Pubbl. Gio, 21 Gen 2016
Crisi di liquidità aziendale: un principio edificatore di false speranze
Modifica paginaL´attuale crisi economica - con le conseguenti difficoltà economiche delle imprese - ha determinato, negli ultimi anni, un notevole aumento dei procedimenti penali legati alle fattispecie previste dagli artt. 10 bis e 10 ter dlgs n 74 del 2000 per le ipotesi di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento Iva . Il tema, allora, della crisi di liquidità aziendale - apparendo quanto mai attuale e quotidianamente ridondante anche sulle maggiori testate giornalistiche - merita una approfondita analisi, anche alla luce dei più recenti approdi giurisprudenziali, onde fornire all´interprete sicure linee guida entro cui muoversi al fine di affrontare con maggiore serenità le innumerevoli questioni che esso pone.
Sommario: 1. Premessa – 2. La crisi di liquidità – 3. Gli indici di illiquidità – 4. Conclusioni – 4.1 Le limitate ipotesi di applicabilità dell’esimente.
1. Premessa
L'attuale crisi economica - con le conseguenti difficoltà economiche delle imprese - ha determinato, negli ultimi anni, un notevole aumento dei procedimenti penali legati alle fattispecie previste dagli artt. 10 bis e 10 ter dlgs n 74 del 2000 per le ipotesi di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento Iva[1]. Il tema, allora, che ci proponiamo di affrontare – la crisi di liquidità aziendale – appare, agli occhi di chi scrive, quanto mai attuale e quotidianamente ridondante anche sulle maggiori testate giornalistiche. Sempre più spesso, infatti, le aziende – un tempo finanziariamente piuttosto sane e in grado di affrontare tutti i costi necessari, anche quelli connessi al fisco – oggi si trovano innanzi a gravissime indigenze economiche che spesso le inducono a non poter onorare gli elevatissimi costi derivanti dall’imposizione fiscale. In particolare, la crisi di liquidità aziendale si materializza allorquando l’azienda versi in un stato di indigenza economica la quale, in tal modo, non consente all’imprenditore di affrontare tutti i costi connessi alla gestione dell’attività di impresa.
All’interno di tali costi, infatti, oltre ad esservi ricompresi quelli direttamente connessi alla gestione aziendale, come ad esempio l’acquisto di materie prime o il personale, vi rientra anche l’imposizione fiscale che in Italia gioca un ruolo rilevante all’interno delle voci passive di bilancio a chiusura di esercizio d’impresa. Ciò, però, che distingue il mancato pagamento dei corrispettivi derivanti dai primi costi, rispetto ai secondi non è certamente roba da poco conto. Infatti, ad esempio, la manata corresponsione degli emolumenti ai lavoratori dipendenti genera certamente un gap all’interno del ciclo economico nazionale, oltre che costringere il medesimo lavoratore ad una indigenza economica propria e della di lui famiglia, ma non comporta conseguenze sanzionatorie – almeno sotto il profilo penalistico – all’imprenditore stesso. Piuttosto, la mancata corresponsione delle somme che l’imprenditore deve versare ai fini fiscali genera, al superare di determinate soglie di punibilità, ai sensi del d.lgs. 74 del 2000, talune conseguenze sanzionatorie sul piano penalistico che, tanto spesso, si ripercuotono anche sulla gestione dell’azienda medesima e sull’attività lavorativa dello stesso imprenditore il quale, non di rado, è costretto a chiudere la propria azienda e a cercare nuove alternative di lavoro.
2. La crisi di liquidità
Ciò premesso, dunque, la Giurisprudenza Italiana – avendo preso atto delle precarie condizioni finanziarie in cui versa la maggior parte delle aziende italiane – ha, in tempi più recenti, riconosciuto forza scriminante all’ipotesi in cui un’azienda abbia versato in uno stato di crisi di liquidità e per tale ragione abbia sottratto talune somme all’imposizione fiscale[2]. Più precisamente, il giudice di legittimità ha più volte precisato che – in relazione all’omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto – l’omesso adempimento del debito tributario possa essere scriminato solo quando l'inadempimento della obbligazione derivi da fatti non imputabili all'imprenditore ed egli non abbia potuto tempestivamente provvedere all’adempimento per cause indipendenti dalla sua volontà e che siano sfuggite al suo dominio finalistico[3]. Per tali ragioni, dunque, gli Ermellini, pur ammettendo la possibilità di escludere la ricorrenza dell’elemento soggettivo nella fattispecie contestata a colui il quale abbia omesso di provvedere all’obbligazione tributaria, hanno fermamente disposto che occorre svolgere una accurata valutazione dei presupposti di fatto su cui si fonda la millantata crisi economica aziendale[4]. Partendo da tali premesse, allora, i giudici del Palazzaccio hanno ammesso la ricorrenza di tale causa di giustificazione – tesa a elidere l’elemento soggettivo del prevenuto – solo ove esista materialmente la prova che tale difficoltà economica si sia sostanziata in una crisi di liquidità tale da porre il contribuente in una oggettiva e assoluta impossibilità di adempiere[5]. Due sono, dunque, le condizioni al cui ricorrere è possibile affermare di essere in presenza di una simile scriminante: la non imputabilità al contribuente della crisi aziendale e la non evitabilità altrimenti dell’omesso versamento del tributo[6]. In capo all’imprenditore, quindi, grava l’onere di dimostrare che l’intervenuta crisi non sia stata fronteggiabile diversamente e che egli abbia posto in essere una pluralità di azioni volte a recuperare le somme idonee ad assolvere al debito tributario a tutti i costi.
I termini di rilevanza di tale situazione aziendale sono, però, particolarmente angusti e ciò si giustifica, come spiega la Suprema Corte di Cassazione, in ragione della struttura dei reati di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto[7] di cui si parlerà più approfonditamente sub par. 4. Per tali ragioni la crisi economica non può, da sola, incidere sull’elemento soggettivo dei delitti de quibus in quanto la funzionalità dell’omesso versamento alla sopravvivenza dell’impresa è spesso sintomatico di una scelta consapevole dell’imprenditore, il quale deve quindi dimostrare di essersi, invece, adoperato per evitare l’inadempimento. Sussiste, dunque, un onere di allegazione in capo al prevenuto, non solo rispetto alla genesi delle difficoltà finanziarie, ma anche delle iniziative intraprese per ovviare all’omissione tributaria, tra le quali si possono menzionare: la dismissione del patrimonio, l’aumento del capitale sociale o la richiesta di finanziamenti, anche privati. Tale onere dovrà, quindi, investire non solo l'aspetto della non imputabilità della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l'azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto[8]. Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un'improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili[9]. La generica deduzione in ordine alla crisi economica, allora, non esclude l’elemento psicologico, ossia la responsabilità penale dell’imprenditore inadempiente. La configurabilità del reato può escludersi, cioè, non quando il contribuente provi che la carenza di liquidità sia conseguenza della crisi economica, ma solo nel caso in cui dimostri di non avere provocato la crisi di liquidità della propria azienda o persona e di essersi trovato nella reale impossibilità incolpevole dell’adempimento[10], ovvero di avere adottato idonee misure per evitare la commissione del delitto, così dimostrando di aver proceduto a formalizzare regolare richiesta di finanziamenti negli anni di imposta oggetto di contestazione, di aver dato luogo a procedure transattive, di aver proposto una eventuale rateizzazione dei debiti, di aver dato avvio alla messa in liquidazione della società al tempo del debito, di aver tentato invano il reperimento di risorse da altre società[11], di aver fatto ricorso anche all’impiego di denaro personale[12], di avere eseguito un aumento del capitale sociale nei periodi di imposta oggetto di contestazione[13].
3. Gli indici di illiquidità
Una volta aver chiarito l’ambito di applicabilità dell’esimente in termini, occorre valutare quali siano i criteri sintomatici idonei ad evidenziare una crisi di liquidità connotata da non imputabilità e imprevedibilità. Nel corso del tempo, infatti, la giurisprudenza di legittimità si è trovata ad affrontare numerose questioni pratiche inerenti singoli episodi di evasione in seno ai quali le difese hanno addotto – loro dovere d’ufficio – circostanze e contesti nei quali escludere l’elemento soggettivo. La giurisprudenza, però, nell’affrontare tali episodi giudiziari è parsa particolarmente austera e ciò in ragione del fatto che la scriminante de qua presenti maglie particolarmente ristrette e i criteri da cui desumere una illiquidità, idonea a giustificare l’applicabilità dell’esimente in termini, siano notevolmente stringenti e rigorosi. La prassi giudiziaria, infatti, ha mostrato – in diverse occasioni – che l’esimente in termini non abbia trovato accoglimento, pur a fronte di problematiche connesse alla gestione aziendale che hanno costretto spesso l’imprenditore a scegliere l’alternativa più vantaggiosa, ma contestualmente la più dolorosa. La scelta, spesso maggiormente preferita dalla prassi commerciale, ossia quella di soddisfare altri creditori, preferendoli al fisco, infatti, si rivela certamente la più umanamente condivisibile, ma la meno giuridicamente giustificabile. Per cogliere, dunque, come l’esclusione della colpevolezza possa ammettersi solo in situazioni caratterizzate da eccezionalità e imprevedibilità, la Suprema Corte di cassazione ha dato vita, come anticipato, ad una sequela di criteri, di matrice puramente giurisprudenziale, degni di assurgere a linee guida per futuri giudizi insistenti in subiecta materia.
Ciò posto, ci si è fin da subito posti l’enigma se l’avere omesso il pagamento del tributo per evitare i licenziamenti possa supportare l’applicabilità della causa di giustificazione della crisi di liquidità, a prescindere che la crisi detta si inquadri sotto la fattispecie dello stato di necessità o della forza maggiore, quali categorie autonome idonee a fungere da scriminati tali da escludere l’elemento doloso della condotta. Sul punto, però, è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che tale presupposto non possa fungere da substrato di applicabilità dell’esimente dello stato di illiquidità, posto che in questo caso, a fronte della scelta dolosa di non pagare i tributi per continuare a pagare i dipendenti, non si verificherebbe quel pericolo di danno grave alla persona che, piuttosto, si riferisce ai soli beni materiali e morali i quali costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano, come la vita, l’integrità fisica, la libertà morale e sessuale, il nome, l’onere, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento e allo sviluppo della persona umana[14].
Ancora, si è più volte discusso se possa invocarsi, a giustificazione del debito tributario, il tentativo di evitare il pericolo di fallimento della società attraverso il pagamento di taluni creditori che, quindi, l’imprenditore ha scelto di privilegiare rispetto all’erario. Anche in ordine a tale ultima problematica, però, è intervenuta, da ultimo, la Suprema Corte di Cassazione la quale, nel tentativo di fugare ogni dubbio, ha precisato che le inadempienze, poste in essere dall’imprenditore, non possano essere giustificate attraverso il tentativo di evitare il fallimento dell’impresa, realizzato mediante il soddisfacimento solo di taluni creditori, quale scusante del mancato assolvimento del debito tributario. Ciò in quanto il fisco, a fronte di una sua posizione creditoria nei confronti di un qualsiasi contribuente, assume il ruolo di creditore del pari a qualsiasi altro creditore. Peraltro, anch’esso, per tali ragioni, è parimenti legittimato a presentare istanza di fallimento. A fronte di tali considerazioni, quindi, non si ritiene che possa essere giustificato il comportamento del contribuente che, in palese violazione arbitraria del principio della par condicio creditoris, scelga di privilegiare un creditore rispetto ad un altro, pur essendo entrambi titolari di un diritto di credito avente la medesima dignità. Una tale scelta, piuttosto, sarebbe dimostrativa della volontarietà e consapevolezza dell’omissione[15]. Del resto un imprenditore che consapevolmente decida di adempiere solo parzialmente ai propri debiti lascia intendere che dolosamente abbia pretermesso altri creditori. Venendo, così, a mancare gli ineludibili ed essenziali requisiti della non imputabilità e della imprevedibilità.
Ulteriormente, poi, ci si è chiesti se possa rilevare – ai presenti fini – la mancata riscossione dei crediti da parte dei clienti. Ipotesi in cui, però, l’inadempimento non sia preceduto dall’emissione della fattura da parte dell’imprenditore. La Suprema Corte però sul punto ha chiarito che tale inadempimento non incida sul versamento erariale cui è tenuto periodicamente l’imprenditore e ciò in quanto l’inadempimento dei clienti rientra nel normale rischio d’impresa, così come la riduzione del volume d’affari inerente una riduzione del parco clienti[16].
Sorge il dubbio, poi, se la corretta tenuta dei documenti contabili e la loro presentazione, rispettosa degli inderogabili obblighi previsti dalla legge possa assurgere a sintomo di una volontà di adempiere. La Suprema Corte di cassazione, però, non condividendo affatto tale linea di pensiero ha sostenuto che il reato di omesso versamento essendo punito al solo titolo di dolo generico, non rileva per nulla, bensì questa ha consentito all’imprenditore che osservasse solo alcuni degli obblighi imposti e null’altro. La gestione delle scritture contabili svolta in modo corretto, infatti, non è affatto sintomo di alcuna buona fede. Tutt’al più ciò potrebbe fungere da espediente onde dimostrare la non imputabilità al prevenuto della crisi aziendale e la corretta gestione aziendale purché l’imprenditore dia prova di avere eseguito una corretta gestione della contabilità, una corretta tenuta delle scritture contabili e un versamento regolare delle ulteriori imposte, anche pregresse o concomitanti[17].
Questione particolarmente delicata, ancora, concerne l’ipotesi in cui l’unico cliente per il quale lavorava l’imprenditore inadempiente abbia cessato ogni rapporto commerciale. Sul punto è intervenuta recentemente la Suprema Corte di Cassazione la quale ha affermato il principio secondo cui non è esente da responsabilità penale l’imprenditore che ometta di pagare il tributo lamentando che l’unico cliente per il quale lavorava abbia cessato ogni rapporto commerciale; trattasi, infatti, di evento prevedibile, non idoneo a escludere la volontà dell’imputato di non adempiere all’obbligazione tributaria[18]. Del resto – ove il tributo in questione fosse l’Iva – quest’ultima dovrebbe essere accantonata, in occasione di ogni cessione di beni o fornitura di servizi, in modo da poter essere puntualmente corrisposta allo Stato alla scadenza prevista. Ogni volta, infatti, che il soggetto d’imposta effettua un’operazione imponibile Iva riscuote dal soggetto acquirente l’Iva dovuta all’Erario. Egli, pertanto, deve accantonarla ai fini del versamento allo Stato, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere l’obbligazione tributaria[19]. Per tali ragioni, dunque, ove l’imprenditore adeguatamente accantonasse le somme da devolvere all’erario ai fini Iva, pur venendo meno il monocommittente, questo dovrebbe comunque essere in possesso della liquidità idonea a soddisfare il debito tributario. Ciò, però, a meno che la perdita del monocommittente non sia talmente repentina e improvvisa da non aver consentito all’imprenditore neppure il tempo strettamente necessario all’accantonamento.
In ultimo ci si è chiesti se l’istanza di rateazione del debito fiscale possa assurgere a presupposto per l’applicabilità dell’esimente in parola. Orbene, sul punto va chiarito che l’art. 13 del d.l.vo. n. 74 del 2000, prevede quale circostanza attenuante dei delitti de quibus l’ipotesi della rateizzazione del debito tributario, purché quest’ultimo venga interamente saldato ancor prima dell’apertura del dibattimento. Ci si è chiesti, allora, se la sola istanza di rateizzazione sia bastevole a fungere quale ipotesi di esclusione della colpevolezza, essendo denotativa di una intenzione di adempiere da parte del contribuente. I giudici di legittimità[20], però, hanno osservato come sia la stessa conformazione letterale della norma – nel richiedere, appunto, l’estinzione del debito – a far ritenere che presupposto necessario del trattamento sanzionatorio più favorevole sia l’integrale pagamento di quanto dovuto all’erario, non essendo, dunque, sufficiente la mera ammissione al provvedimento di rateazione intervenuta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento[21]. Del resto – puntualizza la Corte – anche sotto il profilo della ratio della norma, la condotta meritevole del trattamento premiale è solo quella effettivamente idonea ad apportare un beneficio in termini patrimoniali all’amministrazione, essendo invece non significativo sotto tale profilo il mero provvedimento di ammissione alla rateazione posto che l’interessato, una volta ammesso alla rateazione, ben potrebbe restare inadempiente rispetto al pagamento della singole rate[22]. La Corte ha precisato, peraltro, che l’attenuante speciale del pagamento del debito tributario, di cui all’art. 13 del d.lgs. 74/2000, non sia applicabile in caso di rateizzazione del debito di imposta già iscritto a ruolo e indicato nella cartella di pagamento, atteso che il riconoscimento del beneficio è subordinato all’integrale ed effettiva estinzione dell’obbligazione tributaria[23]. È, indubbio, altresì, che una istanza di rateizzazione non osservata si trasforma in una palese denotazione di coscienza e volontà nell’inadempimento quando questa è disattesa. Ed infatti colui che, ben conscio di rivestire la qualità di debitore nei confronti dell’erario propone istanza di rateizzazione del debito e poi non vi adempie va consapevolmente in contro all’omesso versamento.
4. Conclusioni
Come si è avuto modo di evidenziare nei paragrafi precedenti, i criteri predisposti dalla giurisprudenza di legittimità e buona parte della giurisprudenza di merito paiono particolarmente stringenti e, per certi versi, anche capziosi. Va rilevato, in effetti, però, che in ordine alla materia de qua, vista la notevole delicatezza dell’ambito di applicabilità, occorre svolgere un’accurata analisi delle circostanze concrete, onde sostenere la tesi della crisi di liquidità quale ragione giustificatrice dell’omesso versamento del tributo. Per tale ragione, infatti, a parere di chi scrive, solo in due isolate ipotesi, di cui si parlerà più approfonditamente sub par. 4.1, pare potersi applicare con certezza il principio in termini.
Preliminarmente è bene precisare che il legislatore, abbia scelto di sanzionare il mero omesso versamento di un’imposta correttamente dichiarata dal contribuente, in relazione non già a qualsiasi tributo ma solo a quelli dovuti a titolo di Iva o da parte del sostituto di imposta che ha, effettivamente, operato la ritenuta come dimostrato dalla rilasciata certificazione da parte del contribuente stesso[24]. Ciò proprio per via della natura delle obbligazioni tributarie. Queste omissioni, infatti, pur essendo caratterizzate dall’assenza di un comportamento fraudolento ed ideologicamente falso da parte del soggetto obbligato – che, anzi, ha in modo corretto esposto nella dichiarazione Iva o nella certificazione l’imposta dovuta – si sostanziano nell’indebito trattenimento di somme di cui il contribuente non ha, fin da quando le ha ricevute, l’effettiva disponibilità[25] essendo state da esso trattenute (o ricevute) al solo fine di versarle, poi, all’erario con un, iniziale, obbligo di accantonamento. In particolare, in entrambi i tributi – pur nella loro diversità – il soggetto obbligato al loro versamento, infatti, riceve da terzi (dal sostituito o, per l’Iva, dal percettore del bene o del servizio) le somme ad essi relative, proprio al fine di versarle all’erario con un originario e preciso vincolo di destinazione che porta per esso ad un obbligo di, immediato, accantonamento in vista del successivo versamento[26]. In particolare, nella sostituzione tributaria il sostituto, quale debitore di una somma costituente reddito per il percettore/sostituito, deve, allorché procede al versamento in favore del sostituito di quanto a quest’ultimo dovuto, trattenere una percentuale di questo emolumento (cd. ritenuta alla fonte) per, poi, versarlo all’erario entro il 16 del mese successivo a quello nel quale ha operato questa trattenuta[27]. Per l’Iva, invece, il soggetto obbligato riceve, materialmente, la somma, per questa imposta, dal cessionario del bene o dal committente della prestazione di servizio allorché quest’ultimo gli paghi il corrispettivo per, poi, doverla versare all’erario nei tempi e nei modi previsti dalla legge[28].
Pertanto non è possibile, se non nelle eccezionali ipotesi di cui si dirà meglio sub par. 4.1, ritenere che la crisi di liquidità dell’azienda del contribuente possa essere idonea ad escludere la sua penale responsabilità per le omissioni qui in esame. Infatti, il contribuente, una volta che ha ritenuto le somme dal sostituito o che ha ricevuto dal percettore del bene o del servizio – oltre al prezzo della prestazione – quanto dovuto a titolo di Iva, non è libero di disporre di queste somme essendo le stesse vincolate al loro versamento, nei termini fissati, in favore dell’erario ed avendo, allora, lo stesso il dovere di accantonarle in previsione di questo futuro ed imminente pagamento. In tale ambito, allora, non appare possibile ritenere che una, anche grave, crisi di liquidità possa giustificare l’omesso versamento escludendo il dolo da parte del contribuente dovendosi valutare che questa dolosa omissione tragga la sua origine da una consapevole ed originaria illecita decisione del soggetto attivo del reato di destinare quelle somme (che ha ricevuto da terzi) verso una direzione diversa da quella dovuta.
Quest’ultimo elemento è idoneo, pertanto, a determinare la ricorrenza del necessario elemento soggettivo, almeno nella forma del dolo eventuale[29], essendosi il contribuente, con una tale deviazione nella destinazione di quanto ricevuto, assuntosi il concreto rischio di non essere, poi, in grado di versare il dovuto all’erario al momento della scadenza del termine fissato dal legislatore. Dolo che, a parere di chi scrive, è perfettamente compatibile con il reato omissivo proprio ricorrendo ogni qualvolta il soggetto attivo abbia una pregressa condotta con la quale si assume il consapevole rischio di trovarsi, nel momento ultimo nel quale deve attivarsi, nella concreta e probabile impossibilità di compiere l’azione doverosa. Situazione questa presente nel caso qui in esame essendo l’omesso versamento dell’imposta il frutto, non già di una improvvisa ed imprevista situazione di illiquidità, ma di una condotta, cosciente e volontaria, dell’obbligato che, in modo progressivo, prima non accantona le somme ricevute, poi, non le versa nei termini fissati dalla normativa tributaria per, infine, continuare in questa condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale. Il tutto con riferimento, peraltro, all’assunzione di un tale rischio che si deve valutare, nella gran parte dei casi, presente in queste fattispecie essendo, evidentemente, l’iniziale scelta del contribuente di non versare le imposte dovute e dichiarate entro il termine stabilito dalla normativa tributaria e di destinarle, invece, ad altre obbligazioni indice di una, già in atto, difficoltà finanziaria per la quale, allora, lo stesso si è rappresentato, assumendone il rischio, di potersi trovare nella impossibilità di versare il dovuto anche nel termine fissato dalla norma penale.
Da ciò ne deriva, dunque, che anche in caso di crisi di liquidità che non consenta il versamento delle somme dovute, sussiste il necessario dolo in quanto, questo mancato versamento trova la sua origine, non già in una situazione sopravvenuta alla quale il contribuente non possa porre rimedio, ma al suo volontario mancato adempimento al dovere di accantonare, immediatamente, le somme ritenute (allorché si versa il dovuto al lavoratore o comunque al prestatore di opera) per, poi, versarle all'erario o, comunque, alla successiva distrazione ad altre finalità delle somme, in precedenza, correttamente accantonate[30]. Tale orientamento, peraltro, ha trovato un solido avallo da parte delle Sezioni Unite[31] che – intervenute su una questione di diritto intertemporale riguardante le due fattispecie qui in esame – hanno indicato come vi sia per il contribuente un obbligo di accantonamento allorché eroga gli emolumenti al sostituito (per l’art. 10 bis) o riscuote (dall’acquirente del bene o del servizio) l’Iva avendo lo stesso, a quel momento, il dovere di organizzare le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria; obbligo di organizzazione che, con l’introduzione degli artt. 10 bis e 10 ter – con i quali si stabilisce un nuovo e più avanzato termine per rendere l’inadempimento penalmente rilevante – si estende su scala annuale. In questo contesto si è aggiunto[32] come non possa, allora, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, a meno che non si dimostri che questa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza di organizzare le proprie risorse in modo, prima, di accantonarle e, poi, di adempiere all’obbligazione tributaria. Principio di diritto, che, quindi, conferma che l’obbligo di adempimento in esame non possa essere valutato, dal punto di vista soggettivo, in modo asettico, con riferimento alla sola situazione presente al momento della scadenza del termine fissato dal legislatore penale, ma che si debba tenere conto di quale sia stata la condotta del contribuente ed, in particolare, se lo stesso abbia organizzato le proprie risorse – rispettando tra l’altro il proprio obbligo di accantonamento – fin dal momento dell’insorgenza dell’obbligazione tributaria, in modo da poter, poi, adempiere ad essa.
4.1 Le limitate ipotesi di applicabilità dell’esimente
Ciononostante, però, vi sono due limitatissime ipotesi – peraltro, come sostenuto da abbondante produzione giurisprudenziale – in cui la scriminante in questione trova piena e serena applicabilità, che consentono così di giungere all’assoluzione dell’imputato “perché il fatto non costituisce reato”.
La prima ipotesi sussiste, dunque, allorquando - in ordine al reato di omesso versamento di Iva – il contribuente si trovi costretto a pagare il debito tributario a seguito di un comportamento omissivo e dilatorio da parte dei propri debitori che avrebbero dovuto saldare fatture per forniture ricevute. Ciò a maggior ragione ove si accerti che la società abbia perseguito tutte le strade per riuscire a recuperare liquidità e fare fronte ai debiti tributari. In tale ultimo caso, infatti, è agevole desume che non vi sia alcuna intenzione da parte dell’imprenditore di evadere l’imposta dovuta, ma semplicemente si è trovato nella malaugurata condizione di dover dichiarare la percezione di crediti – in quanto corrispondenti alle fatture emesse – ma non certamente riscossi – in quanto le medesime fattura non sono mai state davvero saldate. In tale circostanza, infatti, l’imprenditore si trova nella condizione di dover anticipare, per conto dei propri debitori, le somme dovute a titolo di imposta sul valore aggiunto. Non di rado, però, accade che nei programmi dell’imprenditore – in piena autonomia gestionale – vi sia l’obiettivo economico di affrontare ulteriori rapporti commerciali, del resto confidando nella possibile percezione del credito vantato. In tale occasione, invece, l’imprenditore si troverebbe – non solo a far fronte agli impegni commerciali da lui intrapresi – ma anche agli oneri tributari da lui assunti “per nome e per conto” di terzi soggetti – suoi debitori – che, invece, non verseranno mai la somma da loro dovuta. Sulla base dell’art. 6, co. 4, d.P.R. n. 633/1972, infatti, in materia di Iva, l’operazione relativa alla cessione dei beni ed alla prestazione dei servizi si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato, alla data dell’emissione della fattura laddove questa intervenga prima del pagamento del corrispettivo; in modo tale, da rendere, ai sensi del co. 7 dello stesso articolo, a quel momento esigibile l’Iva relativa a questa operazione[33].
In una tale ipotesi, però, sorgendo l’obbligo di versamento dell’Iva anche in assenza del ricevuto versamento del corrispettivo e della relativa imposta da parte di chi ha usufruito del bene o del servizio, non è possibile applicare i rigidi principi richiamati nei paragrafi precedenti e diretti ad escludere, in ogni caso, l’effetto scriminante della crisi di liquidità[34]. Infatti, in questo caso non può rimproverarsi al contribuente che l’omesso versamento abbia la sua origine nel mancato accantonamento delle somme ricevute dal terzo e nella loro destinazione a fini diversi da quelli del pagamento dell’Iva, non avendo, in realtà, lo stesso avuto nulla a tale titolo a seguito dell’inadempimento alla propria obbligazione da parte di chi ha usufruito del bene dallo stesso ceduto o del servizio fornito. Il tutto, peraltro, con riferimento ad una mancanza di liquidità che può derivare proprio dal mancato pagamento dei corrispettivi dovuti da parte del proprio cliente[35]. In dette ipotesi, comunque, sarà necessario verificare che l’imposta non versata dal contribuente sia relativa ad un debito Iva nascente proprio da quelle fatture che non gli sono state pagate[36]. Inoltre, deve accertarsi la presenza di quella crisi di liquidità che, di fatto, non consente il versamento delle imposte[37]. In ultimo si osserva che questa possibile esclusione del dolo non potrà mai ricorrere con riferimento alle ipotesi – sovente richiamate dalle difese ed anche dalle decisioni di merito conclusesi con una assoluzione – di mancato pagamento di crediti del contribuente da parte di Pubbliche amministrazioni. Infatti, sulla base dell’art. 6 d.P.R. n. 633/1972, per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate a favore dello Stato (anche di enti pubblici territoriali, USL, enti pubblici, enti ospedalieri di ricovero, enti pubblici di assistenza e previdenza, organi dello stato) l’Iva diviene esigibile solo all’atto del pagamento dei relativi corrispettivi. Pertanto, non si potrà mai verificare che il debito Iva del contribuente possa avere origine da tale inadempimento da parte della Pubblica Amministrazione in quanto lo stesso sorge solo a seguito dell’effettivo pagamento del corrispettivo da essa dovuto; né, a parere di chi scrive, sarà possibile invocare, per le ragioni già dette, che da questo inadempimento sia derivata la crisi di liquidità che ha portato al mancato versamento di Iva dovuta per prestazioni regolarmente pagate.
L’altra ipotesi, poi, è quella avente ad oggetto il mancato versamento dell’imposta (sia per Iva sia per ritenute) da parte di un soggetto che, al momento del trattenimento della ritenuta o della ricezione del corrispettivo per la prestazione effettuata, non era il legale rappresentante dell’Ente obbligato al pagamento di quell’imposta avendo assunto una tale qualifica – presente al momento della scadenza del termine per la rilevanza penale del fatto – solo successivamente.
Come già indicato deve evidenziarsi che per le due fattispecie qui in esame non vi è coincidenza tra il momento nel quale sorge l’obbligazione tributaria e quello nel quale il fatto diventa penalmente rilevante. Infatti, mentre la norma tributaria fissa quale termine per il versamento all’erario delle ritenute effettuate il giorno sedici del mese successivo a quello in cui le stesse sono state operate da parte del sostituto, l’art. 10 bis – nel fare riferimento a tutte le ritenute operate nell’anno di imposta – stabilisce quale termine di inadempimento penalmente rilevante quello (di molto spostato in avanti) del 30 settembre dell’anno successivo. In modo analogo accade anche in materia di Iva ove l’obbligo di versamento sorge nel mese o nel trimestre successivo a quello nel quale l’operazione viene considerata effettuata mentre l’art. 10 ter fissa, quale momento penalmente rilevante per valutare l’omesso versamento dell’Iva dovuta per l’intero periodo di imposta, il 27 dicembre dell’anno successivo (il termine per il versamento dell’acconto Iva relativo al periodo di imposta successivo).
In questo contesto, allora, dovendo essere il soggetto che risponde di questi reati il legale rappresentante dell’ente al momento della scadenza del termine fissato dal legislatore penale, può accadere che questi sia persona diversa da chi ha operato la ritenuta o ricevuto il corrispettivo per, poi, non procedere, prima al suo accantonamento, ed infine, al suo versamento all’Erario nei termini fissati dalla normativa tributaria. In dette ipotesi, è evidente che, laddove il nuovo amministratore dimostri di aver omesso il pagamento non avendo trovato nulla nelle casse sociali ed essendosi congruamente attivato per cercare risorse a tale fine, non sia per esso presente il necessario elemento soggettivo non potendoglisi rimproverare l’iniziale violazione dell’obbligo di accantonamento e di versamento nei termini fissati dalla normativa tributaria[38] in quanto una tale condotta è stata commessa dal precedente amministratore[39]. Il tutto con un possibile richiamo alla causa di non punibilità della forza maggiore avendo l’agente fatto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge e non avendo potuto impedire la condotta antigiuridica per cause indipendenti dalla sua volontà[40]. Per queste omissioni sarà, al più, possibile rilevare una responsabilità penale, ex art. 48 c.p., del precedente amministratore che, prima, non ha provveduto ai previsti accantonamenti e versamenti – destinando quelle somme ad altro – e che, poi, ha lasciato il successivo amministratore nell’impossibilità di adempiere all’obbligo fiscale non avendo questi alcuna disponibilità di cassa e nessuna possibilità ad accedere a forme di credito (laddove ad esempio l’ente è debitore di un ingente obbligazione tributaria)[41] .
Note e riferimenti bibliografici
[1] M. Vecchio, Il reato di omesso versamento IVA e crisi d'impresa, 2014 in www.studiocataldi.it;
[2] Cass. Pen. 2614/2014 in www.pmi.it
[3] F. D. Martinucci, Evasione IVA per crisi aziendale, spiraglio in Cassazione, 2014 in www.pmi.it. Cfr. altresì, Cass. Pen. 2614/2014 in www.pmi.it e Cass. Pen. n. 8352/14 in www.italgiure.it;
[4] Cass. Pen. n. 15416/14 e Cass. Pen. n. 5905/14 in www.italgiure.it;
[5] Cass. Pen. n. 13019/14 e Cass. Pen. n. 2614/14 in www.italgiure.it;
[6] F. D. Martinucci, Evasione IVA per crisi aziendale, cit.;
[7] Cass. Pen. n. 15416/14 in www.italgiure.it;
[8] P. Bertolaso, Omesso versamento IVA e crisi aziendale: come dimostrare l’assenza del dolo?, 2014 in www.leggioggi.it;
[9] Cass. Pen. n. 15416/14 e Cass. Pen. n. 5905/14 in www.italgiure.it;
[10] A tal proposito si segnala Sent. G.i.p. presso il Trib. di Milano del 7 gennaio 2013 in www.dirittopenalecontemporaneo.it secondo la quale ove l’imputato sia costretto a non pagare il debito tributario a seguito di un comportamento omissivo e dilatorio da parte di enti pubblici che avrebbero dovuto saldare fatture per forniture ricevute e ove risulti che la società abbia perseguito tutte le strade per riuscire a recuperare liquidità e fare fronte ai debiti tributari, è agevole desume che non vi sia alcuna intenzione da parte dell’imprenditore di evadere l’Iva. Specialmente allorquando l’imprenditore medesimo effettui tali pagamenti, una volta ricevuta la cartella esattoriale. Né può dirsi prevedibile un simile comportamento delle pubbliche amministrazioni e ciò in quanto già nel 2000 veniva adottata dalla Comunità Europea la Direttiva 2000/35/CE - recepita recentemente con d.l. 9 novembre 2012 n.192 - sulla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali che prescriveva il termine del pagamento in trenta giorni facendo partire da detta data gli interessi moratori. In tali ipotesi, quindi, non si può addebitare all’imprenditore il dolo. Per la sussistenza di tale elemento, infatti, è necessario che il fatto sia preveduto e voluto come conseguenza dall’autore. In un simil caso, invece, è evidente che l’inadempiente abbia comunque compiuto quanto umanamente possibile per evitarlo, rimettendosi in non appena sia stato in condizioni di farlo. Ne consegue che in consimili circostanze l’imprenditore debba essere raggiunto da un epilogo liberatorio. Cfr. anche Cass. Pen. n. 15176/14 in www.italgiure.it;
[11] P. Bertolaso, Omesso versamento IVA e crisi aziendale: cit.;
[12] P. Bertolaso, Omesso versamento IVA e crisi aziendale: cit.;
[13] Cass. Pen. n. 37301/14 in www.italgiure.it;
[14] Cass. Pen. n. 15416/14 in www.italgiure.it;
[15] Cass. Pen. n. 15416/14 in www.italgiure.it;
[16] Cass. Pen. n. 20266/14 in www.italgiure.it;
[17] Cass. Pen. n. 37301/14 in www.italgiure.it;
[18] Cass. Pen. n. 37637/15 in www.fiscooggi.it;
[19] C. Miglino, La perdita dell’unico committente non giustifica l’omesso versamento, 2015 in www.fiscooggi.it;
[20] Cass. Pen. n. 37748/14 in www.legali.com;
[21] M. Villani, Il reato di omesso versamento di Iva, in www.legali.com, 2014;
[22] M. Villani, Il reato di omesso versamento di Iva, cit.;
[23] Cass. pen. n. 37748/14 in www.legali.com;
[24] G. L. Soana, crisi di liquidità del contribuente e omesso versamento di ritenute certificate e di iva (artt. 10 bis e 10 ter d.lgs. n. 74/2000), 2013 in www.dirittopenalecontemporaneo,it. Con l’art. 10 bis, infatti, il legislatore ha sanzionato unicamente l’omesso versamento delle ritenute che sono state, con certezza, effettuate su di un corrispettivo realmente versato al sostituito; limitazione avvenuta punendo unicamente le condotte omissive avvenute dopo il rilascio da parte del sostituto al sostituito della certificazione con la quale si attesta l’ammontare dei valori corrisposti, delle ritenute operate e delle detrazioni di imposta effettuate.
[25] Cass. Pen., Sez. III, 1.12.2010/11.3.2011, n. 10120, in CED Cass., rv. 249753 ove si è dichiarata inammissibile la questione di costituzionalità sollevata dalla difesa in riferimento all’art. 3 Cost. per ingiustificata parità di trattamento osservandosi come «la previsione di uno specifico reato per il mancato pagamento di un debito per imposte sostitutive dovute dal sostituto e non anche per il mancato pagamento di un debito Irpef o Iva anche se di importo superiore non costituisce un esercizio manifestamente illogico del potere legislativo, trovando giustificazione nel profilo di indebita appropriazione di somme altrui di cui si ha la detenzione».
[26] Indicano la presenza di questo obbligo di accantonamento sia per l’IVA riscossa dal soggetto di imposta sia per le ritenute effettuate, Cass., S.U. n. 37424/2013 e 37425/2013, con nota di A. Valsecchi, 2013 in www.dirittopenalecontemporaneo.it;
[27] G. L. Soana, crisi di liquidità del contribuente e omesso versamento di ritenute certificate e di iva, cit. Con questo sistema l’Amm. fin. in luogo della riscossione dell’imposta direttamente dal percettore del reddito incassa il tributo da un altro soggetto che è quello che eroga l’emolumento con un istituto – quello della sostituzione tributaria – che ha la sua ragione nell’esigenza pratica di colpire la ricchezza da tassare nel momento della produzione, prima ancora che giunga nella disponibilità del destinatario;
[28] G. L. Soana, crisi di liquidità del contribuente e omesso versamento di ritenute certificate e di iva, cit. Versamento che avviene previa liquidazione dell’Iva attraverso sottrazione dall’Iva a debito maturata in quel periodo con l’Iva detraibile;
[29] Richiama la figura del dolo eventuale in un reato omissivo proprio – omesso versamento delle ritenute assistenziali e previdenziali – Cass. Pen. n. 29975/11 in www.dirittopenaleconemporaneo.it;
[30] Ex plurimis Cass. Pen. 18.6.1999, in Ced Cass., rv. 215518 e Cass. Pen. 24.3.1999, Innella, in Riv. Pen., 1999, p. 881;
[31] Cass. Pen. S.U., n. 37425/2013 e 37424/2013, cit;
[32] Cass. Pen. n. 10120/2011 in www.dirittopenalecontemporaneo.it;
[33] Regime di competenza che, in ultimo, ha subito un’importante limitazione. Infatti, con l’art. 32 bis d.l. 22.6.2012 conv. nella legge 7.8.2012 n. 134 è stata prevista la possibilità per i soggetti IVA con volume di affari inferiore ai 2 milioni di euro di poter optare affinché questa imposta divenga per loro esigibile solo al momento del pagamento dei relativi corrispettivi (cd. Iva per cassa).
[34] G. L. Soana, crisi di liquidità del contribuente e omesso versamento di ritenute certificate e di iva, cit.
[35] GUP del Tribunale di Bologna 13.6/11.7.2013, in www.dirittopenalecontemporaneo.it;
[36] G. L. Soana, crisi di liquidità del contribuente e omesso versamento di ritenute certificate e di iva, cit.
[37] Indica come sia scriminato l’omesso versamento IVA laddove questo intervenga in relazione ad una azienda che si trova in stato di insolvenza, alla quale quella fattura non sia stata pagata ed il cui legale rappresentante ha fatto ricorso ad una procedura di concordato preventivo od ad un accordo di ristrutturazione, ex artt. 168 o 182 ter L.F.: G. Bersani, Omesso versamento Iva: insolvenza dell’imprenditore e procedure per la risoluzione delle crisi di impresa, 2013 in Il Fisco, p. 3706.
[38] Cfr. Trib. Milano, 28.4.2011, Giudice Mannucci, 2011 in www.dirittopenalecontemporane.it, in un caso ove si è assolto il liquidatore di una società, per non essere questi punibile per forza maggiore, per l’omesso versamento delle ritenute operate l’anno prima del suo insediamento che avrebbe dovuto versare nel termine di cui all’art. 10 bis. Nella sentenza si indica che l’imputato era stato impossibilitato a questo versamento, senza che allo stesso nulla potesse essere rimproverato non avendo – al momento del suo insediamento nella carica di liquidatore – trovato alcuna disponibilità nella cassa sociale con riferimento ad una società che non aveva più accesso al credito bancario e che era debitrice nei confronti del fisco, a vario titolo, della somma di 9 milioni di euro.
[39] A. Valsecchi, Delitto di omesso versamento dell’IVA e non rimproverabilità dell’amministratore della società insolvente: qualche spunto di riflessione, 2011 in www.dirittopenalecontemporaneo.it;
[40] Da una tale definizione della forza maggiore Cass. Pen., 23.03.1990, Iannone, in Riv. Pen., 1991, 564.
[41] Cass. Pen., 23.9.2013, n. 39082 ove è stato annullato il sequestro per equivalente disposto nei confronti dell’amministratore di una società che era già fallita al momento della scadenza del termine di cui all’art. 10 ter. In questa occasione, nell’evidenziare come il precedente amministratore non avesse più alcun titolo per eseguire l’adempimento dell’obbligazione tributaria al momento della scadenza del termine si indica la possibilità di ritenere una sua penale responsabilità per questa omissione ex art. 48 c.p. aggiungendo che, tuttavia, per essa è necessario provare di come la sua pregressa gestione fosse volta alla definitiva evasione dell’IVA essendo a tale scopo indirizzati i mancati accantonamenti verificando, tra l’altro, quale fosse l’eventuale residuo di cassa trovato dal successivo amministratore (nel caso in esame il curatore essendo la società poi fallita) e se la somma fosse o meno sufficiente per l’esecuzione del pagamento o se vi fossero, nel passivo fallimentare, altri debiti aventi grado anteriore (onde il pagamento si sarebbe palesato in violazione della par condicio), di talché l’omissione del versamento alla scadenza, potesse essere ricondotto all’amministratore del tempo. Per la responsabilità in queste ipotesi del precedente amministratore quale autore mediato del reato: A. Valsecchi, Delitto di omesso versamento dell’IVA, cit.