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Pubbl. Mar, 8 Mar 2016

Diritto ad abortire o dovere all´aborto?

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Beniamino Piciullo


Talvolta l´eccessiva astrattezza delle argomentazioni giuridiche può condurre a situazioni di incoerenza fattuale. Emblematica è la soluzione all´«affaire Perruche» cui è giunta l´Assemblea plenaria della Cour de Cassation, riconoscendo legittima la pretesa del nato-non-sano di poter chiedere il risarcimento del danno per il fatto della sua nascita. Un caso simile è stato recentemente analizzato e deciso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte del nostro paese.


SOMMARIO: 1. Alcuni quesiti di matrice bioetica; 2. Cenni alla giurisprudenza «consolidata» della Corte di Cassazione; 3. La decisione delle Sezioni Unite.

1. Alcuni quesiti di matrice bioetica

Che ruolo gioca il “caso” nella vita delle persone? In base a cosa l'uomo organizza la sua esistenza?  Meglio vivere conoscendo la propria morte o morire nell'ignoranza? Conoscere il proprio avvenire è un'occasione, un bisogno dell'uomo per meglio organizzare la sua dipartita, o una condanna, l'esecuzione di una pena capitale che il medico curante annuncia con tanta misticità scientifica? Si è più liberi di determinare la propria esistenza conoscendo o ignorando il proprio stato di salute? Conoscendo o ignorando la propria morte? Fino a che punto la medicina può indagare sull'uomo e comunicare al paziente la sua aspettativa di vita?

Domande queste, che troverebbero tante risposte quante sarebbero le persone cui potrebbero essere poste. Il medico curante è il detentore assoluto di un immenso potere ideologico, il potere di diagnosticare con «certezza scientifica» (basandosi su dati empirici che non sempre portano a conclusioni esatte) lo stato di salute degli individui che abitano la società. Tuttavia se è assai complesso trattare di argomenti definiti nell'alveo del «fine-vita», intendibile anche alla stregua di una situazione, più o meno lunga di agonia, per cui l'individuo è «condannato a morire dalla previsione medica»[1]; ancora più complesso è il tema che interessa la fine dell'inizio della vita. Un gioco di parole per definire la condizione del nascituro che in realtà non vorrebbe nascere. Se il più delle volte e in casi estremi è l'individuo, nella sua irriducibile personalità, che sceglie la morte[2], o che comunque gli stretti congiunti, il tutore, possano scegliere per lui – se impossibilitato – sulla base delle esperienze di vita fin ad all'ora con-vissute[3]; assai problematicamente emerge il caso, a dire il vero per niente eccezionale, della madre che sceglie per il figlio prima che questo nasca.

Potrebbe sembrare una polemica, ormai forse sconfitta dalla vigente normativa sull'aborto[4], ma non è così. Non si tratta sic et sempliciter del diritto della gestante ad abortire entro i novanta giorni consentiti, ma dell'estrema influenza esercitata dalla scienza medica nell'ambito dell'esercizio di detto diritto. Da che momento in poi scatta il diritto della persona ad autodeterminarsi liberamente? Da che momento in poi la materia organica e vivente può definirsi persona? L'orientamento della Corte Costituzionale è probabilmente eccessivamente vago. Nelle more del giudizio sul bilanciamento tra i diritti della madre e del nascituro la Consulta si esprime in questi termini: "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare"[5]. Definito in tal senso sembra emergere l'assunto secondo cui la personalità non possa essere certamente attribuita al concepito, rectius all'embrione, che persona deve ancora diventare. A questo punto è chiara la complessità definitoria insita nell'accertare empiricamente da che momento in poi il concepito non è più solo zoé, ma comincia a qualificarsi nella dimensione del bios.

Sebbene ormai l'embrione e, più in generale, il concepito, trovino autonoma tutela nell'ordinamento giuridico, la problematicità legata alla personalità ed all'autodeterminazione trovano tutt'ora una zona d'ombra, per certi versi, invalicabile. Ai sensi della citata normativa sull'aborto, passati i primi novanta giorni, il concepito deve nascere, salvo il pericolo fisico e psichico della gestante[6]. Tuttavia non è pacifico ritenere che il concepito sia nel diritto di nascere sano, più che altro sembrerebbe che entro i primi novanta giorni la gestante abbia la potestà di decidere sul destino del nascituro, qualora rilevi anomalie o malformazioni che potrebbero compromettere la libera espressione della personalità nascente[7], d'altro canto la norma non considera l'agire della madre in funzione dell'interesse del “futuro figlio” (il che sarebbe pericoloso e si vedrà), bensì a tutela dello stato di salute psico-fisico della stessa gestante, difatti la disposizione citata fa riferimento a quelle "circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica […]".

2. Cenni alla giurisprudenza «consolidata» della Corte di Cassazione

In giurisprudenza la questione sembra essere ancora più intricata. Evitando l'analisi di quei casi in cui la donna possa o non possa interrompere la gravidanza, prima o dopo i novanta giorni, risulta molto più interessante interrogarsi sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno, c.d. danno da nascita indesiderata, a carico del medico che – col suo inadempimento – abbia privato la gestante della possibilità di accedere all'interruzione della gravidanza[8]. In effetti la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione si è recentemente trovata nella difficoltà evidente di accogliere i ricorsi di due minori, rappresentanti dai genitori, a pretendere il risarcimento del danno da nascita indesiderata[9]. Invero è possibile rilevare due diversi filoni interpretativi che colorano la giurisprudenza di legittimità su detto argomento.

Un primo orientamento, più che consolidato[10], escluderebbe la legittimazione del nato a richiedere il risarcimento del danno, così come già inteso, sulla base dell'inesistenza, all'interno del nostro ordinamento, di un «diritto di non nascere», o più specificamente, di un «diritto di non nascere, se non sani». In tal senso, infatti, la sola esistenza di malformazioni del feto, senza considerare la salute della gestante, legittimerebbe l'aborto eugenetico; inoltre il diritto della madre ad abortire si tradurrebbe in un dovere, in un obbligo che altrimenti esporrebbe la stessa gestante ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del nascituro una volta nato[11].

Altra posizione, più recente[12], vede la legittimazione attiva del nato-non-sano, a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico, non sulla base di situazioni soggettive relative al solo fatto della nascita o dell'handicap, "bensì alla nascita ed alla futura vita handicappata intesa nella sua più ampia accezione funzionale, la cui «diversità» non è discriminata in un giudizio metagiuridico di disvalore tra nascita e non nascita, ma soltanto tutelata, rispettata ed alleviata per via risarcitoria."[13]. Deve pertanto concludersi che l'interesse giuridicamente protetto è quello che consente al minore di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione[14].

Tuttavia detto orientamento non è del tutto convincente: se infatti il risarcimento ottenibile dal nato-non-sano ha una mera funzione «ristoratrice» ed è diretto ad «alleviare» la svantaggiata condizione di vita nella sua più ampia accezione funzionale, si potrebbe ragionevolmente dedurre che su di un piano egualitario vi sarebbe discriminazione tra il «nato-non-sano da madre non ben informata», il quale potrebbe ottenere il risarcimento lenitivo, ed il «nato-non-sano da madre ben informata», il quale, pur nelle medesime condizioni disagiate, non potrà pretendere alcun risarcimento, se non, come inteso nelle pronunce conformi al primo indirizzo, implicando una responsabilità patrimoniale da non aborto imputabile alla madre. In tal direzione la pretesa risarcitoria da parte del nato-non-sano sarebbe sempre da orientare nei confronti della madre, che non abortì, la quale potrà aggrapparsi solo alla situazione di fatto della «non corretta informazione», facendo così ricadere la responsabilità sul solo medico curante.

Le argomentazioni avanzate dalla Corte non sembrano quindi sopperire a dette criticità ed il "dovere linguistico di non affermare nulla che possa [portare l'individuo] a predicare se stesso come inesistente"[15], invocato al fine di salvare la (sola) gestante dalla liability trap, sembra non essere soddisfacente. In effetti già Carnelutti – in commento alla sentenza del 1950 che riconobbe al minore eredoluetico il diritto al risarcimento del danno nei confronti dei propri genitori per il fatto stesso del suo concepimento – affermò che "senza l'inadempimento il preteso danneggiato anziché più avrebbe meno di quello che ha perché non avrebbe, anzi non sarebbe nulla"[16] . In questa direzione non è però ammissibile invocare un principio di coerenza linguistica al «solo» fine di evitare che la gestante cada nella temibile liability trap da «nascita indesiderata», sembra infatti necessario non relativizzare detto costrutto fittizio, determinando con fermezza la non esistenza di un diritto in capo al nato-non-sano di pretendere il risarcimento del danno per il solo fatto della sua nascita.

3. La decisione delle Sezioni Unite

Il 22 settembre dello scorso anno, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione decidevano sul dibattuto tema della «responsabilità medica da nascita indesiderata», cercando di porre fine al conflitto giurisprudenziale che si era stratificato nel tempo. Il nato-non-sano può o non può pretendere il risarcimento del danno al medico che, non avendo informato adeguatamente la gestante sullo stato di salute del nascituro, è responsabile del fatto della sua nascita?

Gli ermellini hanno risposto negativamente[17]. Nucleo centrale della disamina è stato quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato dal primo articolo del Codice Civile. Tuttavia l'argomento apparentemente preclusivo non si palesa insuperabile – prosegue la Corte –, dato che la stessa giurisprudenza di legittimità ha già in passato opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita del soggetto.

Ammettendo a questo punto pur l'ammissibilità dell'azione del minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione, bisogna scrutinare l'evento (presunto) dannoso consistente nella condotta omissiva del medico che non ha messo la gestante nelle condizioni di abortire. I giudici nel merito escludono fin da subito  la sussistenza del concetto di danno-conseguenza consacrato all'art. 1223 cod. civ. e riassumibile, con espressione empirica, nell'avere di meno a seguito dell'illecito[18], ciò perché nel caso di specie il danno risulterebbe legato alla stessa vita del bambino e l'assenza di danno alla sua morte. Nulla varia anche considerando norma primaria l'art. 2043 cod. civ.: la Corte osserva che viene meno in radice il concetto stesso di «danno ingiusto» non potendosi parlare di un «diritto a non nascere se non sani», nella stessa misura in cui non sarebbe configurabile un «diritto al suicidio», tutelabile contro chi cerchi di impedirlo[19].

A un certo punto della sentenza, passati in rassegna alcuni orientamenti della giurisprudenza extra-nazionale, la Corte fa cenno all'affaire Perruche – che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato affetto da grave malattia, non diagnosticata durante la gravidanza – riferendosi all'evoluzione normativa seguita in Francia alla pronuncia della Cour de Cassation. Con la c.d. Loi Kouchneri – proseguono i giudici – si sono "perentoriamente riaffermati i canoni tradizionali [...] prescrivendo che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo fatto della nascita e che la persona nata con un handicap dovuto a colpa medica può ottenere il risarcimento [solo] quando l'atto colposo ha provocato direttamente o ha aggravato l'handicap, o non ha permesso di prendere misure in grado di attenuarlo"[20] (miei corsivi).

È quindi ben chiara la posizione assunta dai giudici di legittimità: il nato-non-sano non è legittimato a chiedere il risarcimento del danno al medico che, con la sua omissione informativa, non abbia messo la gestante nelle condizioni di abortire. Tuttavia si desume resti salvo il diritto al risarcimento del danno in capo al nato-non-sano qualora l'atteggiamento colposo del medico si provi abbia procurato danni «evitabili», escludendo tra questi, ovviamente, la nascita, poiché il mero fatto dell'esser nati non può dare luogo di per sé a un danno risarcibile. Non sarebbe potuto essere altrimenti. Ammettere la legittimazione del nato-non-sano a chiedere il risarcimento del danno per il solo fatto della sua nascita condurrebbe alla pericolosa deriva dell'«aborto eugenetico imposto», derivante da un dovere implicito all'aborto in capo alla gestante, che altrimenti – se a conoscenza dell'esser non sano del nascituro che porta in grembo – potrebbe essere soggetta in futuro ad un'azione risarcitoria avanzata dal suo stesso figlio per il mero fatto dell'esser venuto al mondo.

 

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Note e riferimenti bibliografici

1. Si pensi al caso di “Maria”, la donna che rifiutò l’amputazione del piede: «Non ce l’ha fatta. Come purtroppo avevano previsto i medici, Maria è morta pochi giorni dopo aver lasciato l’ospedale negando il consenso all’amputazione del suo piede destro divorato da una cancrena.». G. Guastella, R. Verga, Morta Maria, la donna che rifiutò l’amputazione, Corriere della Sera, 19.II.2004.

2. Come per Piergiorgio Welby.

3. Si rimanda alle argomentazioni addotte dalla Suprema Corte di Cassazione per il caso di Eluana Englaro. Cass. SS.UU., sent. n. 27145 del 2008.

4. Legge 22 maggio 1978, n. 194.

5. Corte Cost., 18/02/1975, n. 27.

6. Legge 22 maggio 1978, n. 194, art. 6: «L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: 1. quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; 2. quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.».

7. Ivi, art. 4: «Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute […] o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico […] o a un medico di sua fiducia.».

8. Cass., Civ. Sez. III, 23/02/2015, n. 3569.

9. Il Collegio ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle SS.UU. nel primo caso (Cass., Civ. Sez. III, 23/02/2015, n. 3569) e rinviato la causa a nuovo ruolo, in attesa della pronuncia delle SS.UU. nel secondo (Cass., Civ. Sez. III, 26/06/2015 n. 13304).

10. Cass. Civ., sentt. nn. 14488/2004, 16123/2006, 10741/2009.

11. Così Cass, Civ. Sez. III, 02/10/2012, n. 16754, commentando Cass. Civ. sent. n. 14488 del 2004.

12. Inaugurata da Cass, Civ. Sez. III, 03/05/2011, n. 9700, e ampliata da Cass, Civ. Sez. III, 02/10/2012, n. 16754.

13. Cass, Civ. Sez. III, 02/10/2012, n. 16754, p. 62.

14. Ivi, p. 63.

15. Ivi, p. 65.

16. F. Carnelutti, Postilla a Trib. Piacenza 31.7.1950 in Foro Italiano, 1951, I, col. 990.

17. Cass., SS.UU., 22/09/2015, n. 25767.

18. Ivi. p. 17.

19. Ivi, p. 18.

20. Ivi, p. 22.