzamento della moneta più forte tra quelle della CEE e la percentuale di deprezzamento della moneta più debole sulle rispettive parità raggiungeva il 2,25% era previsto l’intervento ufficiale che si sostanziava nell’acquisto della moneta debole e nella vendita di quella forte.

Solo 14 mesi dopo la firma degli accordi con il G-10, la Federal Reserve fu costretta a svalutare il dollaro di 1000 punti base[24]. La crisi raggiunse l’apice il 10 febbraio 1973, quando il Giappone chiuse il mercato del cambio. La svalutazione del dollaro minò la credibilità circa la futura stabilità del nuovo sistema di cambi fissi, causando una repentina perdita di fiducia nel dollar standard che ne decretò la fine.

Rimase, però, effettivo il tunnel che vincolava tra loro le divise europee, ma dopo la caduta del dollaro non era in grado di sopportare altri colpi. Che non tardarono ad arrivare. Gli shock petroliferi spinsero i membri ad adottare politiche economiche sostanzialmente divergenti[25], per rispondere in modo frammentato e nell’ottica della ricerca del consenso elettorale agli ampi disavanzi nella bilancia dei pagamenti.

Contrariamente alle previsioni della curva di Phillips[26], nei Paesi europei che avevano adottato politiche espansive si verificò un parallelo aumento di inflazione e disoccupazione.

Quando, nel marzo del ’73, sotto l’effetto della pressione speculativa, la Germania si rifiutò di sacrificare le severe politiche anti-inflazioniostiche sull’altare dell’unione economica e rivalutò il marco di 550 punti base, il segnale fu chiaro per tutti. La causa dell’integrazione monetaria era subordinata all’efficienza economica interna, il che portò, naturalmente, a forti tensioni di cambio.

La lunga agonia del Serpente vide molte defezioni (Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Francia e Svezia). Ciò che rimase fu un numero limitato di Stati[27] che ancorarono le proprie monete al marco.

In buona sostanza, il Serpente non era riuscito a dare stabilità ai cambi a livello internazionale, in virtù del fatto che i Paesi diedero il via ad una serie di continui riallineamenti valutari che palesarono l’impossibilità di creare un’unione monetaria attraverso il progressivo irrigidimento dei tassi di cambio.

Furono, comunque, compiuti passi importanti. Fondamentale fu, innanzitutto, il processo di socializzazione tra Stati, perché creò un precedente per una crescente collaborazione in un campo totalmente nuovo e di portata mondiale. Inoltre, per risolvere i problemi di contabilità interna, il 21 aprile 1975 il Consiglio della CEE configurò l’unità di conto europea (UCE): un paniere di monete in cui ognuna aveva un peso percentuale fisso[28]. La nuova UCE divenne, col passare del tempo, da strumento contabile vera e propria moneta virtuale per la stipulazione di prestiti e servirà da modello per l’intero sviluppo valutario successivo.

5. Nascita del Sistema monetario europeo

In un discorso che diverrà celebre nella storia dell’economia europea, tenuto all’Istituto universitario europeo di Fisole nel gennaio del ’77, il presidente della Commissione europea Roy Jenkins criticò aspramente il concetto di «politica dei piccoli passi» volontari verso la convergenza. Si appellò, invece, alla riscossa verso un grande balzo in avanti che avrebbe condotto all’emissione di una nuova moneta, sorretta dalla forza economica dei nove Paesi CEE, futuro pilastro dell’economia mondiale e vera alternativa al dollaro[29]

L’idea fece breccia nelle intenzioni di Giscard d’Estaing e di Helmut Schmidt, facendo leva sulla convinzione diffusa che

L’instabilità internazionale e l’inflazione avessero minato la fiducia degli imprenditori, mentre il discreto successo contro l’inflazione del Serpente monetario attestasse concretamente la via da seguire[30].

Il Consiglio pose come nuovo obiettivo a breve termine un nuovo coordinamento a livello finanziario ed economico che potesse portare alla convergenza. Con notevole rapidità venne ideata un’architettura economico-istituzionale che fu approvata nel 1978, per divenire operativa il 13 marzo 1979[31]: nacque il Sistema monetario europeo.

La creazione dello SME rifletteva la paura che l’instabilità monetaria, venutasi a creare in seguito alla fluttuazione dei cambi, potesse minare il già difficoltoso percorso di riavvicinamento europeo.

La testata d’angolo di questa nuova costruzione fu l’istituzione di un solido Fondo monetario europeo, composto da riserve in oro, dollari e monete comunitarie, su cui basare il principale strumento da utilizzare nei rapporti tra le banche centrali: la European Currency Unit o ECU. Con il passare del tempo e con il suo rafforzamento, quest’ultima unità di conto avrebbe gradualmente sostituito il dollaro e rappresentato la fase embrionale della futura moneta unica europea.

L’idea di base dello SME era che i meccanismi di funzionamento delle economie dei Paesi membri non avessero ancora raggiunto uno stato di coesione ed integrazione tale da consentire un cambio fisso. Ma questo limite era mitigato dalla presenza di uno strumento di aggiustamento a lungo termine dell’equilibrio esterno, costituito dal tasso di cambio. Lo SME si basava dunque su tre pilastri fondamentali: l’ECU, il meccanismo di cambio ed intervento e le facilitazioni di credito tra Paesi membri.

L’ECU non fece altro che riproporre il meccanismo del paniere di valute alla base dell’UCE, rappresentando l’unità di conto numerario dello SME. Ogni Paese doveva dichiarare il proprio tasso centrale, o parità bilaterale, nei confronti dell’ECU. Il peso relativo delle varie valute, poi, rifletteva la diversa importanza economica di ciascun Paese. I cambi centrali, perciò, tra le monete di due Stati si ottenevano dalla seguente relazione: (Lit/DM) = (Lit/ECU) / (DM/ECU).

Dunque il valore dell’ECU in lire era dato dalla sommatoria del prodotto tra le quantità, invariabili, delle monete contenute nel paniere e i tassi di cambio bilaterali.  Ciò creava dei problemi, perché se la lira si deprezzava il suo peso nel paniere diminuiva a fronte di un apprezzamento delle monete più forti, mentre il suo ammontare nel paniere rimaneva invariato. Per ragioni politiche questo non era desiderabile, quindi si decise di cambiare ogni cinque anni le quantità delle divise nel paniere, in modo da mantenere quote relativamente stabili nel corso degli anni[32].

Lo SME è una creatura delle autorità, l’ECU è essenzialmente un fenomeno di mercato. Il legame tra i due è chiaro. Da un lato, la diffusione di una moneta comune è lo sbocco naturale del processo di unione monetaria di cui lo SME era il primo stadio. Dall’altro, l’ECU deve gran parte del suo successo alla convinzione che tale processo sarebbe stato portato a compimento. La natura consuetudinaria del processo che dà forma a un sistema monetario è stato riconosciuto da tempo. Scriveva Karl Menger:

la moneta non è stata creata dalla legge. Originariamente, è un’istituzione sociale, non dello Stato […]. Ciò nonostante, l’istituzione sociale del denaro è stata perfezionata ed adattata alle numerose e mutevoli necessità di un commercio in evoluzione grazie al suo riconoscimento e alla regolamentazione da parte dello Stato, così come i diritti consuetudinari sono stati perfezionati ed adattati per legge[33].

Sul piano microeconomico l’ECU fu utilizzabile per gli eurodepositi, per la maggior parte delle facilitazioni[34], per tutte le obbligazioni, per i prestiti bancari a termine, per i crediti rotativi e soprattutto per futures ed options. Quest’ultimo tipo di operazioni, soprattutto quelle di tipo forward exchange, ha condotto ad un ampio differenziale tra tasso d’interesse sui depositi a tre mesi e tasso teorico su eurovalute a tre mesi. Questo spread dimostrava come le condizioni di mercato al fixing dell’ECU potessero mutare rispetto a quelle del fixing delle valute componenti. A riprova di ciò si consideri che, nel 1987, il valor medio giornaliero degli scambi in ECU sulla borsa di Chicago era pari a 3 miliardi[35], mentre le uniche valute ivi quotate erano il marco o, marginalmente, il franco francese. Il prezzo dei futures in ECU veniva, quindi, fissato indipendentemente dalle quotazioni delle valute componenti.

Pesanti limiti gravavano sull’ECU. Per prima cosa mancava un prestatore di ultima istanza, cosa che rappresentava al contempo una grave lacuna sistemica ed un ovvio ostacolo allo sviluppo, in spessore, del mercato valutario in ECU.

Secondariamente, come si è accennato, mancava un reale collegamento tra ECU «privato» ed ECU «ufficiale». Come è noto, questa valuta virtuale non raggiunse mai la maggiore età. Il ruolo dell’ECU nello SME non è, quindi, mai stato fondamentale[36]. La sua funzione di strumento di intervento nel mercato dei cambi si è rivelato marginale, così come illusoria è stata la speranza che potesse portare ad un’effettiva simmetria di cambio.

Secondo pilatro fondamentale era il meccanismo di cambio e di intervento, attraverso il quale era possibile variare le parità ufficiali. Queste ultime potevano essere modificate o rinegoziate in seguito a rivalutazione o svalutazione di una o più monete. In quei casi si assisteva ad un riallineamento delle parità, si calcolavano nuovi tassi centrali e si creava una nuova struttura di cambio, rimanendo ferme le regole.

L’ampiezza del corridoio fu stabilita in ± 2,25%, mentre alla lira fu concesso di operare all’interno di un più largo ± 6%. Nel corso di tutti gli anni Ottanta, questo tipo di sistema ha conseguito importanti successi. Si è, infatti, notevolmente ridotta la volatilità dei tassi di cambio, anche se le parità sono state più volte ritoccate. L’Italia, in particolare, ha dovuto chiedere ripetutamente la svalutazione della lira in seguito alla negoziazione dell’indennità di contingenza da parte delle organizzazioni sindacali[37] e da Confindustria. I cambi più stabili hanno anche avuto l’effetto di provocare una sostanziale convergenza dei tassi di cambio dei diversi Paesi verso valori più bassi.

La maggior stabilità monetaria è stata, in larga misura, indotta dal ruolo guida assunto, nell’ambito dello SME, dalla Banca centrale tedesca che, come d’abitudine, ha contrastato l’inflazione tenendo sotto controllo l’espansione monetaria. Le altre banche hanno dovuto attuare una politica analoga […][38].

La presenza di una larga banda di oscillazione ha consentito, nel lungo periodo, di effettuare svalutazioni al riparo di attacchi speculativi.

Il meccanismo di intervento si basava su un indice di divergenza, avente lo scopo di stabilire una presunzione di azione da parte delle autorità responsabili di una moneta, nel caso quest’ultima si avvicinasse ai valori limite del corridoio. Se questa moneta si avvicinava del 75% al limite superiore o inferiore le autorità nazionali avrebbero preso misure correttive. In un mondo in cui i derivati erano di là da venire l’artificio funzionava[39].

Sul piano immediato, lo SME ha raggiunto i suoi obiettivi: tassi di cambio stabili, nominali e reali. Su questa base è stata costruita l’apertura degli scambi commerciali nella Comunità, è stato possibile un aggiustamento macroeconomico dei Paesi membri, il tutto al riparo dalla crisi del dollaro.

Ultimo pilastro fu la completa e definitiva liberalizzazione dei capitali[40]. A posteriori è chiaro che questa decisione fu un duro colpo a livello macroeconomico statale per la maggior parte dei Paesi membri. Sotto attacco risultarono in particolar modo Francia e Italia[41]. I controlli sui capitali impedivano le ondate speculative a brevissimo termine. L’apertura completa comportò che le quotazioni di un titolo risentissero più dei cambiamenti delle aspettative che si determinavano nel breve periodo, piuttosto che delle prospettive a lungo termine. Con la caduta dei controlli, agli investitori professionisti non interessava più ciò che un investimento valeva per i cassettisti[42], ma la prospettiva di mercato ai tre mesi. Fenomeni speculativi colpirono le imprese, perché esse non riuscivano a trovare sul mercato i fondi necessari allo sviluppo. Colpirono il mercato, poiché non si poteva più presumere[43] che esso avrebbe indirizzato necessariamente le risorse verso impieghi economicamente e socialmente più produttivi. Colpirono gli Stati, che dovettero far ricadere sullo spread dei titoli di debito pubblico il peso di prevenire le fughe dei capitali. I mercati si aprirono al baratro dell’incertezza, aumentando le spinte speculative, gli attacchi alle monete e le spinte inflazionistiche[44].

Le prime due monete a cadere sotto gli attacchi speculativi furono la lira e la peseta. In precedenza, attraverso svalutazioni periodiche, Italia e Spagna erano riuscite a riequilibrare i loro prezzi rispetto alla divisa tedesca. Con l’impegno a mantenere i cambi fissi questa possibilità era venuta meno, dunque i tassi di inflazione rimasero più elevati. In altre parole, dal 1987 in poi, i prezzi italiani e spagnoli avevano iniziato una lenta ma costante ascesa[45], causando una continua perdita di competitività delle rispettive industrie. Nel caso italiano i prezzi tra il 1988 ed il 1992 erano aumentati del 30,2% rispetto a quelli tedeschi[46]. Questa situazione era insostenibile e gli speculatori se ne approfittarono, costringendo la lira a svalutare del 7% e poi ad uscire dallo SME[47] e la peseta a riallinearsi del 5%.

Ondate speculative non risparmiarono nemmeno le valute più forti. Forte tra i più forti era il marco, per il quale la Bundesbank teneva tassi elevati al fine di consentire una politica monetaria restrittiva. Questo perché i costi della riunificazione tedesca del 1990 avevano prodotto spinte inflazionistiche e conseguente aumento del deficit di bilancio. Secondo i più deboli tra i forti (Francia e Gran Bretagna) i tassi andavano abbassati per calmierare la crisi e si doveva perseguire una politica monetaria espansiva[48].

Alla fine del 1991 la politica monetaria tedesca divenne ancora più restrittiva. L’intenzione era di segnalare al mercato l’assoluta indisponibilità ad assecondare il governo nella politica di inflazione salariale. Il 16 luglio 1992 il tasso ufficiale del marco raggiunse gli 875 punti base: la Bundesbank avrebbe perseguito l’obiettivo della stabilità monetaria ad ogni costo, senza curarsi delle conseguenze economiche interne e con assoluto disinteresse per le implicazioni internazionali delle sue politiche[49].

La fame speculativa colpì duramente prima la sterlina, costringendola a uscire dallo SME il 17 settembre 1992 (il «mercoledì nero») e a deprezzarsi del 10% tra settembre e dicembre 1992, e poi il franco francese.

Diviene chiaro il trend speculativo: quando ci si rendeva conto che le autorità di un Paese avevano un incentivo a modificare le politiche economiche, gli speculatori lo costringevano ad uscire dallo SME. Scriveva Padoa Schioppa:

definiamo una economia come «un insieme di operatori economici legati da rapporti di scambio e di interdipendenza e partecipi di interessi comuni», è chiaro che molte economie sono «pluristatali», nel senso che comprendono più di uno Stato coinvolto.[50]

Aspettandosi una svalutazione, gli speculatori iniziarono a vendere sterline e franchi e, alla fine, l’attacco fu tale che costrinse le autorità a svalutare[51].

 Già questo, a parere di chi scrive, mostra come ogni polemica sulla perdita di sovranità monetaria sia stata superata ancora prima di essere stata formulata.

Il 23 settembre 1992 si scatenò un attacco contro il franco francese. La Banca di Francia, che nel frattempo aveva perso ottanta miliardi di franchi, alzò di colpo a 130 punti base i tassi dei pronti contro termine e sorprendentemente fu sostenuta dalla Bundesbank che fornì base monetaria.

Confidando – a ragione - nell’eccezionalità dell’aiuto tedesco, gli speculatori tornarono all’attacco nell’agosto 1993[52] con una massiccia vendita di franchi contro marchi, coinvolgendo le Banche centrali tedesca e francese. Inizialmente la Bundesbank sostenne l’omologa francese, comprando franchi per 107 miliardi di marchi. Poco dopo però, la Bundesbank ritenne che fornire un supporto illimitato di marchi avrebbe interferito con la propria politica monetaria e smise di fornire aiuto. Per la fine dell’anno il franco era svalutato di 570 punti base sul marco.

Ad un’analisi successiva pare chiaro che gli speculatori vincono contro le Banche centrali non perché abbiano più capacità capitale, ma perché le Banche centrali non sono disposte ad utilizzare il loro, in teoria infinito, capitale. Non era, infine, più credibile un pieno impegno a mantenere il cambio fisso.

Questi continui attacchi speculativi convinsero l’ECOFIN ad ampliare il corridoio di fluttuazione a ±15% nella notte tra l’1 ed il 2 agosto 1993. Sostanzialmente lo SME perse la caratteristica di cambio fisso, perché una variazione del 30% era, agli occhi di tutti, un regime di cambio fluttuante. Se non era finito, il Sistema monetario europeo era nella più profonda delle sue agonie.

Note e riferimenti bibliografici
[1] Il titolo è una frase di G. Bernanos, Il non-conformista, Treviso, Santi Quaranta, 2000, p. 189.
[2] P. Guerrieri e C. Padoan, L’economia europea, Bologna, il Mulino, 2009, p. 13.
[3] Le regole di Bretton Woods stabilivano: a) la parità ufficiale di 35 dollari per un’oncia d’oro. La Federal Reserve s’impegnava a convertire i dollari in oro e viceversa; b) gli altri Paesi dichiaravano la propria parità nei confronti del dollaro, impegnandosi a mantenere uno scostamento massimo del ±1%.
[4] Si veda, in proposito, il Trattato di Roma, disponibile a questo link.
[5] Ad esempio l’Italia è passata da una percentuale di PIL agricolo del 25,3% sul totale (1950) ad una dell’8,2% (1976) con grande aumento d’importanza dei settori secondario e terziario. Fonte: I. Lateson e W. Wheeler, Western economy in transition, Londra, Longman, 1980, p. 51.
[6] P. Guerrieri e C. Padoan, L’economia…, cit., p. 23.
[7] Si realizza quando l'allocazione delle risorse è tale che non è possibile apportare miglioramenti paretiani al sistema cioè non si può migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro.
[8] Indicatore storico del Partito democratico statunitense, disponibile su a questo link.
[9] Organization of Petroleum Exporting Countries.
[10] Ovvero la contemporanea presenza sia di un aumento generalizzato dei prezzi che di un forte rallentamento dell’economia reale.
[11] Tabella indicante i rapporti delle bilance commerciali dei paesi europei, disponibile a questo link, per i periodi 1960-68, 1969-73.
[12] P. Guerrieri e C. Padoan, L’economia…, cit., p. 37.
[13] In un saggio presentato a Milano nel giugno 1982, dal titolo Mobilità dei capitali.
[14] Pierre Werner (Saint-André-lez-Lille, 29 dicembre 1913 – Lussemburgo, 24 giugno 2002), giurista di formazione, si specializza in diritto economico e bancario, interesse che lo porta, tra il ’45 e il ’49, alla nomina a commissario di controllo bancario. Iscritto al Partito popolare cristiano sociale, nel 1953, diviene ministro delle Finanze, per poi passare alla presidenza del governo nei periodi ’59-‘74 e ’79-’84.
[15] F. Ingravalle Prospettive della moneta unica, in Daniela Felisini (a cura di), Culture economiche e scelte politiche nella costruzione europea, Bari, Carocci Editore, 2010, p. 74.
[16] O il mantenimento di diverse divise, ma con l’annullamento dei margini di fluttuazione, situazione che molto si avvicina a un’unica valuta.
[17] Quanto segue è riscontrabile negli studi di Milton Friedman, The Case for Flexible Exchange Rates in Essays in Positive Economics, Chicago, The University of Chicago Press, 1953, pp. 157-203.
[18] Si consideri, alla data attuale, come buon esempio di bene un titolo di Stato tedesco ed uno greco.
[19] D. C. Kruse, Monetary integration in Western Europe, Londra, Butterworths, 1980, p. 73.
[20] Si veda, in proposito, di G. Tremonti, La paura e la speranza, Milano, Mondadori, 2008, pp. 22 e seguenti.
[21] F. Ingravalle, op. cit., p. 80.
[22] USA, Canada, Giappone, membri CEE, Gran Bretagna, Svezia e Svizzera.
[23] R. Triffin, Dollaro, euro e moneta mondiale, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 143-190.
[24] Equivalenti al 10%. Sul piano economico si preferisce la misura in punti base perché permette di individuare quantità percentuali molto ridotte come, ad esempio, lo spread.
[25] Ad esempio la Germania si indirizzò alla stabilità dei prezzi, mentre l’Italia ricorse prima alla stampa di nuova moneta e poi, addirittura, alla «scala mobile».
[26] Che ipotizza una relazione inversa tra inflazione e disoccupazione. È detta anche «curva a J».
[27] Germania, Benelux e Danimarca.
[28]  M. Tenaglia e L. Ambrosini, La moneta e l’Europa, da Bretton Woods a Maastricht e oltre, Torino, Giappichelli, 1996, p. 59. Il peso percentuale delle 9 monete della CEE nell’UCE nel ’75 era il seguente: marco tedesco: 27,3; franco francese: 19,5; lira italiana: 14; fiorino olandese: 9; franco belga: 7,9; sterlina inglese: 7,5; corona danese: 3; sterlina irlandese: 1,5; franco lussemburghese: 0,3.
[29] Testo integrale dell’intervento di Roy Jenkins disponibile a questo link.
[30] F. Fauri, L’integrazione economica europea 1947-2006, Bologna, il Mulino, 2011, p. 171.
[31] Risoluzione del Consiglio del 5/12/1978.
[32] Il tutto in base al sistema MESA, Mutual Ecu Settlement Agreement.
[33] K. Menger, Principi fondamentali di economia, Catanzaro, Rubbettino, 2001, p. 97.
[34] Commercial paper, certificati di deposito, NIF, MOFF e note a medio termine.
[35] Dati di Ecu Newsletter 1987.
[36] F. Fauri, L’integrazione..., cit., p. 174.
[37] La «scala mobile» fu negoziata nel 1975 da L. Lama, segretario CGIL cui si associarono gli altri sindacati. Questa indennità, applicata prima al settore bancario, fu poi estesa agli altri settori di lavoro. Si veda, in proposito la legge 1° febbraio 1977 n. 2, Norme per l’applicazione dell’indennità di contiongenza.
[38] T. Cozzi e S. Zamagni, Istituzioni di economia politica – un testo europeo, Bologna, il Mulino, 2008, p. 430.
[39] Il periodo 1979-1987 è stato caratterizzato da relativa stabilità dei cambi.
[40] Dando attuazione agli artt. 67-73 del Trattato CEE e imponendo la completa liberalizzazione entro il 1° luglio 1990.
[41] T. Padoa Schioppa, Lo SME: una visione di lungo periodo, Bari, Laterza 1993, pp. 72-73.
[42] Chi acquista un titolo per conservarlo e trarne guadagno a lungo termine.
[43] Come nella classica teoria del capitalismo.
[44] Interessante approfondimento su Cozzi e Zamagni, op. cit., pp. 382-387.
[45] Articolo di D. Pesole L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazione ne «il Sole 24 Ore» del 30 aprile 2010, disponibile a questo link.
[46] Rapporto della Commissione europea del 1993, European Economy, p. 72-73.
[47] Il 17 settembre 1992.
[48] T. Padoa Schioppa, La veduta corta, Bologna, il Mulino, 2009, p. 84.
[49] F. Fauri, op. cit., p. 183.
[50] Regole ed istituzioni, saggio dell’aprile 1983 per il volume The Political Economy of International Money della collana «Annual review of Political Science» del giugno 2001.
[51] Questo stato di cose si definisce profezia che si auto-avvera ed è stato ben studiato dal sociologo Robert Merton nel 1971.
[52] Articolo Il franco è sotto pressione, la banca centrale alza i tassi ne «la Repubblica» del 25 novembre 1992, disponibile a questo link.