Pubbl. Mer, 4 Mag 2016
Unicità dello status di figlio: i riflessi in materia di successioni
Modifica paginaLa disciplina della filiazione alla luce della riforma n. 219 del 2012 analizzata dal punto di vista del diritto successorio.
La tutela dei figli nati fuori del matrimonio iniziata con la riforma del 1975 si è rivelata parziale e incompleta; pertanto, l’esigenza di riscontrare nel nostro ordinamento un’organica normativa finalizzata ad eliminare ogni residua discriminazione in materia di filiazione ha trovato la sua consacrazione nell’emanazione della legge 10 dicembre 2012, n. 219 rubricata “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”.
Il nuovo articolo 315 c.c. stabilisce che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.
Conseguentemente a tale riforma è venuto meno l’istituto della legittimazione, che attribuiva a colui che è nato fuori dal matrimonio la qualità di figlio legittimo. Inoltre, la sezione II del capo II del titolo VII del libro primo del codice civile dedicata alla legittimazione dei figli naturali è stata abrogata.
L’articolo 2 della legge di riforma ha delegato il Governo ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge (il 1° gennaio 2013), i più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità, per eliminare ogni discriminazione tra i figli.
Il Consiglio dei Ministri, in attuazione dell’articolo 2 della legge delega 10 dicembre 2012, n. 219, ha approvato il 12 luglio 2013 lo schema di decreto legislativo recante la revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione al fine di eliminare ogni residua discriminazione rimasta nel nostro ordinamento tra i figli nati dentro e fuori dal matrimonio, garantendo la completa eguaglianza giuridica degli stessi.
Con il decreto legislativo 154/2013 (in attuazione della delega contenuta all'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) è stata portata a compimento la riforma.
Il decreto legislativo 154/2013 integra le modifiche introdotte al primo libro del codice civile dalla legge n. 219/2012.
Anche se non mancano disposizioni aventi carattere innovativo, nella maggioranza di casi le modifiche apportate dal decreto in esame hanno riguardato aspetti meramente lessicali.
In particolare, sono state sostituite le parole “figlio legittimo” e “figlio naturale” con le parole “figlio nato nel matrimonio” e “figlio nato fuori del matrimonio”.
Sotto un altro punto di vista, è stata ritenuta inadatta all’evoluzione sociale la definizione dei rapporti tra genitori e figli in termini di “potestà genitoriale”, in quanto nel concetto di “potestà” è insito il potere di dirigere l'altrui attività e quindi è ineliminabile, dallo stesso, una connotazione di “subordinazione”.
Diversamente, la locuzione “responsabilità” designa sia una qualità di un soggetto (la capacità di essere in grado e perciò di dover dare risposta a causa dei suoi comportamenti o di un fatto a lui ricollegabile) sia il processo che si sta svolgendo in forza di tale qualità.
Affermando che “i genitori hanno la responsabilità genitoriale” si ribadisce che si è di fronte ad un rapporto assolutamente “paritario” con obblighi prevalentemente a carico dei genitori, come si evince dalla circostanza che a fronte dei tantissimi diritti spettanti al figlio, descritti nei primi tre commi dell'articolo 315-bis c.c., il quarto comma di tale articolo dispone unicamente il dovere, per il figlio, di “rispettare i genitori” e di “contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.
La legge n. 219/2012 ha modificato la disciplina della filiazione sulla base del principio secondo il quale tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico; essa ha disposto la sostituzione, nel codice civile e negli altri testi di legge, delle parole “figli legittimi” e “figli naturali” con il termine “figli”.
Il codice civile del 1942, infatti, contrapponeva in modo netto lo status di figlio legittimo (concepito, quindi, da genitori coniugati) a quello di figlio illegittimo (nato a seguito dell’unione di persone non coniugate).
L’attributo “illegittimo” evidenziava il principio secondo il quale, per essere conforme alla legge, la filiazione presupporrebbe il vincolo matrimoniale tra i genitori. Invero, la pienezza dello status di figlio era attribuita alla sola filiazione legittima, che godeva di ogni tutela.
Anche sul piano successorio la condizione dei figli nati da genitori uniti in matrimonio era assai differenziata rispetto a quella degli altri; ai figli legittimi, infatti, era riservata una quota indisponibile dell’eredità, doppia rispetto a quella prevista per i figli naturali; ed ancor meno tutelata era la sorte dei figli non riconosciuti o non riconoscibili (tra i quali, fino al 1975, rientravano i figli adulterini) in favore dei quali, in origine, erano previsti esclusivamente un obbligo alimentare e un assegno vitalizio in sede successoria.
La riforma del 1975 mutò prospettiva, in quanto, alla filiazione naturale (fu abolita l’espressione illegittima) venne data la stessa dignità di quella legittima attraverso la sostanziale parificazione tra le due categorie di figli e l’abolizione di quei divieti che di fatto impedivano l’accertamento della verità biologica.
Il processo di parificazione dei figli naturali e legittimi è stato poi ulteriormente proseguito dal legislatore del 2006, che nel dettare le norme in tema di affidamento condiviso, ha unificato le regole sostanziali applicabili a seguito della disgregazione della coppia genitoriale.
Anche in esito alla riforma del 1975, la disciplina del rapporto genitori-figli rimase principalmente enunciata all’art. 147 c.c., collocato nel capo quarto (“Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio”) del titolo sesto (“Del matrimonio”).
Essa si applicava ai figli naturali in forza del richiamo operato dall’art. 261 c.c., con riferimento al solo genitore che avesse effettuato il riconoscimento (art. 258 c.c.); cosicché, il profilo di maggiore differenziazione tra filiazione legittima e naturale era quello attinente alla parentela, posto che anche dopo la riforma si è sempre ritenuto che, salvo alcune eccezioni tassativamente previste, le relazioni di parentela presupponessero il vincolo matrimoniale dei genitori.
La legge n. 219/2012 ha inteso realizzare l’unicità dello stato giuridico di filiazione, che assorbe e supera il principio di parità che era stato attuato dalla riforma del 1975. Il titolo della legge, paradossalmente, mantiene quell’espressione “figli naturali” che, al contempo, elimina dall’ordinamento.
Il matrimonio non rappresenta più necessario presupposto per dar vita a relazioni legalmente familiari, che sorgono indipendentemente dalla sussistenza del vincolo, cosicché può affermarsi che esso dispieghi ora effetti esclusivamente con riguardo al rapporto tra coniugi e non incida sui rapporti giuridici della loro discendenza.
Ma anche a voler interpretare l’art. 29 Cost. come fattispecie aperta, volta a ricomprendere in essa i modelli familiari concretamente esistenti nella realtà sociale, resta pur sempre il fatto che la disposizione non sembra affatto consentire di includervi relazioni senza matrimonio.
Il tema della compatibilità con tale precetto costituzionale dell’attribuzione di diritti ai figli naturali venne in risalto a seguito della riforma del diritto di famiglia ed, in particolare, riguardo alla modifica della disposizione dell’art. 566 c.c., che equiparò figli legittimi e figli naturali ai fini della successione ai genitori.
Al riguardo, la dottrina rilevò come detta disposizione non fosse in contrasto né con l’art. 29 Cost. né con l’art. 30 Cost., in quanto, ai fini della successione legittima, assumerebbe rilievo solo il rapporto tra defunto e successibile.
A seguito della nuova legge, il rilievo del vincolo coniugale rispetto alla filiazione e, quindi, alla configurazione legale della famiglia, già fortemente ridimensionato dall’introduzione del divorzio, dalla riforma del diritto di famiglia e dalla legge sull’affidamento condiviso, è sicuramente scemato, lasciando spazio ad un nuovo assetto legale della famiglia, fondato sui legami di consanguineità.
I riflessi successori delle disposizioni entrate in vigore sono evidenti.
In virtù del rapporto di parentela che si instaura tra il figlio, anche di genitori non coniugati, e i relativi consanguinei, egli, diversamente da quanto sino ad ora accadeva, viene chiamato a pieno titolo alla successione legittima sulla base di quanto disposto dagli artt. 565 e seguenti c.c..
Più in particolare, con riguardo alla successione necessaria, deve ritenersi che tra i legittimari di cui all’art. 536 c.c. vadano inclusi anche gli ascendenti naturali, così abrogandosi in parte qua il disposto dell’art. 538 c.c., che li escludeva dalla quota di riserva ivi contemplata.
Con riguardo alla successione legittima, sono stati sostanzialmente modificati gli artt. 565, 569, 570 e 571 c.c., non potendosi più configurare ascendenti “legittimi” e dovendosi ora ricomprendere nel loro ambito la successione tra fratelli e sorelle naturali, in precedenza esclusa, nonché l’art. 572 c.c., da intendersi esteso anche a quei parenti collaterali che sino ad ora non erano tali in rapporto ai figli nati fuori del matrimonio.
Nulla sembra innovato invece per i figli non riconosciuti e non riconoscibili mentre, a seguito dell’affermazione del principio di unicità dello stato di figlio e dell’abrogazione della legittimazione (art. 1, comma 10), risulta abrogato l’istituto della commutazione previsto all’art. 537, comma 3, c.c..
Le norme citate trovano applicazione solo alle successioni apertesi dopo il primo gennaio 2013, cosicché, con riferimento alle successioni apertesi in precedenza, resta precluso ogni diritto dei parenti “naturali” sulla base delle previgenti disposizioni che regolavano la chiamata legale all’eredità.
Sempre con riguardo al profilo successorio deve, infine, menzionarsi l'art. 448 bis, come introdotto dall'art. 1, comma 9, l. n. 219/2012, che stabilisce che il figlio possa escludere dalla propria successione il genitore che si sia reso responsabile di fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all'art. 463 c.c..
La norma si collega con quella che, nel 2005, introdusse la previsione di un nuovo caso di indegnità (art. 463, n. 3-bis), c.c.) nei riguardi di chi sia decaduto a norma dell'art. 330 c.c. dalla potestà genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta e non sia stato reintegrato alla data di apertura della successione della medesima.
Di detta disposizione, quella del legislatore del 2012 costituisce ampliamento e integrazione consentendo al figlio di diseredare colui che, ancorché non indegno, si sia reso responsabile di fatti, non meglio precisati dalla norma, che si assumono pregiudizievoli per il figlio.
A ben vedere, sembra che debbano ricomprendersi nella previsione dell’art. 279 c.c. le seguenti categorie di figli sui quali, apparentemente, nulla sembra sia stato disposto dal legislatore della riforma: i figli non riconoscibili, perché nati da genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, salvo che il giudice li autorizzi valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio; il figlio ultraquattordicenne non riconoscibile per mancanza del suo assenso; il figlio infraquattordicenne non riconoscibile per mancanza di consenso del genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, salva l’autorizzazione del tribunale; il figlio privo di assistenza morale e materiale, per il quale siano intervenuti la dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo; il figlio matrimoniale, specie se decaduto dall’impugnativa di paternità, e figlio riconosciuto da altri, entrambi non riconoscibili dal preteso padre biologico.
Esaminando i suddetti casi, è evidente come in uno di essi il mancato riconoscimento dipenda dalla volontà del figlio medesimo, che avendo compiuto i quattordici anni non presta l’assenso al riconoscimento; in tutti gli altri, il figlio si trova, invece, dinnanzi ad un ostacolo non dipendente dalla propria volontà.
Pare pertanto che tutte le fattispecie, eccettuata appunto quella del figlio ultraquattordicenne, possano essere raggruppate nella dizione figli irriconoscibili. Tutti costoro sono titolari dei diritti previsti dagli articoli in commento.
Deve ritenersi che l’azione possa essere esercitata anche da colui che abbia lo status di figlio matrimoniale o riconosciuto altrui e quindi non possa essere riconosciuto da chi si affermi suo padre naturale, né essere dichiarato suo figlio, stante il richiamato divieto dell’art. 253 c.c.
La Corte di Cassazione, a tal proposito, ha stabilito che l’azione ex art. 279 c.c. può essere esercitata anche dal figlio che abbia lo stato di figlio legittimo altrui e che sia impossibilitato ad esercitare l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità per aver omesso il tempestivo esperimento, nel termine di decadenza, dell’azione di disconoscimento del padre legittimo.
In tal caso, il figlio potrà vantare altresì i diritti contemplati dagli artt. 580 e 594 c.c.
L’articolo 537 del c.c. dispone che nell’ipotesi di concorso dei figli all’eredità, i diritti successori sono attributi in egual misura.
La norma dispone la misura della riserva a favore dei figli con il sistema della mobilità della quota in relazione al numero dei figli.
La completa equiparazione nel quantum dei diritti successori dei figli, stabilita dai primi due commi dell’articolo 537 c.c., attua il principio della necessaria uguaglianza delle posizioni dei figli nel rapporto con il genitore dante causa (deceduto ab intestato).
L’unica differenza tra la disciplina riservata ai figli legittimi e quella relativa ai figli naturali, legata al diritto di commutazione (art. 537, comma 3, c.c.), è venuta meno e la disposizione normativa è stata implicitamente abrogata con l’entrata in vigore della legge n. 219/2012.
Tale diritto, che consente ai figli legittimi di soddisfare con denaro o beni immobili ereditari il diritto alla legittima dei figli naturali, salva la possibilità per quest’ultimi di opporsi, costituisce un’evidente discriminazione tra figli.
La norma, introdotta dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, abrogava la vecchia disposizione dell’art. 574 c.c. in base alla quale i figli legittimi avevano il diritto potestativo di sciogliere la comunione ereditaria con i figli naturali, commutando la quota ereditaria in una somma di denaro o in immobili ereditari, senza possibilità di opposizione da parte del figlio naturale e di valutazione giudiziale delle circostanze del caso concreto.
Il legislatore della riforma del diritto di famiglia nel 1975, modificando quanto in precedenza previsto dall’art. 541 c.c., ha equiparato i diritti successori dei figli; contestualmente ha rimodulato il diritto di commutazione che riguarda la fase di divisione dell’asse ereditario, trasformandolo da insindacabile diritto meramente potestativo attribuito ai figli legittimi a diritto a esercizio puntualmente controllato, in quanto soggetto alla duplice condizione della mancata opposizione del figlio naturale e della decisione del giudice, “valutate le circostanze personali e patrimoniali”.
Alla luce della legge di riforma n. 219 del 2012 per l’equiparazione tra figli legittimi e naturali la disposizione deve considerarsi definitivamente superata, essendo venuta meno ogni ratio sottesa alla norma medesima, consistente nella necessità di rendere compatibile la tutela dei figli nati al di fuori del matrimonio con i diritti dei figli nati all’interno del matrimonio, seppure attraverso il correttivo della possibilità di opposizione con deferimento della decisione al giudice, e pertanto la disposizione di riferimento dovrà essere espressamente eliminata dal codice civile nell’ambito del processo di revisione delle singole disposizioni vigenti in materia di filiazione di cui è stato delegato il Governo.