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Pubbl. Mer, 25 Mag 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Equità e risarcimento del danno non patrimoniale in assenza di un parametro normativo di valutazione uniforme

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Michele Stravato


Considerazioni a margine della sentenza Cass. Civ. Sez. III 07/06/2011 n. 12408


La sentenza del 07/06/2011, emanata1 dalla Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, Presidente dott. Roberto Preden, affronta il controverso problema della mancata applicazione2, da parte delle Corti di merito, di un unico parametro di valutazione uniforme su tutto il territorio nazionale, in ossequio al principio dell’equità3, ai fini della quantificazione e liquidazione del danno biologico4, di rilevante entità5 e derivante da sinistro stradale6, tentando in tal modo di sciogliere quello che da diverso tempo è stato definito come “un nodo irrisolto che periodicamente riaccende le polemiche della dottrina civilistica, con riflessi anche in quella giuslavoristica7.”

Si riporta preliminarmente una breve sintesi del contenuto del ricorso8, avverso la sentenza n. 944/2005 emessa dalla Corte d’Appello di Bari il 17 aprile 2002, presupposta alla emanazione della pronuncia in esame.

"Il 7 aprile 1992 nei pressi di Trani, il ventiquattrenne P.G., a seguito della collisione tra la vettura che conduceva ed un furgone del quale il conducente R.S. aveva perduto il controllo a causa del manto stradale bagnato dalla pioggia, invadendo la corsia dell’opposto senso di marcia, riportò gravissime lesioni che gli provocarono una invalidità permanente totale, integrante grave tetraparesi spastica, turbe mnesiche, disordini del linguaggio, importanti turbe di tipo vegetale indotte da un grosso infarto cerebrale. Da ciò sono inevitabilmente conseguiti gravi ed irreparabili danni a carico della vittima dell’incidente, primo tra tutti l’impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa ai fini del proprio sostentamento e, conseguentemente, un irreversibile mutamento della propria qualità di vita, tale da incidere violentemente nella propria dimensione esistenziale9.”

In sede di legittimità P.G. non condivideva la posizione assunta dai giudici di merito sostenendo che questi avessero effettuato nei propri confronti, del tutto immotivatamente e con rigido automatismo, una valutazione dei danni riportati avvalendosi dei criteri relativi alla quantificazione del danno biologico contenuti nelle tabelle emanate dal Tribunale di Brescia, senza riconoscere nulla a titolo di danno esistenziale. In tal modo si sarebbe verificata una palese difformità, sotto il profilo risarcitorio, tra quanto avrebbe dovuto ricevere e quanto è stato liquidato nei propri confronti, se fossero stati applicati gli indici valutativi contenuti nelle Tabelle emanate dal Tribunale di Milano10. In particolare, il ricorrente sosteneva che il sistema di valutazione derivante dall’applicazione delle c.d. Tabelle Bresciane, applicate al caso di specie, determinava una quantificazione del danno biologico solamente parziale, rispetto alla effettiva menomazione subita, in quanto caratterizzato dal tenere in considerazione solo alcune componenti tipiche della persona umana. Più precisamente, queste sarebbero rappresentate da alcuni elementi quali la diminuzione della capacità funzionale della persona calcolata come componente fissa e commisurata direttamente ai parametri della menomazione subita e dell’età, dunque senza tenere in alcun modo conto delle conseguenze che la diminuzione funzionale aveva prodotto in molteplici e differenti dimensioni della vita quotidiana, quali la vita di relazione, quella sociale, quella lavorativa e quella familiare. Ancora, secondo il ricorrente, tali ulteriori danni, sarebbero stati meritevoli di una autonoma valutazione, specificamente motivata, quali componenti del danno biologico, determinando in tal modo una più elevata liquidazione del danno onnicomprensiva di tutte le sofferenze patite, delle menomazioni arrecate alla propria integrità psicofisica nonché dei danni di natura esistenziale11.

Infine, lo stesso ricorrente si è doluto della circostanza secondo la quale in punto di liquidazione del danno patrimoniale da danno emergente la Corte d’Appello avrebbe immotivatamente riconosciuto solo le spese mediche documentate escludendo ogni esborso futuro e, quanto al lucro cessante, non avrebbe considerato i presumibili (nonché probabili) incrementi dei guadagni che sarebbero derivati in assenza della perdita della capacità lavorativa12.

Con la decisione in commento la Suprema Corte ha stabilito due distinti principi di diritto, di seguito riportati, cui il giudice del rinvio ex art. 384 c.p.c. deve attenersi, il secondo dei quali relativo alla vexata quaestio qui in esame13.

Il primo, in punto a, riguarda il modo con cui deve operare la presunzione di concorso di colpa tra conducenti nell’ipotesi di scontro tra autoveicoli e di applicazione dell’art. 2054 c.c. ed enuncia la regola generale secondo cui, la prova del solo apporto causale di un conducente non libera l’altro dal fornire la prova liberatoria. Questa tuttavia non deve essere intesa in senso rigoroso, altrimenti risulterebbe pressoché impossibile fornire la prova contraria14.

Il secondo, in punto b, che si riporta integralmente, stabilisce che “poichè l’equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica presuppone l’adozione da parte di tutti i giudici di merito di paramentri di valutazione uniformi che, in difetto di previsioni normative (come l’art. 139 CDA, per lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto.”

Si tratta di una affermazione dal duplice valore. Il primo, sarebbe rappresentato da una sorta di denuncia indirizzata nei confronti del legislatore e riguarderebbe l’esplicito riconoscimento della assenza di una norma ad hoc cui le corti di merito possano fare riferimento per la quantificazione e liquidazione del danno biologico del tipo indicato ed il secondo, come conseguenza del primo, sarebbe rappresentato dalla eccessiva disparità di valori contenuti nei vari indici tabellari presenti su tutto il territorio nazionale, da cui la indicazione di un unico parametro di riferimento costituito dalle c.d. Tabelle Milanesi. Cosicché, si vorrebbe evitare che il medesimo danno, relativo a differenti soggetti, se valutato da diversi Tribunali venga quantificato e liquidato sulla base di una misura non uniforme, in quanto riferibile a criteri non univoci, con evidente disparità di trattamento nei confronti delle parti lese e, conseguentemente, ingenerando quella che è stata definita una “giurisprudenza per zone15”, nettamente in contrasto anzitutto con il principio di uguaglianza formale ex art. 3,1° Cost16. Dunque, secondo quanto affermato dalla stessa Cassazione, da un punto di vista sostanziale, l’emanazione del citato principio di diritto attribuendo valore “legale17” alle Tabelle Milanesi18, ha fornito ai giudici di merito “un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona.19” Si tratta di un tentativo volto ad evitare da un lato il possibile verificarsi di disparità di trattamento e, dall’altro, l’eventuale prevedibilità delle decisioni, che tuttavia non preclude al giudice di merito di apprezzare differentemente le peculiarità del singolo caso concreto, tutt’altro. La summenzionata valorizzazione ha il preciso compito di sottrarre l’organo giudicante da quella tipica condizione di “solitudine” che caratterizza il giudizio equitativo, concedendogli uno strumento rappresentato da un minimo comune denominatore, i valori tabellari ambrosiani. Il quadro ridefinito dalla sentenza in parola può pertanto essere così sintetizzato: per le lesioni quantificabili come pari o inferiori al nove punti percentuali di invalidità permanente, è prevista l’applicazione di indici legali ex art. 139 CDA, calibrate in ragione dello specifico ambito di applicazione (lesioni derivanti da incidente stradale ovvero infortunio sul lavoro) mentre per le lesioni di entità superiore al summenzionato limite, soccorre l’applicazione degli indici contenuti nelle tabelle ambrosiane20. Questi tuttavia, come è stato prontamente sottolineato da numerose pronunce successive, non rappresentano rigidi schemi di riferimento da prendere come modello di riferimento universale. Infatti se così fosse, si finirebbe per ottenere esattamente il risultato opposto a quello ricercato, un giudicato iniquo in quanto privo di adeguatezza e proporzionalità. Pertanto in presenza di una congrua motivazione il giudice potrà certamente discostarsi da tali parametri ogniqualvolta le singole peculiarità del caso concreto siano tali da rendere necessaria una personalizzazione del risarcimento21.

Alcuni autori si sono domandati22, doverosamente, perchè la Suprema Corte abbia eletto a parametro nazionale proprio gli indici contenuti nelle tabelle ambrosiane. Le principali motivazioni sono due. Nella decisione in parola viene sostenuto che ciò è avvenuto in ragione della loro ampia diffusione su tutto il territorio nazionale “essendo state adottate da ben sessanta Tribunali23.” Il secondo motivo addotto è quello secondo cui tali indici, nuovamente aggiornati di recente24, hanno adeguato i criteri di calcolo contenuti ai principi stabiliti dalle note sentenze di San Martino25 con la espressa previsione di una liquidazione congiunta del danno biologico e di quello morale, determinando in tal modo una più complessa, articolata ed approfondita valutazione del pregiudizio subito al fine di ottenere una quanto maggiore possibile risarcibilità di tutte le componenti delle lesioni subite26.

Poste queste premesse si riporta quanto i giudici di legittimità hanno esplicitamente stabilito con la pronuncia in esame, nodo centrale della questione in parola, secondo cui “nella perdurante mancanza di riferimenti normativi per le invalidità dal dieci al cento percento e considerato che il legislatore ha comunque già espresso, quanto meno per le lesioni da sinistri stradali, la chiara opzione per una tabella unica da applicare su tutto il territorio nazionale, la Corte di Cassazione, ritiene che sia suo specifico compito, al fine di garantire l’uniforme interpretazione del diritto fornire ai giudici di merito l’indicazione di un unico vaore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia, da individuarsi nei criteri tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto27.”

Sulla base di tali argomentazioni la S.C. ha introdotto il principio di diritto in esame in virtù del quale le citate tabelle ambrosiane costituiscono lo strumento per il raggiungimento di una c.d. “uniformità pecuniaria di base”, in tal modo assicurando una tendenziale uguaglianza di trattamento, sintomo di garanzia ed adeguatezza della regola equitativa applicata al singolo caso28, fatta salva, secondo quanto sostenuto dagli stessi giudici di legittimità, la imprescindibile “flessibilità imposta dalla considerazione del particolare29.” Infatti, in assenza di tale operazione verrebbe immotivatamente mutilata, in quanto applicata solo in relazione al criterio della proporzionalità30, la stessa regola equitativa la quale, come si è già avuto occasione di indicare, è costituita imprescindibilmente anche dalla necessaria compresenza del criterio della adeguatezza31. Solo mediante la presenza congiunta di entrambi i criteri è possibile ottenere una completa personalizzazione del risarcimento del danno in quanto quest’ultima costruita in rapporto alla dimensione esistenziale del pregiudizio subito32.

In definitiva, gli stessi giudici di legittimità hanno evidenziato che la liquidazione equitativa dei danni alla persona deve evitare due estremi33: da un lato, che i criteri di liquidazione siano rigidamente fissati in astratto e sia conseguentemente sottratta al giudice qualsiasi possibilità di contemperamento di questi alle circostanze del caso concreto, in questo modo l’ordinamento garantirebbe di certo il massimo livello possibile di uguaglianza tuttavia con conseguente prevedibilità delle decisioni34 ed impossibilità di addivenire ad un’adeguata personalizzazione del risarcimento; dall’altro, che il giudizio di equità sia completamente affidato alla mera intuizione soggettiva del giudice, al di fuori di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni, poiché in tal modo sarebbe teoricamente assicurata un’adeguata personalizzazione del risarcimento ma verrebbe senz’altro meno il principio di parità di trattamento e, con esso, la astratta prevedibilità dell’esito del giudizio, costituente uno dei più efficaci disincentivi alle liti giudiziarie35.

E’ oramai un dato acquisito dall’esperienza giuridica che l’istituto della responsabilità civile da sempre ha svolto un ruolo di supplenza del legislatore36. Per esempio, la disciplina della responsabilità del produttore è stata anticipata da una serie di pronunce, tutte coerenti con l’idea di invocare una regola di responsabilità oggettiva. Pertanto non sarebbe del tutto inusuale, anche in relazione alla questione di cui trattasi, che interpretazioni pretorie rappresentino l’anticipazione, nonché il chiaro sintomo della necessità di un intervento da parte del legislatore, in una determinata materia, della emanazione di una specifica disciplina normativa.

In particolare, sul punto sono sorti alcuni dubbi che hanno generato un dibattito tra gli studiosi circa l’introduzione all’interno dell’ordinamento giuridico, mediante l’apporto interpretativo della S.C., della specifica disciplina relativa alla applicazione delle tabelle ambrosiane, in assenza di una espressa previsione del legislatore37.

E’ stata sollevata la questione secondo cui il giudice del merito, nonostante l’emanazione del principio di diritto in discorso, qualora non si attenesse ad esso, discostandosi in tutto o in parte dalle regole ivi stabilite, incorrerebbe nel vizio censurabile come violazione di legge ex art. 360 n.3 c.p.c38 ovvero, come è stato prospettato da una successiva pronuncia39, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 n.5 c.p.c.

Qualora si aderisca al primo orientamento, (Cass.Civ.12408/11), conferendo formalmente pieno valore legale alla disciplina derivante dal principio di diritto di cui trattasi, si prospetterebbe un caso di espresso riconoscimento di un vuoto normativo colmato da uno specifico intervento di tipo pretorio, con conseguente obbligo da parte di tutte le corti di merito di applicare i criteri indicati, elevando questi ultimi a rango di norma generale ed astratta. Qualora invece si aderisca al secondo orientamento, di poco successivo al precedente, (Cass.Civ.14402/11), si ammetterebbe che il giudice di merito potrebbe sempre discostarsi dai valori indicati, in quanto questi rappresentativi solo di mere indicazioni, dal carattere decisamente meno vincolante. Pertanto, lo stesso giudice potrà in tal caso, più liberamente, aumentare o diminuire l’entità del quantum risarcitorio, discostandosi con maggiore o minore flessibilità dai valori milanesi di equità di base, purché fornisca una congrua motivazione circa il percorso logico impiegato che ha determinato la preferenza nei confronti di una differente liquidazione. Il pensiero dei giudici di legittimità relativo a tale orientamento, sembra presupporre il medesimo significato attribuito alla valorizzazione “nazionale” degli indici milanesi effettuato dalla pronuncia in esame, tuttavia gli stessi, pur considerando che il giudice del merito debba necessariamente utilizzare uno strumento determinato ed univoco, nell’applicazione quanto più possibile corretta del criterio dell’equità, addivengono a differenti conclusioni. Infatti, il successivo orientamento stabilisce che, qualora il percorso logico-deduttivo contenuto nella sentenza di merito sia ben motivato, sarebbe sempre possibile ottenere efficacemente una valida liquidazione del danno biologico anche se distante da quella che deriverebbe dall’applicazione degli indici milanesi e ciò, senza in alcun modo essere censurabile in cassazione, in quanto l’art. 360 n. 3 c.p.c. non sarebbe invocabile. Quindi, la seconda pronuncia citata sembra aver fatto “un passo indietro” rispetto ai principi poco prima stabiliti, riconferendo alle corti di primo e secondo grado una parte del margine di apprezzamento da poco perduto, lasciando sullo sfondo la presenza degli indici milanesi come strumento di equità.

Inoltre si sottolinea che nella decisione in parola, sulla scia della precedente, viene evidenziato che in sede di liquidazione del danno non patrimoniale il giudice di merito dovrà verificare se la sofferenza o il pregiudizio arrecato ad aspetti relazionali siano stati considerati in sede di determinazione dell’indice di riferimento, rendendosi altrimenti necessario che “il dato offerto dalle tabelle venga reso oggetto di relativa personalizzazione, riconsiderando i relativi parametri in ragione anche di tale profilo.

Si tratta di una precisazione non trascurabile in quanto, come accennato in precedenza, sulla base di quanto emerso nella decisione in esame, i giudici di tale pronuncia hanno rivalutato la categoria del danno esistenziale quale voce descrittiva del pregiudizio (unitario e relativo alla lesione di diritti costituzionalmente rilevanti) di natura non patrimoniale il quale, se non può essere considerato alla stregua di un’autonoma voce di danno risarcibile, dovrà allora essere apprezzato come variabile di calcolo in relazione allo sconvolgimento della personalità della vittima40.

Cosicché in definitiva il giudice di merito, in fase di liquidazione del risarcimento, sembrerebbe ritrovarsi esattamente al punto di partenza, in quanto dovrà valutare se il parametro che ritiene adottabile comprenda o meno tutte le differenti voci di danno accertate41.

La prospettata tendenziale uniformità del sistema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine della sua concreta attuazione, richiederebbe42 il definitivo superamento della differenziazione di valutazione del quantum risarcibile, ad oggi inevitabilmente presente nell’ordinamento, a seconda che la lesione sia stata o meno prodotta nell’ambito del settore dell’infortunistica stradale e, specificando i vari indici di riferimento, a prescindere dallo scaglione-base43 relativo all’entità del pregiudizio arrecato all’integrità psicofisica del soggetto leso. Probabilmente solo in tal modo si potrebbe addivenire alla costituzione di un criterio davvero unico, onnicomprensivo e proporzionato, quel minimo comune denominatore, volto a stabilire con sufficiente grado di certezza ed elevata specificità quale può essere considerabile oggi44 il prezzo oggettivo del danno alla persona, da liquidarsi nel caso di specie, secondo modulazioni soggettive. Cosicché si eviterebbe l’ulteriore distorsione dei parametri45 che il criterio dell’equità impone applicare, qualora vengano scongiurati differenti trattamenti sanzionatori a seconda che il pregiudizio sofferto si sia verificato nel settore della circolazione stradale ovvero in altri e differenti ambiti. Infatti, esemplificando, dalla frattura ad un arto si ritiene verosimile che conseguano le medesime46 sofferenze, cure, preoccupazioni e spese sia che la stessa avvenga in conseguenza di un incidente stradale che a seguito di un infortunio sul lavoro47.

Sulla base di tale semplice considerazione è stato coerentemente sostenuto48 che, una volta constatata la necessità di misurare l’adeguatezza del risarcimento attraverso il confronto con le sole tabelle milanesi sarebbe necessario domandarsi quale livello di compatibilità costituzionale possieda tale disciplina normativa in particolare, in materia di sinistri stradali. Infatti il confronto tra le “tabelle milanesi” (ex art. 138 CDA) e le “tabelle assicurative” (ex art. 139 CDA) andrebbe attuato tenendo ben presente la diversità strutturale intercorrente tra il primo ed il secondo sistema, secondo cui quello ambrosiano avrebbe una valenza onnicomprensiva, dunque meno restrittiva.

Pertanto l’unico termine di riferimento cui rapportare la quantificazione ricavabile dalla tabella assicurativa, al fine di poter valutare se il criterio dell’equità venga in tutto o in parte soddisfatto, sarà rappresentato esclusivamente dai valori del punto, contenuti nella tabella milanese, depurati dell’incremento percentuale relativo alla componente morale del pregiudizio. In ogni caso sembra evidente che, ad oggi, pur in presenza di tale correttivo49, continui a registrarsi una marcata differenziazione nella valutazione del danno a sfavore delle vittime dei sinistri stradali50 ed a favore di tutti gli altri.

La più ridotta quantificazione del punto, relativa alla valutazione del danno biologico derivante da lesioni di lieve entità (art. 139 CDA) ha trovato una propria giustificazione, fin dalla emanazione della norma, sulla base di considerazioni non univoche: da un lato vi è stato chi ha messo in evidenza la scarsa incidenza delle lesioni c.d. micropermanenti nella generale qualità della vita del danneggiato, dall’altro, invece, sono stati richiamati gli effetti positivi che tale disciplina avrebbe avuto senz’altro a favore delle compagnie assicurative, le quali conseguentemente, avrebbero potuto godere di maggiori risorse economiche per far fronte alle c.d. macrolesioni (di cui all’art. 138 CDA). Quest’ultima argomentazione è senz’altro criticabile. Infatti, deve essere sottolineato che, statisticamente, risulta accertato che la maggior parte dei risarcimenti per danni alla persona, gravanti sulle compagnie assicurative, deriva senz’altro da lesioni di tipo micropermanente e, pertanto, la disciplina in parola sembra aver anzitutto sortito l’effetto di evitare ingenti esborsi da parte delle società assicurative nei confronti dei soggetti assicurati. Appare chiaro allora che la scelta del contenimento del quatum risarcitorio derivante da lesioni di tipo micropermanente avrebbe prodotto una ulteriore disparità di trattamento, difficilmente giustificabile, se non attraverso l’operazione economica accennata. Infatti, la ridotta quantificazione dei valori contenuti negli indici tabellari potrebbe essere giustificata probabilmente solo in ragione delle specifiche caratteristiche contenute nella disciplina della responsabilità per la circolazione dei veicoli, nel cui settore vige, come è noto da tempo, l’obbligatorietà della copertura assicurativa del veicolo, tuttavia anche in tal caso permangono dubbi e perplessità51. Sarebbe opportuno interrogarsi sulla ragionevolezza52 di un principio che vede di fatto complessivamente ridimensionate le entità risarcitorie a favore delle vittime da sinistri stradali a fronte della esigenza (che qui si presume) di salvaguardare gli interessi del sistema assicurativo obbligatorio, in virtù del più generale53 interesse pubblico alla stabilizzazione del relativo mercato54.

Nel quadro di una complessiva ed auspicata prospettiva di armonizzazione tra il sistema assicurativo obbligatorio (r.c. auto) e la disciplina generale della responsabilità aquiliana dovrebbe essere posto altresì il problema della valutazione del danno alla persona provocato da sinistri stradali in relazione agli indici tabellari i quali, in tale settore, ci si ripete, sono stati emanati a livello normativo. Le principali differenziazioni emergenti riguarderebbero il fatto secondo cui, le tabelle normative sarebbero l’espressione solo di una fase di un processo evolutivo oramai del tutto superato, in quanto, in estrema sintesi: si riferiscono ad una sistemazione concettuale del risarcimento del danno alla persona fondata sulla distinzione delle varie componenti del danno non patrimoniale, prevedono sul piano della quantificazione, un senz’altro non trascurabile scostamento rispetto ai valori applicati dalle tabelle milanesi nella loro citata veste di indicatori dei valori da prendere come modello (salvo eccezioni motivate), espressivo del criterio dell’equità, ed infine, individuano dei limiti invalicabili alla discrezionalità propria dell’organo giudicante, poichè solo entro tale ambito questi può operare, rappresentati dal tetto massimo del venti percento per le micropermanenti e del trenta percento per le invalidità superiorii.

In particolare, proprio in relazione a tali questioni, di recente, alcune corti di merito hanno sollevato dubbi e perplessità, contenute in alcune ordinanze di rimessione, rispettivamente del Giudice di Pace di Torino55, del Tribunale di Tivoli56 e del Tribunale di Brindisi57, con le quali è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 CDA. La questione sollevata, verte sulla presunta illegittimità del trattamento risarcitorio inferiore riservato alle vittime di microinvalidità provocate da sinistri stradali, alla luce della comparazione con il trattamento risarcitorio previsto per le vittime di analoghe lesioni mediante l’applicazione degli indici ambrosiani58.

In particolare, la citata ordinanza torinese è fondata, evidenziandone i profili, sulla netta sproporzione tra il metro di valutazione emergente ex lege e quello derivante dalle tabelle giurisprudenziali emanate con la pronuncia in esame. Conseguentemente, sul punto il giudice a quo ha ravvisato anzitutto la violazione dell’art. 2 Cost. in virtù di una presunta illegittima limitazione risarcitoria attuata in assenza di un adeguato contemperamento degli interessi presenti, tutti espressivi di posizioni giuridiche soggettive costituzionalmente garantite, valutate in subordine ad interessi economici di soggetti privati, in particolare, delle compagnie assicurative, come in precedenza accennato. Tale differenza di trattamento, di cui si sono dolute le vittime del danno alla persona, a seconda dell’eziologia e della natura del pregiudizio subito, è stata inoltre considerata come una disciplina in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in particolare sotto due profili. Da un lato, al Giudice remittente non è apparso accettabile che, in caso di identico pregiudizio, ad un diritto costituzionalmente garantito quale è quello alla salute, vengano comminati differenti risarcimenti. Dall’altro, è stata criticata la possibilità di applicazione, ai fini della quantificazione e liquidazione del risarcimento, di un precostituito tetto massimo di discrezionalità dell’organo giudicante entro il quale verrebbe fatta rientrare, limitandola, sia la personalizzazione del pregiudizio subito che il risarcimento derivante, a titolo di danno biologico e morale.

Il più volte menzionato vuoto normativo, rappresentato dalla mancata attuazione normativa di una disciplina organica relativa al risarcimento del danno biologico per lesioni di non lieve entità, di cui all’ art. 138 CDA59, ha portato alcune Corti a domandarsi se, a contrario, i criteri normativi stabiliti per il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, di cui all’139 CDA e le relative tabelle attuative, possano essere validamente utilizzati, mediante applicazione analogica, anche al di fuori dell’ambito della r.c. auto, come per esempio nel vasto campo della responsabilità per colpa medica, con identica funzione di parametro generale di risarcimento del danno alla persona in caso di lesioni di lieve entità60. Sul punto si è espresso recentemente il Tribunale di Piacenza61, richiamando esplicitamente le considerazioni emergenti da Cass.Civ. n. 12408/2011 e n. 14402/2011. Questo, ha escluso a priori tale prospettiva ribadendo le conclusioni già esplicitate dalla S.C. e qui precedentemente riportate62.

Tale conclusione, criticata in particolare dalla citata Ordinanza del Giudice di Pace di Torino, in quanto ha ritenuto iniqua63ogni forma di analogia tra le differenti discipline, sembrerebbe anacronistica alla luce di quanto previsto con il recente Decreto Balduzzi64, il quale al comma terzo dell’art. 3, prevede espressamente che “il danno biologico conseguente all'attività dell'esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tenere conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all'attività di cui al presente articolo.

Ciò significa che per la liquidazione del danno derivante da lesioni all’integrità psicofisica non superiori ai nove punti percentuali il Giudice dovrà necessariamente prendere come modello di riferimento l’art. 139 CDA piuttosto che le tabelle di derivazione giurisprudenziale, come quelle adottate dal Tribunale di Milano: probabilmente tale scelta trova la propria giustificazione in ragione della volontà del legislatore di imprimere, una tanto ambita, coerenza al sistema normativo nell’ambito della liquidazione dei danni non patrimoniali conseguenti sia alla circolazione stradale che ad illeciti civili65. Tuttavia sembra che tali intenzioni di coerenza normativa, tanto ricercate dal legislatore, vengano tradite ancora una volta, per sua espressa previsione, nel momento stesso in cui viene stabilito che anche per il risarcimento di lesioni di non lieve entità, di cui all’art. 138 CDA, si applichi la tabella legislativa “unica nazionale”, proprio quella stessa tabella che ad oggi non risulta essere ancora regolamentata66.

Dunque alla luce di tale palese contraddizione, l’illogicità del provvedimento si manifesterebbe proprio nello stabilire che per la quantificazione e liquidazione delle lesioni macropermanenti (art. 138 CDA) derivanti da trattamento sanitario, è necessario fare ricorso alle tabelle elaborate dagli uffici giudiziari (ovverosia in tal caso dopo la pronuncia in parola, quelle di Milano, e, secondo la consacrazione della Cassazione, proprio quelle emanate in presenza di un vuoto normativo) mentre per le medesime lesioni ma di tipo micropermanente (art. 139 CDA), ai relativi criteri normativi. Inoltre, questa contraddizione di fondo tradirebbe anche quello che sarebbe l’altro obiettivo perseguito dal decreto in parola, ovverosia quello di calmierare i risarcimenti liquidati nelle ipotesi di responsabilità per colpa medica. Infatti sembrano inevitabili le implicazioni contenute nella citata previsione (art. 3), secondo cui conseguirebbe, da un lato una generale diminuzione degli importi risarcibili per le lesioni di lieve entità, le quali, anche in tale materia rappresentano statisticamente il novanta percento dei casi, nonostante il correttivo della personalizzazione del danno entro il limite del venti percento67. Tale diminuzione riguarderebbe solo ed esclusivamente queste ultime poichè anche in tal caso, la liquidazione per le lesioni di non lieve entità verrebbe quantificata in relazione alle tabelle giurisprudenziali e pertanto mediante indici valutativi dall’importo notevolmente superiore, con conseguente differenziazione di trattamento risarcitorio.

In conclusione sembrerebbe che la disciplina derivante dall’applicazione delle tabelle milanesi, pur in presenza dei citati numerosi dubbi interpretativi emergenti da parte degli studiosi del settore e della giurisprudenza (anche di poco) successiva, in particolare in relazione alla loro specifica armonizzazione con l’intero sistema risarcitorio del danno alla persona, può essere considerabile come un valido strumento operativo idoneo ad assicurare, mediante l’applicazione omogenea di indici di quantificazione del danno non patrimoniale, un senz’altro ambito valore di uniformità pecuniaria di base, quale (auspicabile) univoco68 presupposto per ogni specifico procedimento di liquidazione e personalizzazione del danno.

Sarà pertanto, in tale prospettiva, compito del giudice, sulla base di una uniforme misura di valutazione ed in forza del proprio potere di discrezionalità, più o meno ampio, in quanto, più o meno adeguatamente motivato69, effettuare l’ultima di una serie di valutazioni che porterà a stabilire una congrua, in quanto equa, quantificazione e liquidazione del danno sofferto.

Non dovrebbe essere, a questo punto, di grande importanza se il risultato ottenibile sarà il frutto di una precisa scelta normativa ovvero di un orientamento giurisprudenziale costituito ad hoc, bensì dovrebbe essere questione fondamentale, in particolare da parte del legislatore, il domandarsi se la disciplina in parola possa o meno essere considerabile come uniformemente concepita ed indiscriminatamente applicata all’interno dell’ordinamento giuridico, in ossequio anzitutto sia ai citati principi costituzionali alla stessa direttamente riferibili nella sua componente teorica, che al criterio dell’equità, stella polare dell’intera dimensione pratica di applicazione del diritto70.

 

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  • Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, pgg.41 e ss
  • B.Grazzini, L’armonizzazione della valutazione equitativa del danno alla persona, in Diritto e Processo 2011, pgg. 928 e ss
  • P.Ziviz, La commisurazione del danno non patrimoniale tra tabelle giurisprudenziali e normative, in Resp.Civ. e Prev., IV, 2012, pgg.1075 e ss
  • M.F.Vita Della Corte, I danni non patrimoniali da inadempimento del sanitario: spunti di riflessione sui criteri di liquidazione, in Resp.Civ. e Prev. 2013, I, pgg. 248 e ss
  • Partisani, La nuova responsabilità sanitaria, dopo il decreto Balduzzi, in Resp.Civ. e Prev. 2013,I, pgg. 350 e ss
  • R. Calvo, L’equità nel diritto privato, 2010, Giuffrè, Milano, pg. 2
  • -L. De Vita, Cassazione Civile 2009, Edizioni Cierre, 2009, pgg. 120 e ss
  • AA.VV., Giurisprudenza civile 2008, Giuffrè, 2008, pgg. 633 e ss
  • G. Boccone, Tabelle del Tribunale di Milano unico riferimento nazionale?, in La Resp.Civ., 2011, pgg. 821 e ss
  • M. Hazan, L’equa riparazione del danno, in Danno e Resp., 10, 2011, pgg. 946 e ss.

1 Del 25 febbraio 2011, depositata in cancelleria il 7 giugno del medesimo anno.

2 Sembrerebbe a causa dell’inerzia del legislatore. Sul punto più avanti.

3 Equità di tipo valutativo, come più avanti si avrà modo di specificare. Si sottolinea che l’art. 1226 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c., stabilisce che “se il danno non può essere provato nel preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa.” Secondo autorevole dottrina (Bianca), si tratta della possibilità riconosciuta dall’ordinamento giuridico nei confronti del giudice di effettuare un prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno, pertanto di “un giudizio di mediazione tra le probabilità positive e negative del danno effettivo.” Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale relativo a questioni di natura processuale, “la liquidazione equitativa rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 1226 c.c. e può essere esercitata anche in assenza di richiesta di una o di entrambe le parti”; Cass.Civ. n. 315/2002. In relazione alla liquidazione del danno biologico, è stato sostenuto che per ogni caso in cui il risarcimento non reintegri una diminuzione patrimoniale ma compensi un pregiudizio di natura non economica, l’unica forma di liquidazione possibile risulta essere quella di tipo equitativo. Il problema diventa immediatamente quello della adeguatezza ed uniformità del relativo giudizio. In mancanza di specifiche indicazioni normative sono stati elaborati, nel corso degli anni, molteplici criteri di quantificazione, i pricipali dei quali, di seguito riportati: il criterio equitativo puro (valutazione totalmente discrezionale da parte del giudice in assenza di qualsiasi parametro di riferimento, astrattamente possibile, purchè congruamente motivato ex Cass.Civ. n.5910/2001); il criterio del reddito medio nazionale (facendo riferimento al reddito medio nazionale, l’ultimo ufficialmente noto al momento in cui si deve operare la liquidazione e considerare la menomazione, se permanente, come influente negativamente sull’ammontare di una rendita vitalizia le cui singole annualità sarebbero pari al reddito medio nazionale in questione; Trib.Genova, 25.11.1974 GI, 1975, I, 2, 74); il metodo “pisano” del calcolo a punto (secondo il quale, ferma l’esigenza di mantenere una doverosa parità di trattamento attraverso un parametro obiettivo ed uguale per tutti [...] esso appare difficilmente conciliabile, pertanto, [...] si richiede un apprezzamento diversificato dei vari casi concreti in relazione alla incidenza della lesione sugli interessi e le attività in cui il danneggiato ha estrinsecato la propria personalità compromessa, quindi necessariamente dei correttivi equitativi applicabili dal giudice caso per caso, mediante un criterio-base rappresentato dalla media della casistica giurisprudenziale relativa alle piccole invalidità, con la possibilità di un aumento fino al 50%, quale correttivo equitativo, Trib.Pisa, 16.1.1985, RGCT, 1985, pg.543, confermato da successiva Cass.Civ. 13.4.1995 n.4255); la c.d. T.I.N., Tabella Indicativa Nazionale, elaborata dal CNR, il Consiglio nazionale delle Ricerche alla fine degli anni novanta del secolo scorso, basata sul criterio del punto variabile. I valori monetari di base sono quelli emergenti dalla giurisprudenza nazionale ed il valore “a punto” è inversamente proporzionale con l’età del soggetto. Il valore monetario del punto cresce con l’aumentare dei postumi permanenti ed il giudice ha la facoltà, con congrua motivazione, di aumentare o diminuire entro la forbice di 1/3, i valori così ottenuti. Tale metodo non ha avuto un apprezzabile seguito nelle corti di merito. Altri metodi, quali il “metodo a punto”, quest’ultimo ricavato dalla media delle precedenti decisioni in materia, quello del “limite massimo e minimo” prestabiliti per la personalizzazione del risarcimento. Sul punto, Sella, Polisi, Negro, Infortunistica nella circolazione stradale, nel lavoro, nello sport, CEDAM, 2008, pgg. 1226 e ss.

4 Il danno biologico è un tipo di danno non patrimoniale (rectius, ad oggi sinteticamente qualificabile come una categoria descrittiva appartenente all’ unitario istituto del danno non patrimoniale relativo alla lesione di diritti della persona costituzionalmente tutelati) ovverosia non è suscettibile di immediata valutazione economica, in quanto il bene leso non è rappresentato da un patrimonio ma dalla salute fisica o psichica della vittima di un fatto illecito. Non essendo possibile riportare il soggetto leso nelle esatte condizioni di salute antecedenti il verificarsi dell’evento dannoso, è inevitabilmente rimessa al giudice la determinazione di una somma con la quale il danneggiato potrà “compensare” il danno subito. Nel corso degli anni i Tribunali di tutto il Paese hanno tentato di trovare un metodo di uniforme liquidazione, in assenza di una normativa ad hoc. Un principio generale da seguire nella ricerca di tale metodo di liquidazione del danno biologico è stato indicato dalla Corte Costituzionale con la storica sentenza n. 184 del 17 luglio 1986 (relativa alla causa Repetto c. ATM Genova). In tale caso la Consulta dovette pronunciarsi, con sentenza interpretativa di rigetto, sulla presunta incostituzionalità dell’art. 2059 c.c. nella parte in cui non prevedeva il risarcimento del danno alla salute indipendentemente dall’esistenza di fatti di reato accertabili dal giudice civile. La Consulta ha definitivamente chiarito che nella liquidazione del danno è necessaria una uniformità pecuniaria di base, ovverosia la medesima lesione “statica” deve essere valutata, a parità di prospettive di vita, in modo eguale, ed una elasticità e flessibilità al fine di adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione sulle attività della vita quotidiana del soggetto leso. La definizione normativa del danno biologico è oggi contenuta nell’ art. 139,2° CDA, secondo cui questo è rappresentato dalla “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato.” La sentenza in esame in punto 3.2.3., condividendo la summenzionata impostazione, ha esplicitamente sostenuto che “nella liquidazione del danno biologico il giudice del merito deve innanzitutto individuare un parametro uniforme per tutti, e poi adattare quantitativamente o qualitativamente tale parametro alle circostanze del caso concreto”, determinando in definitiva un criterio di valutazione fondato sulla compresenza dei criteri di uniformità e flessibilità.

5 La distinzione tra danno biologico di lieve e di non lieve entità cui i giudici di legittimità hanno fatto riferimento è resa rispettivamente dagli art. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni private di cui al D.lgs 7/9/2005 n. 209. In particolare, secondo quanto evidenziato dagli stessi giudici nella sentenza in esame, tali norme “dettano criteri per la liquidazione del danno biologico per lesioni da sinistri stradali di non lieve e di lieve entità, queste ultime concernenti i postumi pari o inferiori al 9% della complessiva validità dell’individuo, e [...] mentre l’art. 139 ha ricevuto attuazione ed è stato, talora, analogicamente applicato alle lesioni derivate anche da cause diverse dalla circolazione stradale, non è stata per contro mai emanata la pur prevista specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubblica, che avrebbe dovuto indicare (ex art.138,1° CDA) sia le menomazioni all’integrità psicofisica comprese tra 10 e 100 punti che il valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità, comprensiva dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso.”

6 Relativo alla disciplina contenuta negli artt. 138 e 139 del CDA, in parte analogicamente applicato anche oltre tale limitato ambito, alle lesioni derivanti da infortuni sul lavoro.

7 Così Giorgio Bolego, in “La liquidazione del danno non patrimoniale: oscillazioni tra equità e tabelle milanesi”, in R.I.D.L., 2011, fasc. 4 pagg. 1060 e ss., il quale, richiamando un datato studio di L.Montuschi, “Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro”, RIDL, 1994, I, pg. 332, riporta alcune riflessioni in merito, secondo cui “com’è stato rilevato più di dieci anni fa le contraddizioni latenti in tema di danno alla persona finiscono per esplodere sul terreno della quantificazione del danno, poiché una volta superate le difficoltà concettuali relative all’an, l’interprete si ritrova al punto di partenza nel momento in cui cerca di individuare parametri idonei ad attribuire un valore economico unitario ai diritti della persona, giacchè tali metri non esistono in rerum natura.” Si sottolinea infine che l’esplicito riferimento alla disciplina giuslavoristica deriva dalla questione circa l’eventuale applicazione analogica dell’art. 139 CDA alle lesioni derivanti da infortuni sul lavoro, in quanto tale disposizione, a differenza dell’art. 138 CDA si ribadisce, ha ricevuto attuazione da parte del legislatore ed è relativa alla regolamentazione dei criteri per la liquidazione del danno biologico da lesioni di lieve entità (c.d. micropermanenti, comprese tra l’1 ed 9% di invalidità permanente).

8 Al fine di tentare di circoscrivere le argomentazioni seguenti, tuttavia, ponendo in secondo piano il contenuto relativo al procedimento penale (ex 444 c.p.p.) ed al primo dei due principi di diritto stabiliti, in quanto risultano essere marginalmente rilevanti ai fini del presente discorso.

9 Quest’ultima da intendersi genericamente come la “somma delle ripercussioni relazionali di segno negativo”, secondo quanto sostenuto dal Cendon, così come riportato da P.G.Monateri, ibidem, 258. Lo stesso sottolinea che ai fini della quantificazione del danno di tipo esistenziale occorre fare riferimento “al criterio equitativo ed in questo caso l’equità sarà concretizzata dal riferimento alla vita relazionale del soggetto così come si presentava prima e come si concretizza dopo la lesione.”

10 Si tratterebbe di un netto divario di valutazione quantificabile in circa duecentocinquanta milioni di lire rispetto a quanto sarebbe risultato facendo applicazione delle Tabelle Milanesi, secondo quanto letteralmente sostenuto da F.R. Fantetti in “Equità valutativa delle tabelle milanesi e personalizzazione del ristoro del danno esistenziale”, in La Responsabilità Civile, 2011, fasc. 10, pgg. 646 e ss.

11 Il danno di natura esistenziale, da sempre appartenuto (in quanto species) alla generale categoria del danno non patrimoniale ex art.2059 c.c. (in quanto genus), ha subito durante gli ultimi dieci anni, numerose ed incisive interpretazioni da parte della giurisprudenza di legittimità, in seno alla ridefinizione del c.d. “nuovo sistema del danno non patrimoniale”. Si sottolinea che la locuzione “danno non patrimoniale” non sarebbe autoctona ma deriverebbe dal sintagma tedesco Nicht Vermoegen Schaden. Infatti nello stesso BGB è presente il par. 253 secondo cui “per un danno che non è un danno patrimoniale, può pretendersi risarcimento in danaro solo nei casi determinati dalla legge. Tuttavia dispone espressamente il par. 847 che “nel caso di lesione del corpo o alla salute, come pure nel caso di privazione della libertà, l’offeso può pretendere un equo risarcimento in danaro anche per il danno che non è patrimoniale.” Pertanto, secondo quanto sostenuto in proposito da P.G. Monateri, La responsabilità civile, 2009, UTET, pg. 251, “l’ordinamento legislativo tedesco, pur contenendo una limitazione in tutto simile all’art. 2059 c.c., si dimostra assai più duttile di quello italiano.”

12 Ciò sulla base di un giudizio prognostico avente per oggetto le documentate capacità di reddito del ricorrente e la relativa possibilità di guadagno medio ottenibile da un soggetto della medesima età occupante la medesima posizione lavorativa. Si sottolinea che, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, il danno da riduzione della capacità reddittuale del soggetto leso deve essere calcolato autonomamente come singola voce a titolo di danno di natura patrimoniale da lucro cessante.

13 Tra i molteplici problemi che pone all’interprete il ristoro del danno non patrimoniale, questione di fondamentale importanza, vi è quella legata alla conversione in danaro di un simile pregiudizio, quale momento imprescindibile ai fini di una protezione di carattere risarcitorio: nodo, questo, assai controverso al punto da essere in passato da più parti rappresentato quale principale ostacolo all’attivazione della tutela aquiliana. La progressiva marcia che ha visto in questi anni la giurisprudenza procedere attraverso l’individuazione, al riguardo, di indicazioni sempre più articolate e precise, ha segnato i traguardi più significativi in materia di danno non patrimoniale derivante da lesione alla salute, ove è venuta affermandosi la tecnica tabellare. Chindemi, Tecniche di liquidazione del danno non patrimoniale: equità e tabelle, in Resp.Civ. e Prev.,IV, 2011, pg. 201.

14 Si riporta il testo della sentenza in esame: [...] l’accertamento in concreto della colpa di uno dei conducenti non comporta di per sè il superamento della presunzione di colpa concorrente del’altro e, non può essere inteso nel senso che, anche quando questa prova non sia in concreto possibile e sia positivamente accertata la responsabilità di uno dei conducenti per avere tenuto una condotta in sè del tutto idonea a cagionare l’evento, l’apporto causale colposo dell’altro conducente debba essere, comunque in qualche misura riconosciuto.”

15 Come espressamente sostenuto dagli stessi giudici di legittimità. In tal modo verrebbe ammessa, e tollerata, la presenza di valutazioni differenti a seconda dell’ubicazione dell’organo giudicante, incentivando vere e proprie forme di “forum shopping”, secondo quanto sostenuto da G.Bolego, ibidem.

16 Con la stessa sentenza i giudici di legittimità sostengono che sia necessario “un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona, quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia.”

17 In virtù della propria funzione nomofilattica di cui all’ art. 65 R.D. 30 gennaio 1942 n.12.

18 E’ stato in proposito autorevolmente affermato che “è un dato acquisito che il diritto non si identifichi più con la legge: che ius e lex descrivano ambiti differenti”, G. Zagrebelsky, Il giudice delle leggi artefice del diritto, Jovene, 2007, pg.21. Sul punto, si riportano alcune considerazioni di M.Franzoni, Tabelle nazionali per sentenza o no?, in Corriere Giuridico 2001.8, pg.1085 e ss., secondo cui, ius è sempre più il risultato di una attività nella quale l’interprete concorre ad individuare la norma, non soltanto individuandone la fonte. Ma soprattutto è acquisito l’assunto secondo il quale la nostra età e sempre più di iurisdictio e non di legislatio, sicchè il ruolo dell’interprete è decisivo nel ricostruire quella ratio legis che si allontana sempre più da un preciso e chiaro testo scritto, semplicemente da declinare con un sillogismo. Corrispondentemente il diritto vigente diviene sinonimo di quel diritto vivente la cui qualità lo rende sempre più prossimo alla speculazione e sempre meno traduzione dei segni della lingua. In questo processo ci siamo abituati all’idea che la norma fondamentale impone una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme ordinarie che da questa lettura non può uscire una ratio legis differente dell’originario testo.

19 Cass.Civ. sez. III, 7 giugno 2011 n. 12408, punto 3.2.1.

20 Nella manualistica odierna il concetto di nazionalizzazione delle tabelle ambrosiane viene sintetizzato riportando che, “la S.C. ha ritenuto di poter indicare:

-a) che, i criteri legali di quantificazione del danno non patrimoniale da c.d. micropermanenti dettati dall’art. 139 del D.lgs 209/2005 trovano applicazione solo se queste ultime sono derivate da sinistri stradali (fatta salva l’eventuale applicazione analogica);

-b) che, in tutte le altre ipotesi, il danno non patrimoniale conseguente a lesioni all’integrità psico-fisica della persona deve liquidarsi, perchè la relativa quantificazione possa ritenersi equa, facendo applicazione, in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l’entità, dei criteri indicati nella tabella per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica, approvata il 25 giugno 2009 dall’Osservatorio sulla giustizia civile Tribunale di Milano e già spontaneamente adottata da una sessantina di Tribunali.” Così secondo quanto riportato da Torrente-Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, 2012, Giuffrè, pg. 901.

21 Il danno non patrimoniale non troverebbe criteri obiettivi di valutazione economica, pertanto, sarebbe opportuno parlare di “riparazione”, G.Bonilini, Danno morale, DDP Civ., V, pg.87.

22 In particolare, secondo Corrado, De Pascale, Valanga milanese nell’adozione dei prospetti ma Roma approva un restyling sulla sofferenza, G.Dir, 2011, IV, pg. 7, sarebbero esattamente 99 su 167 le sedi territoriali che utilizzano le tabelle ambrosiane come parametro di valutazione per i danni alla persona.

23 Cass.Civ. 14208/11, in punto 3.2.5.

24 La sentenza in commento si riferisce all’aggiornamento degli indici tabellari avvenuto nel 2011. Gli stessi, si sottolinea, sono stati da ultimo recentemente riaggiornati da parte dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, in data 20 marzo 2013 seguendo il criterio degli indici ISTAT, già precedentemente utilizzato.

25 Cass.Sez.Un. n. 26972 e 26973, 26974, 26975/08. Queste, ridefinendo l’intera categoria civilistica del danno di natura non patrimoniale ex art. 2059 c.c., hanno quasi del tutto cancellato la categoria del danno esistenziale, così come definito dalle stesse Sez.Un. Civ. con sent. n. 6572/2006, considerandola come “duplicazione del danno biologico e del danno morale”, senza certamente escludere il risarcimento di danni cagionati ad interessi costituzionalmente rilevanti. Infatti si legge nella storica massima che “Il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. Non può, dunque, farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale” perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità. Il pregiudizio non patrimoniale è risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno [...].” Si sottolinea che nella pronuncia in esame, in punto 3.1, il secondo motivo di ricorso contiene la doglianza, in punto b, secondo cui “nulla sia stato riconosciuto per danno esistenziale.” La stessa Corte, richiamando la citata statuizione, ha perciò ritenuto infondato tale motivo, argomentando che “il danno di natura esistenziale non può essere riconosciuto quale autonoma voce di danno.

26 Tuttavia evitando “duplicazioni del risarcimento del danno” qualora venissero calcolati congiuntamente il danno biologico ed il danno esistenziale come singole ed autonome voci.

27 Cass.Civ. 14208/11, par. 3.2.1.

28 Infatti, come gli stessi giudici di legittimità hanno sostenuto, in assenza di un parametro unitario di valutazione uniforme (calibrato al caso concreto) si determinerebbero inique differenziazioni nella liquidazione dei danni del tipo in esame. Pertanto, “tale fenomenologia, incidendo sui fondamentali diritti della persona, vulnera elementari prncipi di eguaglianza, mina la fiducia dei cittadini nell'amministrazione della giustizia, lede la certezza del diritto, affida in larga misura al caso l’entità dell'aspettativa risarcitoria, ostacola le conciliazioni e le composizioni transattive in sede stragiudiziale, alimenta per converso le liti, non di rado fomentando domande pretestuose (anche in seguito a scelte mirate: cosiddetto "forum shopping") o resistenze strumentali.”

29 Cass.Civ. sez.III, 7/6/2011 n. 14208 in punto 3.2.2.

30 Il quale rappresenterebbe la misura del quantum risarcibile a titolo di danno biologico, suscettibile di valutazione medico-legale e direttamente riferibile agli indici contenuti nelle summenzionate tabelle ambrosiane. E’ espressione della regola di “parità di trattamento”, consentendo di ristabilire un equilibrio turbato, ovverosia quanto possibile lo status quo ante l’evento che ha determinato il danno.

31 Il quale rappresenterebbe la misura del quantum risarcibile a titolo di danno esistenziale, calibrato in relazione al caso di specie (con adeguata motivazione) e ricompreso nel danno biologico, secondo i citati recenti orientamenti giurisprudenziali. E’ espressione della regola “del caso concreto”, volta a garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, evitando che casi uguali non vengano trattati in modo differente e casi differenti in modo eguale.

32 Gli stessi giudici di legittimità, in punto 3.2.2., sostengono esplicitamente che così intesa l’equità “costituisce strumento di eguaglianza, attuativo del precetto di cui all’art. 3 Cost., perchè consente di trattare casi dissimili in modo dissimile ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o disciplina.”

33 Il concetto stesso di equità, non è ontologicamente riferibile a posizioni estreme. Infatti iniziando una breve indagine a partire da un punto di vista etimologico del termine, può sostenersi che questo è riferibile all’originaria espressione latina, aequitas (atis, f.) dalla quale derivano le corrispondenti aggettivazioni ed avverbi aeque (avv.), aequor (oris,n.), aequus (a,um), aequum ( i,n.), aequabilis ( e ), aequabiliter (avv.), aequaliter (avv.). Si rileva che, è presente la stessa radice in aequor, aequalis, aequare: evocazione dell’ immagine di un piano perfettamente orizzontale dunque, non pendente da nessuna parte, linearmente stabilito. La derivazione greca ειχόϛ (eikòs) indica il simile, il simile al vero, al giusto, quindi anche ciò che è naturale, conveniente, anche come ειχοη (eikòn), immagine, similitudine, dal sanscrito Ekà, che più su un piano logico tende ad esprimere il significato di una sola cosa, in senso materiale, della singola unità. Si tratta di una nozione originariamente di tipo fisico, empirica, dalla quale deriva direttamente una implicita ed agevole traslazione concettuale della stessa su di un piano puramente teorico, giuridico, rappresentante l’idea di “uguaglianza di trattamento pari in causa pari, di contemperamento tra opposte esigenze o di un equilibrio tra opposti interessi.” E’ stato ipotizzato in proposito che se da un lato sembrerebbe porre in luce un ideale fondamento del diritto, dall’altro potrebbe anche giustificare l’antitesi aequitas-ius ogni qualvolta la norma giuridica non sembri confacente ad un parametro di giustizia in senso etico. Tuttavia ciò non varrebbe, qualora lo stesso termine venga utilizzato nelle fonti, per offrire un appiglio alla disapplicazione della norma, in virtù di opportunità o convenienza materiale al fine di ottenere un indebolimento, una mitigazione del rigor iuris . Tali termini, tutti derivanti dal comune nucleo etimologico evidenziato, esprimendo una nozione di commisurazione e di corrispondenza empirica, potrebbero agevolmente trasferirsi dalla sfera della realtà fisica a quelle della morale, dell’etica e del diritto ove, anche se varrebbero a qualificare atti e fatti da tali altre più astratte prospettive, tuttavia, gli stessi non perderebbero mai il loro significato originario di corrispondenza, di idoneità, di opportunità, facendo sì che le stesse realtà etiche e giuridiche conservino sempre un tono di spiccata concretezza e praticità. A tal proposito è stato altresì evidenziato che è senz’altro una delle colonne portanti del pensiero giuridico del diritto romano la esaltazione del senso pratico e della conseguente costante aderenza di esso alla realtà concreta: una mentalità questa, volta a considerare atteggiamenti, persone e situazioni giuridiche innanzitutto nella loro immediata corrispondenza con la realtà del caso concreto. Si è anche parlato a proposito, di un processo di idealizzazione del mondo sensibile e di sensibilizzazione del mondo ideale. Tali termini compaiono e corrisponderebbero tutti, fin da allora, con tale pensiero. Inoltre, altre utilizzazioni del termine seguono il medesimo percorso ipotizzato e poc’anzi tracciato: le locuzioni aequum postulare, aequum facere, dicere, censere, putare, existimare, determinano ancora la manifestazione di significati dal connotato eminentemente pratico volti a confrontare, commisurare e certamente rendere agevole empiricamente i rapporti giuridici intercorrenti tra i soggetti, attenuandone le asperità ed i conflitti. Dunque, se da un lato si riscontra che il termine in parola costituirebbe per la mentalità giuridica romana un “valido strumento logico per consentire una costante ed acuta visuale della realtà concreta nella consapevolezza dei problemi pratici ad essa inerenti” , dall’altro, sarebbe anche evidente che lo stesso passerebbe ad indicare su un piano puramente etico, la coerenza, la corrispondenza, di cui ancora oggi possono rinvenirsi tracce nel nostro ordinamento giuridico, tra un’idea di giustizia o meglio, tra una giustizia ideale ed il diritto positivo. Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, Parigi 1959-1960, voce: Aequitas. A.Biscardi, Riflessioni minime sul concetto di aequitas, in Studi in memoria di Donatuti, I, Milano 1973, pg. 138 . Paolo Pinna Parpaglia, Aequitas in libera Respublica, Giuffrè, Milano, 1973, pg.2.

34 Come già indicato, si è parlato in proposito di forum shopping.

35 Infatti, come sostenuto dai giudici di legittimità nella pronuncia in esame, in punto 3.2.2., “equità non vuol dire arbitrio, perchè quest’ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Affermare allora che la liquidazione equitativa è insindacabile a condizione che risulti congruamente motivata equivale ad ammettere che dell’equità possa darsi una giustificazione razionale a posteriori.”

36 In particolare, è stato da tempo autorevolmente affermato che “il diritto della responsabilità civile si presenta come un diritto di schemi e modelli generali che però si combinano tra loro in vario modo, per dar vita ad una famiglia di singole ipotesi diverse e peculiari.” Sulla scia di tale pensiero, che diede luogo ad importanti dibattiti, è stato sinteticamente sostenuto che il problema della responsabilità civile come diritto vivente consiste “nella scelta dei criteri mediante cui un determinato costo sociale viene lasciato in capo alla vittima o traslato dalla vittima in capo ad altri soggetti [...] il diritto della responsabilità civile è un’opera di ingegneria sociale commissionata agli interpreti, come le considerazioni di politica del diritto.” Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, pgg.41 e ss.

37 Ai fini della applicazione dell’art. 138 CDA.

38 Infatti è stato esplicitamente affermato nella sentenza in esame, in punto 3.2.6. che “ l’avere assunto, con operazione di natura sostanzialmente ricognitiva, la tabella milanese a parametro in linea generale attestante la conformità della valutazione equitativa del danno in parola alle disposizioni di cui agli artt.1226 e 2056 c.c. comporterà la ricorribilità in Cassazione per violazione di legge, delle sentenze di Appello che abbiano liquidato il danno in base a differenti tabelle per il solo fatto che non sia stata applicata la tabella di Milano e che la liquidazione sarebbe stata di maggiore entità se fosse stata effettuata sulla base dei valori da quella indicati.”

39 La quale ha interpretato la pronuncia in esame nella parte in cui non è stato previsto che il giudice di merito possa discostarsi dai summenzionati parametri milanesi mediante congrua e specifica motivazione. Si tratta della, di poco successiva, sentenza Cass. Civ. 30/6/2011 n. 14402.

40 A riguardo già alcune antecedenti decisioni, Cass.Civ. 12318/10 e Cass.Civ. 1529/10, sostenevano che “la valutazione equitativa del danno, inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è censurabile in sede di legittimità soltanto se difetti totalmente la giustificazione che sorregge la statuizione, oppure si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria.”

41 42 A sommesso avviso dello scrivente.

43 Più del 10% (art.138 CDA) o meno del 9% (art. 139 CDA) di punti di invalidità permanente.

44 Nonchè in ogni momento se il criterio in parola venisse costantemente adeguato, mediante indicazioni pretorie, in assenza del’intervento del legislatore, al continuo evolversi della società, di pari passo con le relative esigenze. Si è anche parlato in proposito di “carattere autopoietico del sistema.” Infatti, se dovesse prevalere tale tendenza, stabilita nella sentenza in commento (Cass.Civ. 14208/11), vorrà dire che si procederà “verso il modello della sentenza, che senza riserve, diviene a tutti gli effetti fonte del diritto. Al contrario, se vi sarà un ripensamento, come pare esservi stato a distanza di una ventina di giorni (con l’emanazione della successiva Cass.Civ. 144402/11), vorrà dire che questa sentenza dovrà essere intesa alla stessa stregua delle motivazioni di quelle pronunce della Corte Costituzionale nelle quali l’illegittimità della norma ordinaria è rigettata ma l’estensore in qualche modo invia un forte messaggio al legislatore, chiamandolo a legiferare o a non legiferare più in un certo modo. Se prevarrà la prima tendenza, vorrà dire che saremo in presenza di una sorta di riforma passiva del sistema che vede ridisegnato il sistema dele fonti del diritto. Se prevarrà la seconda tendenza, vorrà comunque dire che l’interprete ha guadagnato uno spazio ulteriore in favore di un diritto vivente che si stacca dalla regola della sovranità tradizionalmente intesa.” Così M. Franzoni, Tabelle nazionali per sentenza o no?, in Il Corriere Giuridico, 8/11, pgg. 1085 e ss.

45 Proporzionalità ed adeguatezza, ovvero uniformità e flessibilità, ovvero uguaglianza e razionalità.

Si tratta in ogni caso di un “giano bifronte” il quale, da qualsiasi prospettiva lo si osservi inevitabilmente, alla luce di ogni dato sensibile suscettibile di utile valutazione, non potrà che volgere lo sguardo in un’unica direzione.

46 Da intenersi nell’ambito del discorso intrapreso come un nucleo oggettivo comune di sofferenze a prescindere da altri e differenti danni, come accennato, quantificati secondo altri criteri, di tipo soggettivo, come per esempio la perdita della capacità lavorativa.

47 B.Grazzini, L’armonizzazione della valutazione equitativa del danno alla persona, in Diritto e Processo 2011, pgg. 928 e ss.

48 P.Ziviz, La commisurazione del danno non patrimoniale tra tabelle giurisprudenziali e normative, in Resp.Civ. e Prev., IV, 2012, pgg.1075 e ss.

49 Da considerarsi complessivamente come poco influente in relazione al quantum risarcitorio definitivo.

50 E’ stato sul punto sisteticamente sostenuto che “pertanto la predeterminazione dei criteri di risarcimento fissati dal legislatore negli artt. 138 e 139, d.lgs. n. 209/2005, ed il limite equitativo ivi previsto in misura non superiore al 20% per la c.d. personalizzazione del danno (in base alle condizioni soggettive del danneggiato) determinerebbero un risarcimento del danno alla persona, in caso di illecito civile non stradale, inadeguato e decisamente peggiorativo rispetto ad una quantificazione operata alla stregua delle tabelle giudiziarie.”

51 Formulato in termini del tutto generici, tale principio, al fine di trovare una sufficiente coerenza normativa all’interno dell’ordinamento giuridico, dovrebbe essere esteso a tutti i settori attualmente soggetti alla copertura assicurativa obbligatoria, per esempio, per l’esercizio dell’attività venatoria ovvero, ambito decisamente più importante, per l’esercizio di una attività professionale. Da ciò può desumersi, in termini generali, un evidente impatto restrittivo in ordine alla tutela delle vittime in materia di danni alla persona derivante da un fondamentale settore quale, la responsabilità professionale del medico.

52 Tenendo altresì presente che il principio della ragionevolezza è contenuto anzitutto nell’art. 3,2° Cost. (uguaglianza sostanziale) di cui, il criterio dell’equità rappresenta un suo corollario.

53 E probabilmente non più nobile.

54 Secondo quanto ipotizzato dalla stessa autrice, ibidem, pgg. 1075 e ss.

55 Ordinanza del Giudice di Pace di Torino, 21 ottobre 2011 n. 570.

56 Ordinanza del Tribunale di Tivoli, 21 marzo 2012 n. 1314.

57 Ordinanza del Tribunale di Brindisi, sez. Ostuni, 3 aprile 2012. Lo stesso Tribunale ha altresì rimesso la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione alla presunta incompatibilità della disciplina in parola con le DIR. 72/166/CEE, 84/5/CEE, 90/232/CEE e 2009/103/UE che regolano l’assicurazione obbligatoria in materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli.

58 Esemplificando, nella citata questione sollevata dal tribunale di Tivoli, viene quantificata di valutazione derivante dall’applicazione dei criteri milanesi pari a Euro 12.810,00 a fronte degli Euro 5.414,00 ottenibili dall’applicazione delle tabelle normative.

59 Mediante l’emanazione di specifici indici tabellari e la conseguente prassi giudiziaria di ricorrere alle varie tabelle elaborate negli uffici delle Corti di tutto il Paese, tra le quali anzitutto quelle ambrosiane, da cui il conseguente dibattito giurisprudenziale qui in esame.

60 M.F. Vita Della Corte, I danni non patrimoniali da inadempimento del sanitario: spunti di riflessione sui criteri di liquidazione, in Resp.Civ. e Prev. 2013, I, pgg. 248 e ss.

61 Con sentenza del 06/03/2012, n. 146.

62 Secondo le quali, ribadendo quanto in precedenza indicato, “la liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale alla persona, derivante da lesione all'integrità psico-fisica, presuppone l'individuazione di un parametro di riferimento uniforme che possa essere adottato alle circostanze del caso concreto. [...] Al fine di assicurare l'equità dei risarcimenti, il parametro di valutazione per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione all'integrità psico-fisica è costituito, in assenza di precisi riferimenti normativi, dai valori tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto”. Cass. civ., 7 giugno 2011, n. 12408.

63 Infatti, da un lato, al Giudice remittente non è apparso accettabile che, in caso di identico pregiudizio, ad un diritto costituzionalmente garantito quale è quello alla salute, vengano comminati differenti risarcimenti. Dall’altro, è stata criticata la possibilità di applicazione, ai fini della quantificazione e liquidazione del risarcimento, di un precostituito tetto massimo di discrezionalità dell’organo giudicante entro il quale verrebbe fatta rientrare, limitandola, sia la personalizzazione del pregiudizio subito che il risarcimento derivante, a titolo di danno biologico e morale.

64 Decreto Legge 13 settembre 2012, n. 158, in G.U., n. 214 del 13 settembre 2012, recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute.” Secondo quanto riportato da Partisani, La nuova responsabilità sanitaria, dopo il decreto Balduzzi, in Resp.Civ. e Prev. 2013,I, pgg. 350 e ss. La portata più significativa del Decreto risiederebbe secondo l’autore: a) nell'aver regolamentato la risarcibilità del danno biologico nelle ipotesi di c.d. malpractice medica, escludendo la responsabilità per colpa lieve dei sanitari nel caso di osservanza delle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale; b) nell'aver prescritto i criteri di liquidazione cui devono attenersi i giudici nella quantificazione di suddetto danno quando consegue a prestazioni sanitarie scorrettamente eseguite per lesioni di lieve entità (il punto qui di maggiore interesse).

65 Del tipo conseguenti ad attività illecita dell’esercente una professione sanitaria.

66 Costringendo, probabilmente, ancora una volta la giurisprudenza ad interpretare e colmare tale vuoto legislativo

67 In particolare, è stato evidenziato dallo stesso autore, ibidem, in nota 41, che “la soglia massima del 20% predeterminata per legge induce a sottovalutare nei limiti di quella percentuale le particolari condizioni soggettive del danneggiato che rendono il pregiudizio più gravoso e che, a contrario, vedrebbero una quantificazione maggiore, possibile solo attraverso il correttivo equitativo del giudice.”

68 In quanto tendenzialmente risulterebbe essere un risultato il più oggettivo possibile.

69 Anche in relazione alle allegazioni e richieste prodotte dalle rispettive parti nonché dalle informazioni emergenti dalle eventuali consulenze tecniche.

70 A tal proposito è stato efficacemente sostenuto che poiché “l’equità compenetra il diritto e quest’ultimo senza di essa sarebbe come un corpo che non lascia vibrare l’anima”, essa ha attinenza ontologica con il suo stesso fondamento, teorico e pratico. Roberto Calvo, L’equità nel diritto privato, 2010, Giuffrè, Milano, pg. 2 .