Pubbl. Mer, 13 Gen 2016
Nuove questioni di diritto in materia di affidamento in house.
Modifica paginaIl Consiglio di Stato, Sez. V, con ordinanza del 20 ottobre 2015, n.4793 (Pres. Maruotti – est. Tarantino), ha rimesso alla Corte di Giustizia Europea due questioni di diritto in ordine al requisito dell´attività prevalente ai fini dell´affidamento in house di un servizio pubblico, anche in relazione alle nuove direttive europee nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE.
1. La questione di fatto. 2. Il quadro normativo e giurisprudenziale. 2.1. Il quadro normativo interno. 2.2. Il quadro normativo europeo. 3. L'analisi del Consiglio di Stato.
1. La questione di fatto.
Il giudizio trae origine da un ricorso proposto dalla Undis Servizi s.r.l. al TAR Abruzzo – L’Aquila, per l’annullamento della delibera del Consiglio Comunale di Sulmona con cui quest’ultimo ha ritenuto sussistenti i requisiti per l’affidamento in house del servizio di gestione del ciclo integrato dei rifiuti urbani alla Co.ge.sa S.p.A.
Il TAR ha respinto il ricorso ritenendo sussistenti i requisiti per l’affidamento in house.
Avverso la sentenza del T.A.R la Undis Servizi s.r.l. ha proposto appello deducendo la insussistenza del “controllo analogo” tra il Comune di Sulmona e la Co.ge.sa S.p.A., necessario ai fini dell’affidamento in house, affidando le proprie richieste ai seguenti rilievi:
- il Comune di Sulmona è socio di minoranza della Co.ge.sa. S.p.A.;
- la convenzione sottoscritta da tutti gli enti soci con la Co.ge.Sa S.p.A.,
- ritenuta determinante per il T.A.R, è risultata postuma rispetto alla delibera che ha determinato il Comune per l’affidamento in house;
- lo Statuto della Co.ge.sa. S.p.A. riconosce agli organi sociali un potere di autonomia inconciliabile con la nozione di “controllo analogo”;
- inoltre l’appellante ha dedotto l’insussistenza dell’ulteriore requisito della “attività prevalente” a favore degli enti, indicata dall’art. 12 della direttiva CEE 2014/24 nell’80%.
2. Il quadro normativo e giurisprudenziale.
In merito all’ultimo rilievo, occorre precisare che il requisito della cosiddetta “attività prevalente” deve essere definito dall’operatore giuridico interno sulla base del diritto e delle indicazioni fornite a livello europeo, vigente al tempo dell’adozione dell’atto impugnato, in quanto non è reperibile una normativa interna atta a chiarire i termini entro i quali il requisito in esame vada apprezzato.
La premessa principale, infatti, è che il diritto nazionale non contiene una norma che disciplini esplicitamente i requisiti che caratterizzano il rapporto rilevante ai fini dell’affidamento in house.
L’unica disciplina nazionale, pertanto, è rappresentata dall’art. 2 del d.lgs. n. 163 del 2006, per cui è imposto l’obbligo di affidare il servizio attraverso una gara pubblica, a meno che non ricorra tra amministrazione aggiudicatrice ed ente aggiudicatario una relazione in house, nell’accezione operante secondo il diritto dell’Unione europea.
2.1. Il quadro normativo interno.
L’art. 113, comma 5 del d.lgs. n. 267 del 2000, infatti, in materia di servizi pubblici di rilevanza economica, ha stabilito esclusivamente l’importanza, ai fini dell’affidamento, di un vero e proprio controllo analogo “a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.”
Tale disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 23bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale ha espressamente stabilito che le modalità di affidamento ordinario, quindi di affidamento mediante gara pubblica, possono essere derogate solo “per situazioni eccezionali” che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato. In tali casi, quindi, l’affidamento può avvenire a favore di “una società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.”
A sua volta, il citato art.23bis è stato oggetto di abrogazione con il D.P.R. emanato a seguito dei noti referendum abrogativi del 2011, dando luogo ad un vero e proprio vuoto normativo.
A parziale copertura, è stato introdotto l’art.4, comma 13 del d.l. n. 138 del 2011, che ha consentito l’affidamento a favore di società a capitale interamente pubblico, come scelta eccezionalmente praticabile solo nei casi in cui il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento fosse pari o inferiore alla somma di euro 200.000 annui, trascurando completamente la disciplina degli elementi necessari per poter affermare di essere in presenza di un ente in house.
A ragion veduta, l’art.4, comma 13 è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n. 199 del 2012.
Pertanto, è per tale tormentata successione normativa che ad oggi non può rinvenirsi alcun riferimento normativo interno alla disciplina degli elementi determinanti la sussistenza di un rapporto tra ente e società tale da legittimare un affidamento in house di un servizio pubblico. Tant’è che lo stesso Legislatore nazionale, per disciplinare dei settori determinati[1], ha richiamato la nozione di ente in house rinviando alle direttive offerte dall’ordinamento europeo.
2.2. Il quadro normativo europeo.
Come anticipato, è il diritto europeo a fornire una disciplina organica della questione; l’affidamento in house, infatti, è un istituto di origine giurisprudenziale introdotto per verificare quando sia effettivamente necessario indire una gara[2].
Successivamente, le direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, rispettivamente agli artt. 17, 12 e 28, hanno trattato gli elementi costitutivi del rapporto in house.
Le previsioni in questione hanno comunque una rilevanza giuridica, pur minore rispetto al cosidetto effetto diretto ovvero alla regola della «interpretazione giuridica conforme», pur non essendo ancora scaduto il termine per il loro recepimento. E’ proprio in nome del generale principio di leale collaborazione, infatti, che sussiste un dovere di standstill, per cui il Legislatore nazionale nel periodo intercorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, deve evitare qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato[3].
Il giudice interno, a conferma di quanto detto, deve sempre evitare qualsiasi interpretazione o applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, successivamente alla scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato a cui mira la direttiva[4].
2.3. L’apprezzamento dell’attività prevalente secondo la Corte di Giustizia.
La sentenza di riferimento è la cosiddetta sentenza Teckal del 18 settembre 1999, con cui la Corte di Giustizia ha individuato l’attività prevalente quale requisito necessario per la sussistenza della relazione in house che l’ente controllato “realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”.
Poi, ad ulteriore chiarimento, la Corte di Giustizia, con la successiva sentenza cosiddetta Carbotermo dell’11 maggio 2006, ha precisato altresì che “si può ritenere che l’impresa in questione svolga la parte più importante della sua attività con l’ente locale che la detiene…solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale”; apprezzamento che spetta all’organo giudicante, sulla base di tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative.
Per apprezzare il grado di prevalenza dell’attività, l’organo giudicante deve fare riferimento al fatturato dell’ente medesimo. Sul punto ci si è chiesti se per fatturato debba intendersi quello realizzato con l’ente controllante o, diversamente, quello realizzato sul territorio dell’ente. La Corte di Giustizia, anticipando ogni possibile empasse interpretativo, ha ritenuto che occorre considerare quale fatturato determinante quello che l’impresa realizza in virtù delle decisioni di affidamento adottate dall’ente locale controllante, compreso quello ottenuto con gli utenti in attuazione delle predette decisioni.
E’ l’attività dell’affidataria complessivamente considerata, seppur nell’ambito di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, ad avere rilevanza, indipendentemente dall’effettivo destinatario della prestazione che rappresenta l’oggetto dell’affidamento[5].
Pertanto, la giurisprudenza europea è chiara nel considerare gli affidamenti disposti dall’ente controllante, per poter ritenere l’attività prevalente.
Diversamente, le nuove direttive sopra indicate, hanno imposto un ampliamento delle tipologie di affidamenti da computare, per cui hanno assunto rilievo anche gli affidamenti imposti “da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi”.
Un dato è certo, con le direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE è stato ampliato il campo applicativo dell’in house providing.
3. L’analisi del Consiglio di Stato.
Nelle copiose pronunce della Corte di Giustizia, non è dato rinvenire motivazioni che chiariscano se tra gli affidamenti da valutare, al fine di ritenere integrato il requisito dell’ “attività prevalente”, debbano anche essere computati quelli che riguardino enti pubblici non soci, nel caso in cui l’attribuzione sia imposta da un provvedimento autoritativo proveniente da un’amministrazione pubblica diversa, nella fattispecie della pronuncia in esame è la Regione Abruzzo, che impone all’ente sospettato di relazione in house di svolgere attività di trattamento e smaltimento rifiuti a favore di comuni non soci.
In una tale situazione, seppure non esplicitamente affrontata dalla giurisprudenza della Corte europea, può comunque applicarsi la medesima ratio che la stessa ha posto a fondamento dell’elaborazione del requisito dell’ attività prevalente, in quanto l’attività imposta a favore di soggetti non soci non potrebbe comunque essere oggetto di competizione concorrenziale con altre imprese del mercato.
Ulteriore questione, relativa al caso esaminato dal Consiglio di Stato con la pronuncia in commento, ha ad oggetto gli affidamenti che possono essere computati nel caso in cui il requisito del controllo analogo sopravvenga rispetto all’affidamento precedentemente concesso.
Sul punto sembrano soccorrere l’operatore giuridico proprio le nuovissime direttive sopra richiamate; l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE ha previsto che “se, a causa della data di costituzione o di inizio dell’attività della persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, il fatturato, o la misura alternativa basata sull’attività, quali i costi, non è disponibile per i tre anni precedenti o non è più pertinente, è sufficiente dimostrare segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile.”
Anche se una tale considerazione non trova conferma nelle precedenti pronunce della Corte di Giustizia Europea, in ogni caso potrebbe considerarsi applicabile anche prima dell’adozione della direttiva, poiché conforme ai principi alla base della normativa europea.
In ragione di tutti i rilievi esposti e della intrinseca complessità della materia, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza in esame, ai sensi dell’art. 267 TFUE ha rimesso alla Corte di Giustizia le seguenti questioni di diritto:
a) se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci.
b) se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse effettivo il requisito del cd. controllo analogo.
Rimanendo in attesa dei possibili esiti, non possiamo che constatare come la materia dei servizi pubblici e le relative modalità di affidamento continuino a mantenere alta l’attenzione degli operatori giuridici, confermandone da un lato la complessità e dall’altro la oggettiva frammentarietà normativa, non certo portatori di chiarezza in quello che è il mare magnum, a volte neppure troppo cristallino, della gestione della ‘cosa pubblica’.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Emblematico è il testo del secondo periodo del comma 1 dell'articolo 149-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, secondo il quale «L'affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall'ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell'ambito territoriale ottimale».
[2] a partire dalla cd. sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98.
[3] CGE 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-EnvironnementVallonie.
[4] CGE 15 aprile 2008, C-268/08, Impact.
[5] in questi termini prosegue CGUE Carbotermo dell’11 maggio 2006, per cui “non è rilevante sapere chi remunera le prestazioni dell'impresa in questione, potendo trattarsi sia dell'ente controllante sia di terzi utenti di prestazioni fornite in forza di concessioni o di altri rapporti giuridici instaurati dal suddetto ente. Risulta parimenti ininfluente sapere su quale territorio siano erogate tali prestazioni”.