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Pubbl. Gio, 17 Mar 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Cassazione: niente limite alla prescrizione in materia di reati tributari

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Fabio Zambuto


Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione accoglie positivamente le direttive fornite dalla Corte di Giustizia con la sentenza Taricco, affermando l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p. nel caso di gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato e per la ragionevole durata del processo. Nota a Cass. Pen., sez. III., Sentenza del 15 settembre 2015 (dep. 20 gennaio 2016), n. 2210.


Sommario: 1. Il caso e la questione – 2. La decisione – 2.1. Premessa – 2.2. La pronuncia della Grande Sezione – 2.3. Le motivazioni della Suprema Corte: la questione della (non) violazione del principio di legalità – 2.4. Sulla questione di legittimità costituzionale – 2.5. Le conclusioni della Cassazione – 3. Il principio di diritto.

1. Il caso e la questione

Nel caso sottoposto al vaglio della Corte, il ricorrente era stato condannato al termine del primo grado di giudizio per il delitto di cui all'art. 2 d.lgs. 74/2000 in relazione a numerose fatture per operazioni inesistenti poi confluite nelle dichiarazioni relative ai periodi di imposta dal 2004 al 2007.

La condanna era stata confermata dalla Corte d’Appello che procedeva ad una riduzione di pena dovuta all'intervenuta prescrizione, nelle more del giudizio, dei fatti relativi al periodo di imposta 2004.

Il ricorso per Cassazione presentato dall’imputato constava di due motivi: l’uno facente riferimento all’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 2 d.lgs. 74/2000, rigettato dalla Suprema Corte; l’altro, relativo alla mancanza di motivazione da parte della Corte d’Appello sul diniego delle attenuanti generiche, accolto dalla Cassazione con rinvio alla corte territoriale per la conseguente rideterminazione della pena.

Ad ogni modo, l’ovvio problema che si poneva alla Suprema Corte, era se dovesse, altresì, rilevarsi d'ufficio la prescrizione, intervenuta nel gennaio 2015, nelle more del giudizio di legittimità, dei fatti relativi al periodo di imposta 2005.

Nel corso dell’udienza del 17 settembre 2015 la Terza Sezione della Suprema Corte ha quindi esaminato la seguente questione:

"Se, in un procedimento penale riguardante il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al fine di evadere l'imposta sul valore aggiunto (IVA), il combinato disposto dell'art. 160, ultimo comma, cod. pen. e dell'art. 161 di tale codice - come modificati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 - il quale prevede che l'atto interruttivo verificatosi comporta il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale: a) è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, prevedendo termini assoluti di prescrizione che possono determinare l'impunità del reato, con conseguente potenziale lesione degli interessi finanziari dell'Unione europea; b) comporta l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare le predette disposizioni di diritto interno in quanto possono pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell'Unione".

La soluzione fornita al quesito è stata affermativa.

Con questa decisione la Suprema Corte fornisce, per la prima volta, un’applicazione della sentenza della Corte di Giustizia del giorno 8 settembre 2015[1], (Caso Taricco, già trattato nella nostra rivista) disapplicando quindi gli artt. 160 e 161 c.p. nella parte in cui stabiliscono un termine assoluto alla prescrizione nel caso in cui intervengano atti interruttivi, con riferimento specifico ai reati gravi che offendono gli interessi finanziari dell'Unione europea.

2. La decisione

2.1. Premessa

A parere del Supremo Collegio, non ricorrono, nel caso di specie, le condizioni per procedere alla declaratoria di annullamento senza rinvio della sentenza quanto ai fatti relativi al periodo di imposta 2005, atteso che la relativa prescrizione risulterebbe maturata, in base al combinato disposto degli artt. 157 e 161, c. p., alla data del 16/01/2015, ritenendo il Collegio di dover disapplicare la specifica norma di cui all'ultima parte del terzo comma dell'art. 160 ed a secondo comma dell'art. 161 c.p. a seguito della sentenza della Corte di Giustizia U.E. dell'8 settembre 2015 (Grande Sezione), Taricco, causa 0105/14.

Ed infatti, con la predetta sentenza 8/09/2015, la Grande Camera della Corte di Lussemburgo, nel c.d. caso Taricco, ha denunciato l'insostenibilità delle norme in questione (e, in particolare, della previsione di un termine massimo in presenza di atti interruttivi) nella misura in cui tale meccanismo può determinare, in pratica, la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA[2], lasciando così senza tutela adeguata gli interessi finanziari non solo dell'Erario italiano, ma anche — ed è quanto rileva per i giudici eurounitari — quelli dell'unione.

Tale disciplina, ricorda la Corte, è stata giudicata incompatibile con gli obblighi europei di tutela penale: il cui contenuto notoriamente non si esaurisce soltanto nella previsione astratta di norme incriminatrici, ma si estende altresì all'applicazione nel caso concreto delle pene da esse previste nel caso di violazione.

Il Supremo Collegio riconosce che le conseguenze di questa pronuncia per l'ordinamento italiano derivano dal principio del primato del diritto UE rispetto a quello nazionale[3] (compreso lo Stesso diritto penale).

La Corte di Giustizia ha affermato, infatti, con la richiamata sentenza, l'obbligo per il giudice penale italiano di disapplicare in parte qua il combinato disposto degli artt. 160 e 161 c. p. nella misura in cui il giudice italiano ritenga che tale normativa — fissando un limite massimo al corso della prescrizione, pur in presenza di atti interruttivi, pari di regola al termine prescrizionale ordinario più un quarto — impedisce allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari dell'Unione imposti dall'art. 325 del Trattato sul funzionamento dell'Unione (TFUE).

2.2. La pronuncia della Grande Sezione

Preliminarmente la S.C. ha ritenuto opportuno ricordare brevemente le ragioni poste alla base della pronuncia della Corte di Giustizia[4], (per un maggiore approfondimento si rimanda all’articolo già pubblicato nella nostra rivista).

Il primato degli interessi finanziari

Richiamando il proprio precedente Fransson[5], la Corte di Giustizia (da qui in poi, CGUE) ha osservato che dalla direttiva 2006/112/CE, alla luce del principio di leale cooperazione enucleato all'art. 4 par. 3 TUE, emerge a carico degli Stati membri non solo l'obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che IVA dovuta nei loro rispettivi territori sia interamente riscossa, ma altresì quello di anche lottare contro frodi in materia di IVA.

Il fondamento logico di tale affermazione veniva ricavato, in particolare, dall'art. 325 parr. 1 e 2 TFUE, che impegna gli Stati membri a "lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell'Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell'unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari”.

A parere della CGUE tra i primigeni interessi finanziari dell'Unione rientra anche l'interesse alla riscossione delle aliquote agli imponibili IVA determinati secondo le regole dell'Unione stessa.

La nozione di «frode», di conseguenza, è idonea ad includere le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione. Questa conclusione non può essere inficiata dal fatto che l’IVA non sarebbe riscossa direttamente per conto dell’Unione, poiché l’articolo 1 della Convenzione PIF non prevede affatto un presupposto del genere, che sarebbe contrario all’obiettivo di tale Convenzione di combattere con la massima determinazione le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.

In ordine a ciò, in tutti i quei casi in cui lo Stato fallisce nella riscossione dell'IVA crea un pregiudizio non indifferente per le finanze dell'Unione.

L’esistenza della deroga all’art. 161 c.p. nel diritto interno

La CGUE ha rilevato altresì come lo stesso giudice del rinvio avesse sollevato la preoccupazione che tale frode potesse restare impunita per effetto della vigente disciplina della prescrizione, e, in particolare, per effetto del meccanismo di diritto interno secondo cui, anche in caso di atti interruttivi, il termine prescrizionale non può essere aumentato più di un quarto della sua durata iniziale.

Ecco che la Grande Sezione ha ritenuto quindi, lapidariamente, che una simile situazione potesse determinare  l'assenza di conseguenze sanzionatorie nel caso concreto, in frontale violazione degli obblighi UE appena menzionati.

Ciò anche in virtù del fatto che lo stesso ordinamento nostrano non assicura, a parere della Corte, eguale trattamento alle frodi poste in essere contro imposte meramente nazionali rispetto a quelle (anche) di pertinenza dell'Unione (come l'IVA).

Il compito del giudice del rinvio

Il problema certamente più delicato affrontato dalla Grande Sezione concerneva le conseguenze che il giudice del rinvio, e in generale ogni giudice nella sua stessa posizione, è chiamato a trarre dalla verifica di tali profili di violazione del diritto UE.

La Corte U.E. si è focalizzata, com’è chiaro, esclusivamente sull'art. 325 TFUE, trattandosi di norma di diritto primario che pone "a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione".

L'effetto diretto dei primi due paragrafi dell'art. 325 TFUE, dotati di primazia rispetto al diritto nazionale, comporta qui la conseguenza “di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente", nel caso di specie rappresentata dalle citate norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p..

In ogni caso, la Grande Sezione, non ha preteso la disapplicazione dei termini di prescrizione previsti dall'art. 157 c. p., che in quanto tali vengono giudicati del tutto compatibili con gli obblighi UE; né tantomeno la disapplicazione dell'art. 160 c.p. nella parte in cui disciplina, in linea generale, gli atti interruttivi ed i loro effetti (disponendo in particolare che, dopo ogni atto interruttivo, la prescrizione comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell'interruzione).

A dover essere disapplicata, hanno chiarito i giudici eurocomunitari, è soltanto l'ultima proposizione dell'ultimo comma, successiva al punto e virgola: ove si dispone che "in nessun caso i termini stabiliti nell'articolo 157 possono essere prolungati oltre il termine di cui all'articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per i reati di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale".

Rebus sic stantibus, il termine ordinario di prescrizione ricomincerà da capo a decorrere dopo ogni atto interruttivo, anche al di fuori del procedimenti attribuiti alla competenza della procura distrettuale dove già vige questa regola, senza essere vincolato dai limiti massimi stabiliti dal successivo art, 161 c.p. in maniera differenziata per delinquenti primari o recidivi.

La gravità della Frode

La Grande Sezione, non si è preoccupata di fornire alcuna indicazione quantitativa circa la soglia minima di gravità in presenza della quale per il giudice sussiste un "obbligo di disapplicare le citate norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p.”.

La CGUE ha chiarito che spetterà al giudice penale italiano il compito di delimitare l'ambito di applicazione della norma europea; ed infatti, è precipuo compito della giurisprudenza sciogliere tali nodi esegetici per determinare in quali casi è necessario operare la disapplicazione richiesta dalla Corte europea secondo i criteri enunciati della sentenza.

Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.

2.3. Le motivazioni della Suprema Corte: la questione della (non) violazione del principio di legalità

Orbene, facendo applicazione di tali principi fissati dalla Grande Sezione nel caso Taricco, osserva il Collegio come la situazione sottoposta al suo esame sia sostanzialmente analoga a quella affrontata dai giudici eurounitari.

Trattasi infatti di una frode IVA posta in essere dal ricorrente mediante l'utilizzo di false fatture per operazioni soggettivamente inesistenti relative a numerose annualità (dal 2003 al 2007), con consistente evasione dl

IVA in relazione a ciascun periodo di imposta.

A parere del Collegio, non rileva nel caso di specie la questione relativa alla disapplicazione delle norme nazionali sulla interruzione della prescrizione anche per il singolo o i singoli reati che eventualmente non siano certamente gravi, perché implicanti una evasione di poche migliaia di euro, ove la somma complessiva evasa per tutti i reati contestati sia elevata.

Ciò in quanto, sia valutando la totalità della evasione per tutti i reati sia valutando le evasioni per i singoli reati, in ogni caso occorre disapplicare la norma sulla interruzione perché nella specie anche le singole evasioni raggiungono ognuna la soglia della gravità.

Non può dunque dubitarsi che, trattandosi di frode fiscale IVA di importo singolarmente consistente per ciascun periodo di imposta si rientri nella nozione di "gravità" valutata dalla Corte U.E. quale condicio per la disapplicazione del regime prescrizionale dettato dal combinato disposto delle dette norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p.

Ciò posto, il Collegio ha ritenuto, per le ragioni che si vedranno, che nel caso in esame non vi sono sufficienti ragioni per sollevare una questione di legittimità costituzionale, dal momento che è evidente la mancanza di contro limiti e di dubbi ragionevoli sulla compatibilità degli effetti della imposta disapplicazione con le norme costituzionali italiane.

La stessa Corte di Giustizia, ricorda la Cassazione, ha affrontato il problema se la disapplicazione di una norma del codice penale in materia di prescrizione contraria al diritto UE, con effetti sfavorevoli per l'imputato, violi di per se stessa il principio di legalità in materia penale, secondo cui nessuna responsabilità penale può sussistere se non in forza della legge (legge, costituita dal combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p., di cui la Corte U.E. richiede la disapplicazione in parte qua).

Punto di partenza, nel ragionamento seguito dalla Grande Sezione, è l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione (CDFUE) che, in forza dell'art. 52 CDFUE, recepisce il nullum crimen nell'estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sulla corrispondente previsione dell'art. 7 CEDU[6].

Secondo tale giurisprudenza, la materia della prescrizione del reato attiene in realtà alle condizioni di procedibilità del reato, e non è pertanto coperta dalla garanzia del nullum crimen, tanto che persino l'applicazione a fatti già commessi ma non ancora giudicati in via definitiva del termine di prescrizione ad opera del legislatore deve ritenersi compatibile con l'art. 7, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un fatto e con una pena previsti dalla legge come reato al momento della sua commissione.

La disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe tre effetti:

- non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente;

- consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati,

- assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana.

Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’articolo 49 della Carta.

Infatti, non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale, né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista da tale diritto.

2.4. Sulla questione di legittimità costituzionale

La Suprema Corte ha ritenuto insussistenti eventuali dubbi di illegittimità costituzionale, non essendo ravvisabili gli estremi per sottoporre al giudizio della Corte Costituzionale la questione di un possibile contrasto della legge di esecuzione del Trattato (e, quindi, dell'art. 325 TFIJE) con l'art. 25, comma secondo, Cost., e  ciò perché la specifica norma di cui all'ultima parte del terzo comma dell'art. 160  cod. pen. e del secondo comma dell'art. 161 cod. pen., che nella specie viene in  rilievo, non gode — anche secondo la giurisprudenza costituzionale, oltre che  secondo quella europea — della copertura della citata norma costituzionale di cui  all'art. 25.

In ogni caso, non rileva nella specie, la questione, peraltro di natura dogmatica, se la disciplina della prescrizione, o di alcuni elementi di essa, abbia natura sostanziale o processuale, perché, quale che sia la risposta che si voglia dare dogmaticamente, comunque la specifica norma che interessa non è coperta dalla tutela dell'art. 25 Cost. e dall'art. 7 CEDU come afferma anche la  sentenza n. 236 del 2011 della Corte costituzionale.  

Ciò posto, si spiegherebbe, secondo il Collegio, la soluzione operata dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. nel c.d. caso Taricco e la indicazione ai giudici italiani di disapplicare quella specifica norma degli artt. 160 e 161 cod. pen., che, nei  casi indicati, pone in pericolo gli interessi finanziari dell'unione. 

Ad ogni modo, la CGUE, come anticipato, non censura l'intero assetto normativo  della prescrizione ma si limita a delegittimare la previsione di un termine  massimo pur in presenza di atti interruttivi.

La conclusione, per il giudice europeo, è quella di disapplicare tale normativa contrastante con le norme del Trattato di Lisbona[7]

Nel caso Taricco, la legalità penale non è violata in quanto la disciplina della prescrizione (o almeno la disciplina della interruzione della prescrizione) ha, per la CGUE, natura processuale[8].

La legalità penale riguarderebbe insomma l'incriminazione e la garanzia di libere scelte di azione da parte del cittadino, ma non avrebbe tale copertura l'affidamento del cittadino «che le norme applicabili sulla durata, il decorso e l'interruzione della prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre alle disposizioni di legge in vigore al momento della commissione del reato»[9].

E' dunque evidente, per quanto sinora chiarito, che la sentenza europea non incide sulla disciplina e sui termini di prescrizione, ma solo sulla durata massima della interruzione, peraltro comportando l'applicazione anche per le gravi frodi in tema di IVA di una norma già prevista per altri casi concernenti imposte nazionali.  Ma, ed è questo il punto centrale della valutazione operata dalla Suprema Corte, non vi è alcuna necessità di sollevare questione di costituzionalità della legge di esecuzione della norma del Trattato per presunto contrasto con l'art. 25 Cost., essendo pacifico che, per la giurisprudenza della Corte costituzionale, oltre che  per quella europea, la specifica norma di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen., che  qui viene in rilievo, non è dotata della copertura costituzionale dell'art. 25 cost

In altri termini, a parere del Collegio , quale che sia la natura sostanziale o processuale della prescrizione o, più specificamente, degli effetti della interruzione, si deve ritenere che, “in ossequio alla citata pronuncia della Corte di Giustizia, nell'ipotesi di contrasto col diritto europeo, per i processi in materia di gravi frodi in tema di IVA in cui il termine di prescrizione non è spirato, le specifiche norme di cui agli artt., 160, comma terzo, e 161, comma secondo, cod.  pen., vadano disapplicate, non ponendosi del resto - attesa anche la natura  dichiarativa e non costitutiva della sentenza della C.G.U.E  — alcun problema di contro-limiti”. L'interpretazione della Corte di Giustizia U.E. è, infatti, di natura dichiarativa, non creativa, quindi si intende che interpreti le norme comunitarie come sono in origine al momento della loro approvazione.

Sicché, portata e senso delle interpretazioni sono applicabili retroattivamente anche per leggi degli Stati membri emanate in momenti compresa tra la data della norma comunitaria e la sentenza della Corte. 

Nello specifico caso concreto, sottoposto all'esame della Suprema Corte, la disapplicazione nei processi in corso di questa specifica norma (contrastante fin dalla sua origine con i principi del Trattato, per come specificati dalla Corte di Giustizia), non comporta dunque alcun contrasto con l'art. 25 Cost., non  ravvisandosi un'applicazione retroattiva di norme penali incriminatrici  sanzionatorie.

La Suprema Corte, poi, in quello che assume essere argomento decisivo per la pronuncia, evidenzia come già la  stessa Corte costituzionale ha ritenuto irrilevante la questione della natura della  prescrizione, in particolare con la sentenza n. 236 del 2011, laddove, al punto  15, afferma che dalla "stessa giurisprudenza della Corte europea emerge che  l'istituto della prescrizione, indipendentemente dalla natura sostanziale o  processuale che gli attribuiscono i diversi ordinamenti nazionali, non forma  oggetto della tutela apprestata dall'art. 7 della Convenzione, come si desume  dalla sentenza 22 giugno 2000 (Coëme e altri contro Belgio) con cui la Corte di  Strasburgo ha ritenuto che non fosse in contrasto con la citata norma  convenzionale una legge belga che prolungava, con efficacia retroattiva, i tempi  di prescrizione dei reati".

Da ciò, a parere del Collegio, si desume che la Corte costituzionale non ha ritenuto di attivare il contro-limite (non si sarebbe citato l'art. 7 Cedu Se Io si fosse ritenuto in contrasto con il nostro art. 25 Cost.).

E' ben vero che, nel caso sottoposto alla Corte costituzionale si trattava di giustificare limiti alla retroattività di una norma nuova in bonam partem, mentre nel caso esaminato dalla Cassazione si tratta di giustificare l'applicazione dell'art. 325 TFUE; nondimeno, però, viene osservato come l'esempio citato dalla Corte costituzionale si  riferisce proprio alla ritenuta conformità all'art. 7 Cedu di una legge belga sulla  prescrizione retroattiva in malam partem.

E, a conferma di quanto sopra, non  può sfuggire come l'esempio richiamato dalla Corte costituzionale nella citata  sentenza n. 236 del 2011 (caso Coéme e altri Contro Belgio) è proprio il medesimo che viene evocato dalla Corte di Giustizia U.E. nel c.d. caso  Taricco per richiedere al giudice italiano la disapplicazione della specifica norma  di cui agli artt. 160 e 161, cod. pen., nei limiti indicati dal giudice europeo e  dianzi richiamati: si legge, infatti, al par. 57 della sentenza CGUE che "la  giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo relativa all'articolo 7 della  Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà  fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che sancisce diritti  corrispondenti a quelli garantiti dall'articolo 49 della Carta, avvalora l’assunto secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di  prescrizione e la sua applicazione non comportano una lesione dei  diritti garantiti dall'articolo 7 della suddetta Convenzione, dato che tale  disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento  dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti  in tal senso"[10]

Non rileva, dunque, a fronte della chiara indicazione fornita dal Giudice delle leggi con la citata sentenza n. 236 del 2011, la distinzione fatta da alcuni tra termine dell'art. 157 cod. e termine massimo dl cui agli artt. 160 e 161 cod.  perché — oltre a trattarsi dl questione dottrinaria — in ogni caso, anche  qualora la distinzione non fosse possibile e il termine massimo avesse natura  sostanziale, la norma che qui interessa non è coperta dall'art. 25 cost.

2.5. Le conclusioni della Cassazione

Per la Suprema Corte, quindi, l'obbligo di disapplicazione comporta la seguente soluzione: la disapplicazione non può provocare la reviviscenza di una norma anteriore (ossia, nella specie, il regime della prescrizione antecedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 251 del 2005).

La disapplicazione della specifica norma indicata dalla sentenza europea (artt. 160 e 161 cod. pen., nei limiti indicati) non può infatti comportare la reviviscenza parziale della precedente disciplina perché non incide sulla norma abrogatrice (e sull'effetto abrogativo) ma, appunto, secondo la esplicita indicazione della sentenza europea, comporta solo l'applicazione alla grave frode IVA del termine massimo previsto per i reati di cui all'art. 51 bis cod. proc. pen,: in questa mancata applicazione la sentenza europea ha ravvisato contrasto con i principi del Trattato.

Così, per i reati oggi non ancora estinti per prescrizione, invece, bisogna distinguere:

a) se la eventuale futura dichiarazione di prescrizione dipende dal mancato rispetto dei termini di cui all'art. 157 c.p., nulla quaestio, non essendo stato questo punto toccato dalla pronuncia della C.G.U.E.;

b) se la eventuale futura dichiarazione di estinzione dipende invece dal meccanismo del combinato disposto degli artt. 160, comma terzo, e 161, comma secondo, cod. pen., queste norme devono essere disapplicate.

In questo ultimo caso, dunque, il soggetto non ha alcun diritto soggettivo che prevale sulla pretesa punitiva dello Stato, dovendo escludersi ogni violazione del diritto di difesa, perché non può assegnarsi alcun rilievo giuridico a tale aspettativa dell'imputato al maturarsi della prescrizione[11].

Si tratta, quindi, di un mutamento limitatamente però a quel termine di natura squisitamente processuale, il quale deve considerarsi subvalente rispetto alla fedeltà agli obblighi europei discendenti dagli artt. 4 TUE e 325 TFUE: il contrasto con gli obblighi europei concerne, pertanto, unicamente il regime della durata massima del termine che comincia a decorrere dopo l'interruzione della prescrizione, regime che non riceve copertura dall'art. 25 Cost. per le ragioni già indicate.

3.  Il principio di diritto

Dalle considerazioni sin  ora espresse, a parere del Supremo Collegio, discende, quindi, per effetto della disapplicazione della norma dell'ultima parte del terzo comma dell'art. 160 e del secondo comma dell'art. 161 cod. pen. che, anche per l'ipotesi di reati concernenti gravi frodi in materia di IVA, in applicazione della regola già prevista da dette disposizioni per i reati di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., il termine ordinario di prescrizione (nel caso di specie, anni 6) ricomincerà da capo a decorrere dopo ogni atto interruttivo come accade nei procedimenti attribuiti alla competenza della Procura distrettuale dove appunto già vige questa regola, senza essere vincolato dai limiti massimi stabiliti dal successivo art. 161 in maniera differenziata per delinquenti primari o recidivi.

 

_________________________

Note e riferimenti bibliografici

[1] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, Taricco ed altri, 8 settembre 2015, causa C‑105/14.

[2] Al fine di identificare quali reati in materia tributaria possono interessare l’UE, cfr., A. Iorio, I nuovi reati tributari, IPSOA, 2015.

[3] Principio ampiamente consolidato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia partire dalla storica Simmenthal, Sentenza 9 marzo 1978, causa C 106/77, passando per la più recente Kücükdeveci, C 555/07.

[4] Per un approfondimento sul ruolo della CGUE in materia fiscale: C. Attardi, Il ruolo della Corte Europea nel processo tributario, IPSOA, 2008.

[5] Corte di Giustizia, Grande Sezione, 26 febbraio 2013, , Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson, C-617/10;

[6] Di particolare rilievo in questo senso la sentenza della Corte E.D.U., nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, S 149;

[7] Dopo il caso Niselli (in cui la CGUE aveva suggerito al giudice nazionale di disapplicare l'interpretazione autentica di rifiuto e condannare l'imputato applicando la nozione di rifiuto vigente al momento dei fatti: Corte di Giustizia, 11 novembre 2004, C-457/02), questa sentenza è la seconda che prevede, almeno così apertamente, risvolti contra reum.  Nel caso Niselli, il principio di legalità non era violato, perché, al momento del fatto, era vigente la disciplina penale più sfavorevole, poi modificata in mitius (ma illegittima per il diritto europeo).

[8] P. Capello, La prescrizione civile, penale e tributaria, Giuffrè, 2011, ove si analizzano questioni dibattute relative alla natura della prescrizione del reato.

[9] Nell'unione europea la legalità processuale ha una tutela meno intensa di quella penale sostanziale, come confermato ad esemplo dalla materia del MAE e dalle ripercussioni interne delle pronunce della CGUE sulla legge 69 del 2005 (si v., ad esempio, le pronunce di questa Corte: Sez. 6, n. 34355 del 23/09/2005 - dep.  26/09/2005, Petre e sez. U, n. 4614 del 30/01/2007 - dep. 05/02/2007, Ramaci, sul MAE; v., ancora, le pronunce che hanno dato attuazione intema alla sentenza della CGCE Pupino). Questo minor vigore della legalità processuale in  sede europea sembrerebbe, secondo alcuni, "accettato" o dallo Stato  Italiano che firmando il Quarto protocollo alla Convezione del Consiglio d'Europa  del 1957 sulla estradizione, nella cui formulazione si accetta il principio per cui il  decorso della prescrizione nello Stato richiesto non impedisce la consegna della  persona allo Stato richiedente, sembrerebbe testimoniare come anche per il  legislatore la prescrizione non è propriamente un elemento della fattispecie  penale.

 

[10] Corte eur D.U., sentenze Coëme e a, c. Belgio, nn. 32492/96,  32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, 5 149, CEDU 20003V11; scoppola  c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, n. 10249/03, 110 e giurisprudenza ivi  Citata, e OAO Netyanaya Kornpaniya Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n.  14902/04, 563, 564 e 570 e giurisprudenza Ivi Citata

[11] Così, Corte Cost., ordinanza n. 452 del 1999, che, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 160 del codice penale, sollevata in riferimento gli artt. 3 e 24 della Costituzione, precisò appunto come dovesse "escludersi ogni violazione del diritto di difesa, perché non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorta di "aspettativa" dell'imputato al maturarsi della prescrizione".