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Pubbl. Dom, 14 Feb 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Il delitto di atti persecutori, quando amare troppo può diventare reato

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Natale Pietrafitta


Il legislatore ha sancito un fondamentale principio non scritto: amare è lecito, amare troppo può diventare reato. Pare opportuno allora evitare che gli atteggiamenti d’amore folle si trasformino in contegni penalmente rilevanti.


Sommario: 1. Premessa – 2. Elemento oggettivo della condotta – 3. Gli effetti della condotta persecutoria e bene giuridico tutelato – 4. La reiterazione degli atti di minacce e di molestie – 5. L’elemento soggettivo del reato – 6. L’indagine sulla imputabilità del persecutore – 7. Il delitto di Stalking è reato ad evento di danno – 8. La configurabilità dell’ipotesi del delitto tentato – 9. Le circostanze aggravanti – 10. Analisi del tema della procedibilità – 11. Conclusioni.

1. Premessa 

Il reato di atti persecutori è stato introdotto con il decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11, dedicato alle “misure urgenti in materia di pubblica sicurezza e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” convertito in legge 23 aprile 2009, n. 38 che ha introdotto l’art. 612 bis del codice penale.  Si tratta, però, di una figura delittuosa che non ha origine prettamente italiana, ma con maggiore esattezza, trae le proprie origini dal mondo statunitense. Tanto è vero che il delitto in questione è meglio conosciuto come Stalking. Il termine da ultimo utilizzato, lungi dall’essere tecnicamente giuridico, è stato preso in prestito, dagli studiosi, dal mondo della caccia e significa, letteralmente, fare la posta ad una preda.  Esso, infatti, descrive un comportamento tipizzato dalla sorveglianza su una vittima, scelta come destinataria di condotte per essa moleste e resa oggetto di attenzioni molto spesso sintomo di vere e proprie patologie. Il concetto essenziale che corrisponde al termine suddetto è quello di una persona che viene braccata da un’altra, fino al punto da essere avvertito come persecutore. 

In particolare, la condotta di cui all’art. 612 bis c.p. si innesta all’interno di un alveo ben più ampio. A far parte di tale contesto, infatti, oltre il delitto de quo, è possibile riscontrare, ad esempio, gli atti di emulazione di cui all’art. 833 c.c., la figura del mobbing, il delitto di molestia o disturbo alle persone di cui all’art. art. 660 c.p. e il delitto di minaccia di cui all’art. art. 612 c.p.. Tutte le fattispecie sin qui richiamate, infatti, presentano un comune concetto di fondo, ossia quello della molestia alla persona fisica, intesa come condotta invasiva dell’altrui tranquillità, inaccettabile nell’ordinato vivere civile, cui conseguono livelli diversi di reazione apprestata dall’ordinamento giuridico, a seconda del diverso grado di incidenza di siffatta condotta nella sfera privata altrui. 

Per lungo tempo la molestia ed il disturbo sono stati considerati eventi minori, nel quadro dei rapporti di contenuto negativo tra consociati. I numerosi fatti di cronaca, aventi spesso ad oggetto uno dei più odiosi reati, ovverosia il femminicidio, quale esito culminativo di condotte molestanti da parte dell’omicida nei confronti della vittima del reato, però, hanno progressivamente condotto ad attribuire notevole risonanza a tali fenomeni che nella legislazione, seppur previsti, assumevano la veste di fattispecie di importanza secondaria, sotto il profilo della tutela da predisporre per i soggetti passivi. L’ipotesi delittuosa de qua, ancor prima di assurgere a figura autonoma di reato, però, si presenta in natura come un fenomeno di carattere sociale. A riprova di ciò, nella relazione parlamentare si legge che “la violenza nei confronti delle donne e gli omicidi con movente sessuale o passionale sono spesso annunciati da una serie di atti insistenti e ripetuti (telefonate notturne, pedinamenti, appostamenti ecc.) che attualmente non trovano nel nostro ordinamento idonei strumenti di contrasto. Del tutto inadeguata ad arginare tale fenomeno è la configurazione del reato di molestie. Da qui la necessità di creare una nuova fattispecie che dilati, e al contempo anticipi, la tutela della vittima. Ecco dunque che il disegno di legge (n. 1440) è diretto a colmare un vuoto normativo e di tutela non più sostenibile”. Il legislatore, dunque, paternalisticamente ha inteso inasprire gli strumenti di tutela volti a soddisfare le esigenze di garanzia vantate dalla società civile a protezione di quegli individui – spesso le donne, ma non solo – certamente più vulnerabili, conferendo, peraltro, al reato una struttura che presenta taluni caratteri aventi l’evidente scopo, in un’ottica general preventiva, di disincentivare quanto possibile le condotte oggi tipizzate.

2. Elemento oggettivo della condotta

Iniziando a delineare i contorni del delitto di atti persecutori è agevole notare come il delitto in questione presenti una struttura descrittiva delle condotte costituenti reato. Il legislatore, infatti, ha delineato le condotte penalmente rilevanti in modo atecnico, nel tentativo – quasi ciclopico – di rendere la norma efficace allo scopo, evitando di istituzionale una norma penale vuota di contenuto, in contrasto col sommo principio di legalità e in particolare con il sotto principio di tassatività[1]. Un problema di rilievo che il legislatore ha dovuto affrontare nel formulare la citata norma, infatti, è stato quello di trovare espressioni sufficientemente ampie per ricomprendere la multiformità delle fattispecie suscettibili di essere annoverate in quella nozione e, nello stesso tempo, adeguatamente sintetizzate per coniugare il principio di tassatività delle previsioni di illecito penale con l’opportunità di evitare diffuse casistiche, mai esaurienti. Il problema fu risolto rinviando, semplicemente, a nozioni ormai acquisite in dottrina e giurisprudenza, fatte divenire elementi componenti della nuova figura di reato. Gli atti persecutori consistono, in definitiva, in atti di minaccia e di molestia. Entrambe costituiscono oggetto di norme di diritto positivo che hanno subito una vasta elaborazione nel tempo e che hanno raggiunto un risultato interpretativo stabile ed idoneo a rappresentare l’elemento di certezza necessario a soddisfare l’esigenza della tassatività, per legge, delle norme incriminatici. 

Ciò posto il legislatore ha sancito, per mezzo dell’art. 612 bis c.p. che consuma il delitto di atti persecutori chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Come si può notare, dunque, il legislatore ha fatto menzione – in sede di stesura del testo normativo – di due distinte condotte, ossia quella di minaccia e quella di molestia, che potrebbero prima facie trarre in inganno. Ed invero, ad una prima lettura, il dato normativo potrebbe indurre a ritenere che la condotta dell’agente potrebbe porsi contra ius solo ove si componesse di entrambi i contegni, ossia quello minaccioso e quello molestatorio. Sul punto, però, corre in ausilio ad una corretta ermeneutica del dato letterale l’opera di interpretazione del giudice di legittimità il quale ha fin da subito chiarito che, aderendo piuttosto alla seconda possibile lettura, che le condotte ivi citate sono alternative, sicché ciascuna di essere è idonea a integrare il delitto de quo[2]. Ed invero, a parere di chi scrive, quest’ultima parrebbe la lettura maggiormente corretta. Riprova ne è l’utilizzo, da parte del legislatore, della disgiuntiva “o” posta tra la parola “minaccia” e la parola “molesta”. Aderendo, dunque, a tale ultimo intervento giurisprudenziale, ne consegue che, ai fini della configurazione del delitto di atti persecutori, non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia provocato nella vittima uno stato di ansia e di timore[3].

In conseguenza delle condotte penalmente rilevanti che il legislatore ha posto a fondamento del delitto di atti persecutori, ossia le minacce e le molestie, ci si è, fin dal giorno seguente all’entrata in vigore della novella del 2009, posti l’interrogativo quale fosse il rapporto tra il reato di cui all’art. 612 bis c.p. e le differenti, e autonome, figure di reato di molestie e di minacce. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione si è lungamente interrogata, proprio in ragione dell’elevatissima risonanza pratica che i differenti modi di intendere la problematica avrebbero suscitato. Più recentemente, allora, il giudice di legittimità si è pronunciato, confermando il proprio consolidato formante giurisprudenziale, affermando che il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di "danno" consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di "pericolo", consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva[4]

3. Gli effetti della condotta persecutoria e bene giuridico tutelato

Così esaminata e descritta la qualificazione oggettiva del delitto di atti persecutori è giustificata, adesso, l’analisi della sua natura giuridica e del bene giuridico tutelato dalla stessa. Dalla lettura della norma, e in particolare, dallo screening della parte in cui sancisce … in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita … non può farsi a meno di constatare che il legislatore abbia attribuito al delitto in termini natura di illecito lesivo della libertà morale[5]. Gli atti persecutori, del resto, costituiscono comportamenti vessatori idonei a mortificare le condizioni soggettive della vittima, incidendo sull’autonomia di determinazione delle modalità del comportamento e turbando quegli aspetti complementari, ma indispensabili, di quiete e di tranquillità della stessa[6]. Tanto è  vero, peraltro, che la stessa Corte di Cassazione è giunta ad affermare il principio secondo cui l'art. 612 bis c.p. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica - ed in definitiva della persona nel suo insieme - che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà[7].

A tal proposito, dunque, va chiarito che il legislatore, proprio al fine di tutelare la " tranquillità psichica" della vittima del reato, ha tipizzato quali siano gli effetti del comportamento agente che assurgano a fenomeni penalmente rilevanti e quindi suscettibili di sanzione penale. A tal fine il legislatore ha, dunque, disciplinato una pluralità di effetti derivanti dalle condotte poste in essere dall’autore del reato che egli ritenga tali da incidere sulla libertà morale dell’offeso. In particolare, però,il legislatore ha tipizzato i suddetti effetti in termini assai differenti a seconda delle conseguenze che le condotte lesive producono sullo stato d’animo della persona offesa. Ed infatti, la lesione alla libertà morale dell’individuo presenta una maggiore intensità ove quest’ultimo si trovi costretto ad alterare le proprie abitudini di vita" con uno schema che è assai vicino a quello della violenza privata, che costituisce l’esempio più rilevante della categoria di illeciti offensivi del bene giuridico in questione. Tale lesione, piuttosto, presenta una intensità minore ove la vittima sia stata costretta a subire "un grave e perdurante stato d’ansia o di paura od un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata all’agente da relazione affettiva " con risvolti, evidentemente, che attengono all’equilibrio psico-fisico della persona stessa. Vengono in rilievo, al riguardo, il danno alla salute e il danno all’incolumità personale, quali beni ulteriori concretamente aggrediti dalla serie di atti persecutori, sicché, in tal senso, può dirsi che il reato in esame abbia, peraltro, natura plurioffensiva. 

Ciò posto, è bene precisare cosa debba intendersi per “alterazioni delle proprie abitudini di vita” e per “patimento di un grave e perdurante stato d’ansia o di paura od un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata all’agente da relazione affettiva”. Sicché, con riguardo all’esame dell’ipotesi di alterazione delle abitudini di vita della persona offesa ci si è interrogati lungamente, proprio in virtù della natura descrittiva delle conseguenze derivanti dal comportamento criminoso e tipizzate da legislatore, cosa debba intendersi per alterazione delle abitudini di vita. La questione, che prima facie pare ininfluente sotto il profilo pratico, in verità assume notevole rilevanza. Ed invero, La Suprema Corte di Cassazione, onde ricondurre il concetto sin qui menzionato ad una categoria giuridicamente valida, ha precisato che la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta, oltre dal patema d’animo patito dalla vittima in relazione agli eventi riconducibili sotto la fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p. che la vedevano soggetta alla persecuzione, anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano stati idonei a determinare in una persona comune un tale effetto destabilizzante[8].

Passando, poi, all’esame della seconda ipotesi tipizzata dal legislatore, la Suprema Corte di cassazione ha chiarito che è configurabile il delitto di stalking quando il comportamento minaccioso o molesto di taluno, posto in essere con condotte reiterate, abbia cagionato un grave e perdurante stato di turbamento emotivo, essendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità, dell'equilibrio psicologico della vittima. (Tale evento destabilizzante è stato ritenuto sussistente dalla Corte in una fattispecie relativa a ripetuti atti di danneggiamento non rivolti contro l'incolumità fisica della vittima, bensì verso beni di proprietà della medesima)[9]. In particolare, l'evento consistente nel "fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata [all'agente] da relazione affettiva" dovrà essere desunto da una ponderata valutazione della gravità delle condotte e della loro idoneità a rappresentare una minaccia credibile di un pericolo incombente; mentre l'evento alternativo consistente nel "grave stato di ansia o di paura" andrà identificato in una condizione emotiva spiacevole, accompagnata da un senso di oppressione e da una notevole diminuzione dei poteri di controllo volontario e razionale, che deve essere grave e non passeggera e potrà assumere rilevanza penale anche se non si traduce in precise sindromi canonizzate dalla scienza medico-psicologica[10].

4. La reiterazione degli atti di minacce e di molestie

Proseguendo nell’esegesi della norma, elemento caratterizzante la condotta e di ineluttabile necessità è quello della reiterazione degli atti di "minaccia o molesta"  sicché, occorre, al fine di comprendere pienamente i limiti e i termini di applicabilità della suddetta norma, individuare cosa si intenda, anzitutto, per reiterazione, onde poi cogliere quali siano le refluenze sotto il profilo applicativo di una siffatta  costruzione semantica dei termini[11]. Più precisamente per reiterazione di atti si intende la “ripetizione di comportamenti aventi le medesime caratteristiche[12]. Riferita alle minacce ed alle molestie, dunque, essa implica la pluralità di gesti e di azioni caratterizzati dal contenuto intimidatorio e dal connotato molesto per chi ne rimane destinatario[13]. In particolare, integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte di minaccia o di molestia e come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice[14]. Ancora, poi, in ordine all’individuazione del destinatario, ai fini della configurabilità del delitto de quo, è da ritenersi condotta penalmente rilevante anche quella di colui che compie atti molesti ai danni di più persone, costituendo per ciascuna motivo di ansia, non richiedendosi, ai fini della reiterazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice, che gli atti molesti siano diretti necessariamente ad una sola persona, quando questi ultimi arrecando offesa a diverse persone abitanti tutte nello stesso edificio, provocando turbamento a tutte le altre[15].

Ciò posto, va precisato che gli atti di minaccia o di molestia possono essere omogenei, oppure eterogenei e questo nulla esclude che tutti, seppur eterogenei, possano essere ricondotti ad un unicum confluente nel dettato normativo di cui all’art. 612 bis c.p. La norma incriminatrice, infatti, li pone sullo stesso piano, essendo indifferente che nel caso concreto si tratti di protrazione di intimidazioni, oppure della prosecuzione di azioni disturbatrici; o che le une si alternino alle altre, purché, però, gli atti siano distinti l’uno dall’altro e si susseguano nel tempo. Piuttosto, non potrebbe affatto configurarsi il reato in termini ove l’agente abbia posto in essere una singola azione, avente natura istantanea, od una singola azione avente natura permanente. Ed infatti, in tali casi, ove l’azione assumesse i connotati di un’ipotesi di reato si configurerebbero le diverse ipotesi del reato istantaneo, nel primo caso, e del reato permanete nel secondo, i quali, a loro volta, produrrebbero effetti assolutamente differenti la cui trattazione in tale sede si omette per brevità.  Sicché, in latri termini, si configura il reato di atti persecutori, quale fattispecie onnicomprensiva ed autonoma, solo ove i singoli fatti vengano legati da un elemento comune, rappresentato dall’identità dell’agente, dalla loro ripetizione e dalla loro caratteristica di essere idonei a cagionare un determinato risultato sulla vittima. Per tali ragioni, dunque, il delitto di atti persecutori è un illecito che presenta la tipica struttura del reato abituale a reiterazione necessaria[16]. La lettera dell’art. 612 bis c.p., infatti, richiede, perché possa configurarsi l’ipotesi delittuosa in esame, un elemento materiale della condotta che sia costituito necessariamente da una pluralità di azioni. Ed invero, il primo comma dell’art. 612 bis c.p. sul punto appare lapalissianamente  chiaro sancendo, proprio la locuzione, … condotte reiterate … conformemente al modello astratto di una condotta riprovevole proprio perché continuativa, prolungata e ripetuta, nei suoi aspetti ed effetti sgraditi e disturbatori. Peraltro, pur aderendo al brocardo latino per cui rubrica non fit interpretatio, non può farsi a meno di notare che la stessa rubrica della disposizione citata si esprimere, nel far riferimento alla condotta meglio descritta al primo comma, in termini pluralistici: … atti persecutori … . Gli atti devono essere persecutori ed in questa nozione è essenziale il riferimento ad un comportamento che, per la sua ossessività e ripetizione assillante, assuma il connotato della “non ulteriore sopportabilità”. Attraverso il requisito della reiterazione il legislatore ha, peraltro, recuperato determinatezza alla descrizione della fattispecie tipica, la quale richiede una pluralità di episodi minacciosi e molesti. 

5. L’elemento soggettivo del reato

Una volta aver sondato le caratteristiche oggettive del delitto de quo è bene verificare quale sia l’elemento soggettivo del reato. Occorre cioè valutare quale sia il nesso psichico intercorrente tra il soggetto attivo e l’evento lesivo. Ciò in quanto, necessariamente, il verificarsi di un singolo atto deve imputarsi alla volontà del soggetto agente ai sensi dell’art. 27 Cost.. Dalla lettura della norma pare indubbio, allora, che questo tipo di reato non possa configurarsi a mero titolo di colpa. Esso, infatti, avendo natura di delitto (per il quale la legge prevede la pena della reclusione e della multa) costringe l’interprete ad applicare direttamente il principio, desumibile dall’art. 42 c.p., secondo il quale il delitto è ordinariamente doloso, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente previsti dalla legge. 

A prescindere, però, da tale considerazione preliminare, molteplici sono gli aspetti che impongono di ritenere il reato di atti persecutori di natura dolosa. Anzitutto, infatti, va sottolineato che la stessa struttura del reato in questione indica che per la sua configurazione l’autore agisca reiteratamente il che, di per sé, implica una volontà ripetuta di perpetrare le medesime azioni moleste o minacciose verso un determinato soggetto. Ancora, altro elemento consiste nella unidirezionalità della condotta complessiva, la quale deve essere rivolta in danno dello stesso soggetto passivo. Altro elemento sintomatico della dolosità del reato in oggetto, poi, è dato dal richiamo – operato dallo stesso art. 612 bis c.p. – alla minaccia e alla molestia, le quali consistono in un delitto che implicano, di per sé, la sussistenza del dolo. Della molestia, peraltro, in giurisprudenza sé rintracciata una natura caratterizzata dalla direzione della volontà verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà[17]

Ciò posto, però, occorre chiedersi – nella vasta gamma offerta dal diritto penale generale delle differenti modulazioni dell’elemento doloso – quale sia quella incarnata dal dolo del delitto di atti persecutori. Sul punto, però, non pare vi sia univocità di vedute. Ed infatti, la dottrina sembra piuttosto unanime nel ritenere che tale reato sia caratterizzato proprio dal dolo specifico e ciò in quanto le azioni moleste e di minaccia devono essere di per sé idonee a cagionare effetti lesivi, e tal’ultima caratteristica deve essere conosciuta e voluta dall’agente. Del resto, il dolo specifico consiste in uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente, ma che, ai fini dell’esistenza della fattispecie, non occorre che sia effettivamente conseguito[18]. Il legislatore, infatti, ha strutturato il complesso delitto di atti persecutori prevedendo la consumazione di esso allorquando l’agente ponga in essere una ripetizione di atti che non soltanto è rivolta a prospettare un male ingiusto, la cui attuazione dipende dal soggetto minacciante, ma in modo tale che  la reiterazione assuma il connotato della persecuzione, la quale comporta naturalmente effetti che sono ulteriori rispetto alla singola azione intimidatrice e molesta. L’illecito, come si evince dal testo normativo, si caratterizza proprio per il fatto che taluno sottopone volontariamente e consapevolmente ad una serie di comportamenti che egli sa bene essere produttivi, nel volgere del tempo, di un risultato pernicioso che è previsto e che è parte stessa della condotta attuata dall’agente[19]

La giurisprudenza di legittimità, però, contraddicendo l’orientamento da ultimo esposto, ha sostenuto – con indirizzo altrettanto consolidato – che nel delitto di atti persecutori, l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il quale consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e che, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi, cosa che, piuttosto, occorrerebbe ove si trattasse di dolo specifico[20]. A ben vedere, la questione non pare di così poco momento, ed invero – a parere di chi scrive – sembrerebbe maggiormente condivisibile la tesi sostenuta dalla giurisprudenza, almeno sotto un duplice profilo di carattere semantico. Sotto il primo punto di vista, del resto, la norma – seppur ben scritta – non lascia spazio ad una interpretazione che propenda nel senso della dottrina. L’art. 612 bis c.p. non fa, infatti, menzione di alcun fine che l’autore debba porsi nel consumare il delitto, non impone che questo si sia programmato fin dall’inizio le condotte consumare in seguito e non rende la norma inoperante al mancato ricorrere di alcune delle condizioni da essa stessa imposte. A tal ultimo riguardo, infatti, anche al ricorrere di appena alcune di esse, il delitto può ben dirsi configurabile. Sotto il secondo punto di vista, poi, la norma nasce – come già s’è visto sub par 1 – onde porre un freno al dilagante fenomeno delle persecuzioni a danno di soggetti piuttosto vulnerabili il cui epilogo, in genere, era il peggiore. Orbene, non v’è chi non veda come punire un delitto a titolo di dolo specifico sarebbe significato restringere di non poco l’area del penalmente rilevante, imponendo al giudice un vaglio particolarmente insidioso in ordine alle condizioni psichiche con cui l’autore avrebbe posto in essere le condotte delittuose, col rischio, allora, di giungere ad un epilogo assolutorio anche qualora, pur non essendo state rispettate tutte le condizioni imposte dall’art. 612 bis c.p., le condotte dell’agente avrebbero comune reso nocumento alla persona offesa.

6. L’indagine sulla imputabilità del persecutore

Un tema spesso di notevole risonanza, nel corso del giudizi penali, è quello inerente il vizio di mente. Come è, per prassi, agevole notare spesso la difesa innanzi a situazioni c.d. borderline invoca il vizio – parziale o totale – di mente, al fine di tentare una strategia difensiva che, seppur non giunga ad un esito completamente assolutorio, renda quantomeno “libero” da vincoli di natura sanzionatoria l’imputato.Tale tema, peraltro, con riferimento al delitto di atti persecutori si presenta ancor più rilevante proprio in quanto trattasi di fattispecie delittuosa caratterizzata, per definizione, da aspetti di anormalità sotto il profilo soggettivo della condotta dell’agente. In particolare, si intende per vizio di mente – ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p. - uno stato mentale derivante da infermità la quale deve avere escluso, o grandemente scemato, la capacità di intendere e/o di volere del soggetto e ovviamente deve essere in stretto collegamento con il fatto illecito, posto che deve essere esistita nel momento di estrinsecazione della condotta e su questa deve avere influito[21].  Se ciò è – seppur con le ovvie difficoltà quivi omesse per brevità – quantomeno dimostrabile per quel che concerne altre fattispecie di reato, tale attività probatoria si fa più severa, allorquando ci si trovi in presenza del delitto di atti persecutori.

Come si è avuto modo di vedere nel corso degli anni, fin troppo spesso si è dato luogo ad una assoluzione per vizio totale di mente o ad una riduzione della pena per vizio parziale di mente. Benché in questa sede non ci si voglia contrapporre ai più imponenti studi criminologici sul punto, a parere di chi scrive, il fenomeno persecutorio e, dunque, il fenomeno assolutorio per vizio totale di mente o quello di riduzione della pena per vizio parziale di mente andrebbe arginato. Ed invero, nel caso in esame, andrebbe evitata la rischiosa dilatazione delle nozioni di vizio totale e parziale di mente proprio in ragione del fatto che il reato in questione richiede una reiterazione di atti suscettibile di cagionare un determinato effetto pregiudizievole sulla persona presa di mira. Occorrerà, dunque, imporre, a chi invoca la mancanza o la riduzione dell’imputabilità, di dover sostenere che lo stato psicologico viziato ricorreva per tutta la durata della protrazione delle condotte illecite. Ciò, però, non toglie che possibilmente i singoli atti, di volta in volta, siano stati sorretti da capacità piena od essere dovuti a disequilibrio valutabile come vizio di mente. Ma il reato in parola si configura per la serie di molestie e di minacce, sorrette da una ideazione e volizione finalizzata ad interferire negativamente nella vita altrui; ed è, dunque, con riferimento al complesso delle condotte ed a quella finalità che le riunisce che andrebbe meglio condotta l’indagine concernente l’imputabilità dell’agente[22]

7. Il delitto di Stalking è reato ad evento di danno

Proseguendo nell’esegesi del testo normativo, occorre interrogarsi se il delitto de quo sia un reato di evento ovvero un reato di pericolo in concreto[23]. In particolare, dalla lettera della norma emerge che " è punito […] chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita." Preliminarmente va chiarito, però, che il delitto in questione, con assoluta certezza, non possa dirsi reato pericolo in concreto – contrariamente a quanto sostenuto da certa dottrina[24] - e ciò proprio in quanto non è stata accolta la versione della Commissione Giustizia della Camera dei deputati che configurava l’illecito come reato di pericolo concreto, il che avrebbe, altrimenti, comportato un’eccessiva estensione dell’operatività del reato, con il rischio di incriminare fatti inoffensivi[25].

Ciò posto, dunque, non resta che valutare la seconda opzione ermeneutica. Ed infatti, per costante giurisprudenza il delitto di atti persecutori è stato, più adeguatamente, ricondotto alla categoria dei reati di evento, implicando peraltro che la serie di atti intimidatori o molesti produca realmente nel soggetto passivo lo stato di ansia, la paura, il timore o il mutamento di abitudini indicati specificamente nella norma punitiva.  La norma punitiva, del resto, pretende che le minacce e/o le molestie non siano soltanto reiterate, per dar vita al più complesso illecito, ma siano tali da cagionare effettivamente stati soggettivi pregiudizievoli che di seguito si vanno ad enucleare. Sul punto, altresì, la giurisprudenza di legittimità si è più volte pronunciata costituendo un vero e proprio formante giurisprudenziale, ben radicato e consolidato. In particolare, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che il reato in termini è abituale, a struttura causale e non di mera condotta, che si caratterizza per la produzione di un evento di "danno" consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, alternativamente, di un evento di "pericolo", consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva[26].

Più precisamente, l’evento del reato di atti persecutori è indicato dalla norma incriminatrice con riferimento a tre fattispecie ugualmente sufficienti ed idonee ad integrare l’elemento costitutivo: il perdurante e grave stato d’ansia; il fondato timore per l’incolumità fisica; il mutamento delle abitudini di vita[27]. Lo stato d’ansia e di paura deve essere perdurante e grave, eliminando dall’area del penalmente rilevante ai fini dell’art 612 bis c.p. quanto costituisce l’effetto ordinario e comune delle minacce e delle molestie. Peraltro, la giurisprudenza ha sempre chiarito che una delle maggiori difficoltà sul punto è proprio la prova dei fatti costituenti oggetto dell’imputazione, sicché la stessa Corte di Cassazione ha chiarito che – al fine di evitare il rischio di una probatio diabolica - la prova dell'evento del delitto  de quo essere ancorata a elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata[28]. Ciò, proprio, al fine di evitare che una rilevante figura criminosa venga a dipendere da sensazioni momentanee o fugaci, di difficilissima prova e sostanzialmente trascurabili, se non nei limiti in cui è prevista la modesta pena per i fatti di cui agli artt. 612 e 660 c.p.. Infine, la gravità richiesta dalla norma dipende, in genere, dalla gravità intrinseca delle minacce ricevute, dalla pericolosità dell’agente e dalle circostanze che nel concreto ne fanno apprezzare la estrema probabilità di verificazione del danno ingiusto. La protrazione dello stato soggettivo può durare per quanto si susseguono le azioni disturbatrici, ma pare più conforme alla lettera della norma ritenere che essa corrisponda ad una alterazione irreversibile e patologica. Il timore per l’incolumità propria o di persone legate da vincoli di sangue o di affetto deve essere fondato. Esso, dunque, non può essere immaginario o semplicemente ipotizzato; per assumere rilevanza, deve trovare riscontro in elementi concreti ed univoci, denotanti proprio la possibile e probabile evoluzione di una vicenda oppressiva verso eventi aggressivi e drammatici.

8. La configurabilità dell’ipotesi del delitto tentato

Orbene, una volta aver esaminato la struttura del delitto di atti persecutori, occorre chiedersi se, trattandosi di reato di evento, sia compatibile con la figura del delitto tentato ai sensi dell’art. 56 c.p..  A bene vedere, dunque, proprio in virtù della struttura di cui si compone il delitto in termini, pare indubbio che questo possa configurarsi anche nella sola forma tentata. Del resto, ogni volta in cui non si verifichi l’evento della condotta e questa assuma i connotati della univocità e della idoneità, esiste spazio per la configurazione di un tentativo punibile; nonché ove ne ricorrano le condizioni, per una desistenza volontaria e per il cosiddetto ravvedimento operoso. 

In realtà, però, a parere dello scrivente è proprio la stessa struttura del reato che lascia propendere una in applicazione concreta della figura del tentativo. Si consideri, infatti, che il legislatore ha rimpinguato la figura del delitto di atti persecutori proprio con una serie prolungata di comportamenti, ciascuno, idoneo a costituire autonomi illeciti penali, di minaccia o di molestia. Il fatto, allora, che non si verifichi l’evento di pregiudizio per il soggetto passivo, per effetto di un fattore esterno, parrebbe impedire la consumazione del reato, pur lasciando sopravvivere i distinti episodi di reato commessi. Sarà, poi, assai difficile dimostrare nel caso concreto, che se le azioni di disturbo fossero continuate si sarebbe verificato l’evento di reato; e che per contro il comportamento dell’autore non si sarebbe risolto in una mera serie di intimidazioni e di atti petulanti, sorti sotto lo stimolo dell’occasione e non volutamente cercati in attuazione di un intento persecutorio. Sul punto, però, la giurisprudenza sembra non darci ragione ed invero la Suprema Corte di cassazione ha sancito che non vi sono dubbi sulla configurabilità del tentativo il quale è certamente concepibile nel caso in esame. Ciò, in particolare, allorquando la condotta dell’agente viene arrestata, dopo una o più condotte persecutorie, mentre si accinge, con atti idonei e diretti in modo non equivoco, a compiere l’ultima condotta che, unita alle precedenti, configurerebbe il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. così realizzandosi l’ipotesi del tentativo incompiuto, ovvero, qualora, pur se commessa l’ultima condotta, non si verifichi l’evento ivi previsto, così realizzandosi l’ipotesi del tentativo compiuto[29].

9. Le circostanze aggravanti

L’art. 612 bis c.p. prevede, poi, alcune situazioni che operano come circostanze aggravanti del reato e comportano, dunque, un aumento della pena stabilita per il reato non aggravato. In particolare, il co. 2 e il co. 3 dell’art. 612 bis c.p. sanciscono che “la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 l. n. 104/1992, ovvero con armi o da persona travisata”.

Orbene, la prima delle due circostanze aggravanti consiste nell’ipotesi tipica di colui che non si rassegna alla perdita del partner, rendendosi così autore di vere e proprie persecuzioni nei suoi confronti. La disposizione, in particolare, si riferisce, a situazioni regolate dalla legge - quali separazione o divorzio - non facendo riferimento, invece, alla separazione di fatto che è situazione priva di effetti giuridici ed, anzi, inosservante degli obblighi di coabitazione e di fedeltà del vincolo matrimoniale. A bene vedere, però, la norma prosegue, precisando che la pena è aggravata anche allorquando il fatto sia commesso da soggetto legato da relazione affettiva alla persona offesa. A parere di chi scrive, è desumibile da ciò, dunque, che la norma abbia voluto includere nell’area del penalmente rilevante anche tutte quelle ipotesi delittuose nelle quali, non necessariamente siano esistite relazioni tra la vittima e il persecutore consacrate da vincoli giuridici, ma anche ipotesi nelle quali sia semplicemente intervenuta una separazione di fatto, ovverosia allorquando tra la vittima e il persecutore si sia instaurata una semplice relazione affettiva sviluppatasi in una convivenza more uxorio, ovvero, ancora, allorquando tra la vittima e il persecutore si sia instaurata una semplice frequentazione, motivata da sentimenti di innamoramento, non sfociata poi in un matrimonio o in una convivenza more uxorio. Infine, la norma prevede un’ulteriore ipotesi aggravante allorquando il fatto sia commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con le disabilità, ovvero se è commesso con armi o da persona travisata. È indubbio, dunque, che il legislatore abbia previsto particolari incrementi di pena nelle circostanze di cui sopra proprio perché ritenendo le situazioni o gli individui ivi indicati suscettibili di maggiore vulnerabilità e, dunque, di maggiore protezione così inasprendo la risposta sanzionatoria.

Le circostanze de quibus, infine, importano aumenti di pena, com’è evidente, differenti, ed infatti quella descritta al secondo comma consiste in una circostanza ad effetto comune – in quanto comporta un aumento di pena non superiore ad un terzo - mentre quella descritta al terzo comma consiste in una circostanza ad effetto speciale – poiché comporta un aumento della pena superiore ad un terzo. Ad ogni modo, è bene precisare che gli incrementi di pena – in tal caso – vengono compiuti sulla base della pena ordinaria, già prevista al co. 1 dell’art. 612 bis c.p.. Altrimenti si tratterebbe di circostanze aggravati ad efficacia speciale che comporterebbero, invece, una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per il cosiddetto "reato base".

10. Analisi del tema della procedibilità

Volgendo, così, al termine della presente disamina è bene coinvolgere la trattazione anche del tema in ordine alle questioni di procedibilità che pone sul tappeto l’art. 612 bis c.p.. Quest’ultimo,infatti, nelle sue battute conclusive sancisce che “il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'art. 3, l. 104/1992, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio”.

Dalla lettera del succitato testo normativo, dunque, si evince che l’art. 612 bis c.p. in particolare fa menzione di una ipotesi di procedibilità per c.d. “generale” e di talune ipotesi per c.d. “speciali”. Ed infatti è possibile leggere, prima facie, che la procedibilità è su istanza di parte, sicché con proposizione, presso le competenti autorità, di denuncia-querela ove sia esplicitata una volontà querelato ria da parte delle persona offesa nei confronti dell’autore del delitto. A parere dello scrivente, allora, ciò è stato determinato dalla necessità – avvertita dal legislatore – di lasciare alla stessa vittima del reato la scelta sul rendere note, inevitabilmente, attraverso l’accesso alla giustizia, vicende mortificanti e che si può preferire non vengano diffusamente conosciute. Ed invero, trattasi di ipotesi delittuose che tendono a mortificare la morale della persona offesa. Non tutti, però, percepiscono in egual misura tali mortificazioni, sicché sarebbe parso, quasi aberrante che il legislatore si fosse sostituito alla vittima del reato, nella scelta se procedere nei confronti del persecutore, anche allorquando quelle offese, pur apparendo agli occhi dell’uomo medio di notevole rilevanza, non avrebbero arrecato alcun nocumento alla persona offesa, possibilmente perché caratterizzata dal carattere fortemente temprato. Ancora, sarebbe parso aberrante che il legislatore si fosse sostituito alla vittima del reato, nella scelta se procedere nei confronti del persecutore, anche ove la stessa, provando sentimenti di pudore avverso gli accadimenti che l’hanno vista protagonista, avrebbe preferito piuttosto rinunciare a chiedere la punizione del colpevole di tali atti, purché la notizia non fosse veicolata al di fuori delle “mura domestiche”.

Come contrappeso a tale autonomia conferita alla persona offesa, però, il legislatore ha previsto un termine straordinario entro cui poter proporre l’atto querelatorio, ossia di sei mesi, in deroga all’ordinario termine decadenziale di tre mesi. Trattasi di un termine, peraltro, che nel nostro ordinamento penale già esiste in particolari ipotesi che, proprio in conseguenza della speciale vulnerabilità cui la persona offesa in genere è soggetta, prevedono un lasso di tempo decadenziale derogatorio rispetto all’ordinario. Trattasi, in tale seconda ipotesi, dell’art. 609 septies c.p. il quale prevede, in relazione ai delitti di violenza sessuale, un termine decadenziale di sei mesi. In tale ultimo caso, però, la querela è irrevocabile. Nell’ipotesi del delitto di atti persecutori, invece, è fatta salva la possibilità, per la persona offesa, di rimettere la querela, il che sembra costituire uno strumento efficace, a disposizione del soggetto passivo, onde spingere l’autore a desistere dalle azioni persecutorie, evitando di affrontare le conseguenze penali della condotta. Ad ogni modo, però, ciò che sul punto pare ancora di difficile interpretazione è la individuazione del tempus commissi delicti la cui individuazione chiara e certa consentirebbe, altrettanto, di individuare il termine da cui far decorrere il termine decadenziale per proporre la querela. A tal proposito, infatti, il legislatore ha affidato la determinazione all’interprete, fidando nei principi generali del diritto penale e processuale penale A ben vedere, però, la speciale lunghezza del termine previsto per la proposizione della querela supplisce alle incertezze insorte in concreto.

Gli articoli 612 bis del codice penale e l’art. 8 del D.L. n. 11/09 prevedono, in ultimo, situazioni nelle quali la procedibilità per il reato di atti persecutori è d’ufficio. In tali casi, infatti, le esigenze della repressione penale sono state considerate prevalenti rispetto alla necessità di tutelare il riserbo e la discrezione della persona offesa. La prima delle summenzionate ipotesi, dunque, è quella del minore d’età. Esso, ovviamente, è un soggetto che gode di speciale protezione quando è vittima di fatti illeciti, proprio in quanto il minore d’età presenta una diminuita capacità di reagire di questi soggetti, non ancora giunti al pieno sviluppo fisico e psichico e nella loro maggiore sensibilità alle azioni che possono creare effetti perniciosi sul loro intelletto e sul loro temperamento. Del resto il delitto di atti persecutori implica, proprio, effetti sull’equilibrio psico-fisico della vittima, sicché è parso opportuno che nei confronti del minore si inasprissero ulteriormente le tutele e le cautele già di per sé piuttosto consistenti nei confronti dell’adulto. Analoghe considerazioni vanno, poi, svolte relativamente alle persone disabili così come individuate dall’art. 3 l. 104/92. Altro caso di procedibilità d’ufficio, ancora, è quello della connessione con altro delitto procedibile d’ufficio. La connessione è sostanzialmente configurabile quando i due fatti siano intimamente legati tra loro di talché da non potersi conoscere di quello perseguibile d’ufficio senza svelare anche la condotta integratrice dell’altro. Tale condizione può verificarsi anche se i fatti in questione siano emersi in tempi diversi ed abbiano dato luogo a procedimenti distinti, come pure indipendentemente dalla circostanza che per il reato perseguibile d’ufficio l’imputato sia stato assolto per oggettiva inesistenza del fatto. 

Note e riferimenti bibliografici

[1] A. M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Giapichelli, 2010, pag 148-153, la quale puntualmente richiama le decisioni della Corte Costituzionale n. 364/1988 e 274/1989.
[2] Cfr. ex plurimis Cass. Pen. 22 giugno 2010, n. 34015 in www.italgiure.it, Rv. 248412.
[3] Cfr. ex plurimis Cass. Pen.  19 maggio 2011, n. 29872 in www.italgiure.it, Rv. 250399.
[4] Cfr. ex plurimis Cass. Pen.  16 gennaio 2015, n. 9222 in www.italgiure.it, Rv. 262517.
[5] S. De Filippis, Elementi idonei ad integrare il reato di stalking, 2014, in Giur. Pen.
[6] F. StragapedeGli atti persecutori nell’ordinamento giuridico italiano, 2013 in www.anfp.it.
[7] Cass. Pen. 11 novembre 2014, n. 2283 in www.italgiure.it, Rv. 262727.
[8] Cass. Pen. 9 maggio 2012, n. 24135, in www.italgiure.it, Rv 253764.
[9] Sul punto, L. De Fazio e C. Sgarbi , Stalking e rischio di violenza, uno strumenti per la valutazione e la gestione del rischio, 2012, Franco Angeli, Milano, p. 87, riportano quale formante giurisprudenziale Cass. Pen. 7 marzo 2011, n. 8832.
[10] A., Valsecchi, In tema di Stalking, in Dir. Pen. Cont., 2010.
[11] G. Losappio, Vincoli di realtà e vizi del tipo nel nuovo delitto di “Atti persecutori”. “Stalking the Stalking”, in Dir. pen. proc., 2010, n. 7, pagg. 872 e segg.
[12] G. Devoto e G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, voce Reiterazione, Le Monnier, 2010. Sul reato abituale, invece, si vedano G. Fiandaca ed E. Musco, Diritto Penale, Parte Generale, Zanichelli, 2015, pag. 196; G. Fornasari, voce Reato abituale, in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; M. Petrone, voce Reato abituale, in Noviss. Dig. it., XIV, Torino, 1967.
[13] L’esperienza ha posto in luce la estrema varietà dei modi con i quali è stata attuata l’ingiustificata interferenza nell’altrui sfera di libertà, con risvolti altamente invasivi e capaci di instillare nella vittima un senso di oppressione, di tensione e di paura. Le minacce e le molestie, infatti, molto spesso vengono poste in essere attraverso lettere anonime o comunicazioni telefoniche. Sono stati frequenti i casi di missive contenenti frasi minatorie, ricattatorie od offensive, ed altrettanto frequenti i casi di disturbo arrecato con il mezzo del telefono. Ciò non toglie, però, che le minacce e molestie possano concretarsi anche in appostamenti, pedinamenti, in fastidiose ed insistenti presenze, stazionamenti nei pressi dell’abitazione, della scuola, del luogo di lavoro, in atti vandalici allusivi e di dispetti, nella collocazione di oggetti dal significato inquietante e consimili contegni.
[14] Cass. Pen. 05 giugno 2013, n. 46331, Rv. 257560 e Cass. Pen. 21 gennaio 2010, n. 6417 in www.italgiure.it, Rv. 245881.
[15] Cass. Pen. 07 aprile 2011, n. 20895 in www.italgiure.it , Rv. 250460.
[16] Cass. Pen. 22 dicembre 2014, n. 20065 in www.italgiure.it , Rv. 263552.
[17] F. StragapedeGli atti persecutori nell’ordinamento giuridico italiano, 2013 in www.anfp.it.
[18] F. StragapedeGli atti persecutori nell’ordinamento giuridico italiano, 2013 in www.anfp.it.
[19] F. StragapedeGli atti persecutori nell’ordinamento giuridico italiano, 2013 in www.anfp.it.
[20] Cfr. ex plurimis Cass. Pen. 19 febbraio 2014, n. 18999, in www.italgiure.it, Rv. 260411 e Cass. Pen. 27 novembre 2012, n. 20993 in www.italgiure.it, Rv. 255436.
[21] Cass. Pen. Sez. Un. 25 gennaio 2005, n. 9163, in www.italgiure.it, Rv. 230317.
[22] Cfr. Cass. Pen. 20 ottobre 2010, n. 39804 in www.italgiure.it, Rv. 249108 secondo cui anche qualora l’imputato venisse assolto per vizio totale di mente sarebbe applicabile nei confronti, se ritenuto socialmente pericoloso, una qualsiasi misura di sicurezza e in particolare quella della libertà vigilata.
[23] V. Patalano, Significato e limiti della dommatica del reato di pericolo, Jovene, 1975, pagg. 182-183.
[24] V. Maffeo, Il nuovo delitto di atti persecutori (stalking): un primo commento al D.L. n. 11 del 2009 (conv. con modif. dalla L. n. 38 del 2009), in Cass. Pen., 2009, in particolar modo il paragrafo 5.
[25] A. Barbazza e E. Gazzetta, Stalking: il nuovo reato di “atti persecutori”, 2009 in www.altalex.it.
[26] Ex plurimis  Cass. Pen. 07 marzo 2014, n. 23485 in www.italgiure.it, Rv. 260083 - Cass. Pen. 5 giugno 2012, n. 39519 in www.italgiure.it, Rv. 254972 – Cass. Pen. 5 febbraio 2010, n. 17698 in www.italgiure.it Rv. 247225.
[27] F. Agnigno, Il nuovo delitto di atti persecutori, c.d. stalking,  in Corr. Merito, VII, p.p. 770 ss.
[28] Cfr. Cass. Pen. 28 febbraio 2012, n. 14391  in www.italgiure.it,  Rv. 252314.
[29] S. De Filippis, commento a Cass. Pen. 11 febbraio 2014, n. 6384, 2014 in Giur. Pen.