• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Dom, 22 Mag 2016

Permessi ex lege 104/92: la dura linea della Cassazione

Modifica pagina

Ilaria Stellato


Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 maggio 2016, n. 9749.


Il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un'agenzia investigativa, finalizzato all'accertamento dell'utilizzo abusivo, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 legge 5 febbraio 1992, n. 104 (contegno suscettibile di rilevanza anche penale) non concerne l'adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell'orario di lavoro ed in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso sfugge al divieto di cui agli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori.

Lo ha stabilito la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la  sentenza 9749/2016, confermando la linea dura già più volte espressa circa l’utilizzo improprio dei permessi accordati dalla legge 104/1992.

L’interessante pronuncia trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’appello di Roma, confermando il decisum di primo grado, respingeva la domanda di un lavoratore avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento intimatogli dalla società datoriale sull’assunto che, nelle ore in cui aveva fruito dei permessi ex lege 104/92 concessi per  l’assistenza alla suocera disabile, si era invece recato ad effettuare lavori in alcuni terreni di proprietà.

Avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva in Cassazione articolando sei motivi di censura ed eccependo, ex multis, la mancata affissione del codice disciplinare.

Di diverso avviso il Supremo Collegio il quale, in applicazione di un principio ormai consolidato, ha ribadito che «in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto “minimo etico” o inosservanti dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro».

Parimenti, non ha incontrato favorevole sorte il secondo motivo di doglianza addotto dal lavoratore e concernente, in species, la asserita ammissibilità degli accertamenti investigativi azionati dalla parte datoriale solo in quanto finalizzati a tutelare il patrimonio aziendale.

Ed invero, sul punto i Giudici di Pizza Cavour hanno precisato, con riferimento alla portata delle disposizioni (L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3) che delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi – e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3) – «che esse non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica».

Ciò – secondo la Cassazione - «non esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione».

Traspare, nel passaggio in analisi, il seguente assunto, avvalorato da giurisprudenza costante della Corte di legittimità: l'utilizzo da parte del dipendente dei permessi con finalità assistenziale per scopi diversi trasmoda in “abuso” del diritto – suscettibile di rilevanza anche penale - con conseguente intrinseca attitudine di tale condotta a elidere, in radice, il vincolo fiduciario che cementa il rapporto lavorativo. Da tanto consegue, secondo l’esegesi degli Ermellini, la ammissibilità dei controlli investigativi azionati dal datore di lavoro.

E tuttaviahanno precisato i Giudici del Palazzaccio - « le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. n. 3590 del 2011). Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro ».

Dall’applicazione dei principi summenzionati al caso de quo è derivato, quindi, il rigetto del ricorso con condanna della parte ricorrente alla pagamento delle spese del giudizio.