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Pubbl. Gio, 2 Mag 2024

La Corte Costituzionale: illegittima la pena minima di due anni di reclusione per l´appropriazione indebita

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Lorenzo Vasile
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Roma La Sapienza



Con sentenza n. 46 del 2024, la Corte di Palazzo della Consulta ha statuito l´illegittimità costituzionale dell´art. 646, co. 1, c.p., così come modificato dall´art. 1, co. 1, lett. u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la PA); nella parte in cui prevede la pena della reclusione da ”due a cinque anni” anziché ”fino a cinque”. Ribadito l´ammonimento per cui l´ampia discrezionalità di cui gode il legislatore, in tema di politica criminale, non debba tradursi in un mero arbitrio.


Sommario: 1. Premessa; 2. L’art. 646 c.p.: ratio legis; 2.1 La riforma della cornice edittale; 3. Il giudizio di merito; 3.1 Le doglianze del Tribunale; 3.2 Il libello dell’Avvocatura dello Stato; 4. La decisione n. 46 del 2024; 5. L’autorevole monito; 6. Conclusioni.

1. Premessa

Con sentenza n. 46 del 2024 – depositata il 22.03.2024 – la Corte Costituzionale si è espressa in merito alla questione di legittimità sollevata dal Tribunale ordinario di Firenze, in ordine al reato di appropriazione indebita, di cui all’art. 646 c.p., censurandone la misura della pena minima indicata dal Legislatore.

La questione di illegittimità incoata dal Giudice a quo atterebbe ad un asserito – e fondato – contrasto tra la norma in appendice e gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost.; pomo della discordia è la cornice edittale, inasprita a seguito di recente intervento legislativo[1], lievitata nel minimo da mesi sei ad anni due di reclusione, nell’ottica di una non meglio precisata (errata corrige: mal precisata!) lotta ai fenomeni corruttivi.

2. L’art. 646 c.p.: ratio legis

L’appropriazione indebita è il delitto – contenuto nel Libro II, Capo II (dei delitti contro il patrimonio mediante frode) – commesso da chiunque, al fine di procurarsi, o procurare ad altri, un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui, di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso; subordinato alla querela di parte (salvo nei casi dell’art. 649 bis), è punito con la reclusione dagli anni due agli anni cinque e con la multa da € 1.000,00 ad € 3.000,00.

Fattispecie delittuosa dai caratteri contigui rispetto al furto, l’appropriazione indebita si caratterizza – a differenza di quest’ultimo – per l’inciso relativo al possesso della refurtiva; è, infatti, presupposto necessario dell’evento un possesso anteriore «a qualsiasi titolo» del bene oggetto della condotta criminale; palese la peculiarità rispetto alla classica condotta sottrattiva del furto.

Il possesso è da considerarsi, pertanto, quale vera e propria pietra filosofale del reato, presupposto logico (oltre che giuridico) ed elemento costitutivo della condotta appropriativa; come precisato da autorevole dottrina[2], quanto sopra, è da individuarsi quale status (quello di possessore[3]) soggettivo dell’agente, che può derivare tanto dalla legge, quanto da un contratto, per espressa qualificazione normativa («a qualsiasi titolo»).

Com'è noto, la nozione di possesso esula dai canoni civilistici di cui all’art. 1140 c.c. in quanto sussunta nell' apposita definizione penalistica di signoria autonoma sulla cosa, esternata in un potere di fatto esercitato al di là dell’impero di chi è titolare di un potere giuridico maggiore.  

Operata siffatta premessa, sebbene non si possa affermare che la condotta appropriativa costituisca un nocumento maggiore rispetto a quella sottrattiva tipica del furto, è chiaro che entrambe – in realtà vi sarebbe anche la truffa – offendano il medesimo bene giuridicamente tutelato, ovvero il patrimonio; e, difatti, nella cornice previgente, le tre figure delittuose erano accomunate, all’incirca, dalla medesima cornice edittale base: reclusione fino a tre anni per l’appropriazione indebita; reclusione da sei mesi a tre anni per il furto e la truffa semplici.

Orbene, tale schema era fondamentale[4]  rispetto ad un’equilibrata gestione delle pene da commisurare nel minimo, tradita dall’inversione di rotta perpetuata dal legislatore, lasciatosi accompagnare da una corrente di politica criminale volta al contrasto dei reati corruttivi; seppur dal nobile fine, il risultato di tale riforma ha tradito le aspettative, finendo per causare scompenso e sproporzione nella commisurazione equa della punizione.

Autorevole e condivisibile dottrina[5], riferendosi ad un certo modus operandi di parte dell’Autorità giudiziaria, volto più al perseguimento di un obiettivo di contrasto alla criminalità che alla corretta applicazione del diritto, lo definiva come «una torsione delle norme all’obbiettivo: non conta più il metodo seguito, ma il risultato raggiunto»; volendo parafrasare, anche la riforma in oggetto, accecata dal laureo desiderio di porre un argine al più insidioso dei crimini - dalla cui scintilla «divamparono tutti i mali»[6] - ha, infine, obliato non solo il fine rieducativo della pena, ma, soprattutto, la necessaria armonia interna tra norme penali, chiave di volta di un ordinamento ordinato ed efficiente.

2.1 La riforma della cornice edittale

Pubblicata nella G.U. n. 13 del 16 gennaio 2019, la Legge n. 3 del 9 gennaio 2019 – entrata in vigore dal 31 gennaio 2019 – recante "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e dei movimenti politici" c.d. “Spazza-corrotti”, ha introdotto riforme individuabili in tre macro settori: in materia di delitti contro la Pubblica amministrazione; rispetto alla disciplina della prescrizione del reato; e, infine, in tema di disciplina extrapenale, relativamente alla trasparenza e al controllo dei partiti e movimenti politici.

Oggetto dell’odierna contesa è la disposizione di cui al comma 1, lett. u), dell’art. 1 dell’anticipata norma, per il cui effetto «all’articolo 646, primo comma, le parole: “con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032” sono sostituite dalle seguenti: “con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000”»; tale pesante inasprimento è stato indicato fin da subito dalla dottrina[7]come incoerente rispetto «alla necessità di ostacolare la formazione di fondi neri utilizzabili per la corruzione» professata dalla riforma stessa.

Infatti, il dibattito parlamentare che ha partorito tale scelta normativa risponde ad una precisa intenzione ideologica, individuabile nella lotta alla corruzione, le cui attività si ritengono finanziante per mezzo di fonti produttive ad esse prodromiche e rintracciabili in fenomeni appropriativi. Ad avviso del Legislatore «tale reato sarebbe talora realizzato in funzione della successiva attività corruttiva, con la sostanziale creazione di provviste illecite cui poi attingere per pagare il prezzo della corruzione».

Come anticipato, si tratta di una riforma miope, concentrata esclusivamente su un aspetto marginale della fattispecie tipica dell’art. 646 c.p., che, sebbene, non a torto, possa rappresentare un reato fine di ben più complessi progetti criminali, rappresenta anche un delitto dall’esile peso sulla bilancia dei nocumenti (basti pensare al caso sottoposto al giudizio di merito, in cui oggetto del reato è l’esigua somma di € 200,00).

3. Il giudizio di merito

La questione di legittimità costituzionale nasce dalla rimessione del Tribunale ordinario di Firenze in un giudizio relativo al riconoscimento della responsabilità penale in capo ad un mediatore immobiliare, imputato per il reato di cui all’art. 646, aggravato dall’abuso di prestazione d’opera, ex art. 61, n. 11 c.p..

Secondo la ricostruzione accusatoria l’imputato, nell’ambito di una mediazione finalizzata alla stipulazione di un contratto di locazione, avrebbe ricevuto da un cliente (cittadino straniero, con tre figli, di cui uno affetto da grave disabilità) euro 700,00, a titolo di deposito cauzionale, pari ad una mensilità del futuro contratto ed ulteriori euro 700,00, quale compenso per la mediazione svolta, per un totale di euro 1.400,00 ricevuti.

In seguito al naufragio della stipulazione dell’accordo, il mediatore avrebbe restituito la sola somma di € 500,00 al cliente, inscenando la datio di una cambiale – rilevatasi poi falsa – al fine di restituire i residuali € 900,00 e, solo successivamente alla querela di parte, avrebbe corrisposto altri € 200,00 al malcapitato.

Ritenuto configurato il reato di appropriazione indebita, relativamente ai primi € 700,00 corrisposti, in virtù del vincolo di destinazione impresso su tale somma, destinata al locatore dell’immobile - come da ultimo ribadito dalla giuriprudenza di legittimità con sentenza 8-23 aprile 2021, n. 15566 - e sussistente la punibilità dell’imputato, in virtù della valutazione della gravità del reato ex art. 133 c.p. (probabilmente in virtù della «gravità del danno…cagionato alla persona offesa» che risulta tutt’altro che lieve, se proporzionato alle possibilità economiche della vittima) contrastante con l’invocata misura di cui all’art. 131 bis c.p., dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.

A conferma della necessità della pena è da porsi in evidenzia anche l’oggetto del delitto – una somma adibita all’ottenimento di un’abitazione, ergo al soddisfacimento di un bisogno elementare e fondamentale – e le qualità personali del reo, noto professionista, che proprio in virtù del proprio ruolo entra in possesso della cifra incriminata.

Per quanto premesso e suesposto il giudizio avrebbe visto la condanna dell’imputato alla pena base di anni due di reclusione, stante la prevalenza delle attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p. sull’aggravante comune di cui all’art. 61, co.1, n. 11, c.p., ma a questo punto il Giudice di prime cure, trovatosi in difficoltà rispetto all’entità della sanzione da applicare e rintracciato un contrasto tra il testo della disposizione in esame e gli artt. 3 e 27, co. 3 Cost. ha invocato l’intervento della Corte di Palazzo della Consulta.

3.1 Le doglianze del Tribunale

Le perplessità evidenziate dal collegio giudicante fiorentino attengono all’innalzamento della pena minima edittale (di cui al paragrafo 2.1) in ordine ad una violazione sia del generale principio d’eguaglianza che del principio di proporzionalità della pena.

Riguardo al primo punto, si lamenta l’irragionevolezza insita nella scelta legislativa di innalzare il minimo nella pena del solo reato di appropriazione indebita; è, infatti, chiaro che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 646 c.p., l’integrità del patrimonio, è il medesimo dei reati di furto, art. 624 c.p. e truffa, art. 640 c.p., i quali, sono caratterizzate da un disvalore uguale o, talvolta, maggiore rispetto alla norma in esame.

Come anticipato, la condotta appropriativa implica una datio spontanea, derivante da un atto dispositivo lecito della vittima, di cui solo in un secondo momento l’agente approfitta al fine di ottenere un ingiusto profitto; nel caso di specie, per esempio, il reo viene in possesso del denaro per spontanea distrazione a suo favore da chi ne è il legittimo proprietario ed effettivamente si prodiga ad adempiere alla prestazione per cui esso gli è stato consegnato, salvo poi, in seguito all’infruttuoso tentativo non stornare quanto ottenuto.

Orbene, come anche posto in evidenza dal Tribunale rimettente, con l’attuale comparto normativo, l’agente sarebbe incorso in una pena di gran lunga inferiore nel caso in cui avesse inscenato una mediazione, al fine di raggirare la vittima, mettendo in atto una truffa, piuttosto che promuovere una trattativa vera, avente ad oggetto un immobile realmente esistente; allo stesso modo, se il reo avesse sottratto gli € 200,00 alla vittima, violando la sfera della disponibilità materiale del bene del suo legittimo detentore, condotta sicuramente più gravosa rispetto alla semplice appropriazione.

Il paradosso, infine, è ancor più evidente se si considera che la truffa aggravata ex art. 640, co. 2, n. 2-bis), c.p., è punita con una pena minima dimezzata rispetto al delitto appropriativo.

Inoltre, la norma censurata violerebbe anche gli artt. 3 e 27 Cost. in quanto in contrasto con la necessaria proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto di reato. Come già precisato, la censura non riguarda l’innalzamento delle pene nel loro massimo (legittimo e saggio prevedere una cornice più ampia per far fronte alle fattispecie più gravi), ma l’esclusione di un minimo equo, che possa adattarsi anche alle lesioni minute.

Nel caso di specie, sebbene soggettivamente, per via delle precarie condizioni economiche della vittima e il suo rapporto professionale con il reo non sia da escludersi la pena; oggettivamente, l’appropriazione indebita di soli € 200,00 non appare un peccato la cui espiazione necessiti almeno due anni di reclusione.

3.2 Il libello dell’Avvocatura di Stato

Poco condivisibili le ragioni poste a fondamento del libello dell’ Avvocatura dello Stato in difesa del convenuto Presidente del Consiglio dei Ministri. Invocando la declaratoria di inammissibilità e di non fondatezza delle doglianze del Giudice a quo, l’Avvocato dello Stato ha suffragato la propria tesi difensiva appellandosi a fantomatici elementi di fatto, «istituti in grado di alleggerire la risposta sanzionatoria», rappresentati da null’altro che cause oggettive di esclusione della punibilità (particolare tenuità del fatto 131 bis c.p.), cause di estinzione del reato (estinzione del reato per condotte riparatorie art. 162 ter c.p.) ed, addirittura, il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche quali prevalenti ex artt. 62 e 69 c.p. che renderebbero viziato l’atto di rimessione.

Le norme in appendice sono, tuttavia, apoditticamente evocate; è, infatti, noto come gli istituti della particolare tenuità del fatto e dell’estinzione del reato per condotte riparatorie siano condizioni di punibilità e, in quanto tali, elementi eventuali, ulteriori ed esterne rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che fondano o escludono l’opportunità di punire il reo[8].

È chiara la basilare differenza tra i due concetti: la cornice edittale, ex art. 132 c.p., rappresenta il limite alla discrezionalità del Giudice nel commisurare la pena nei confronti del consociato ritenuto meritevole (per quanto sia un ossimoro) di riceverla; va da sé che quindi si riferisce ad un momento prognostico successivo rispetto a quello valutativo dell’opportunità della stessa.

La commisurazione della pena equa, nel rispetto dei principi di proporzionalità e rieducatività, avviene allorquando il Giudice abbia già ritenuto il reato realizzato in ogni suo elemento – quindi abbia rinvenuto l’antigiuridicità dell’evento e la colpevolezza dell’agente – e sia giunto alla conclusione che ne sia pertinente la punibilità; diversamente la condizione oggettiva di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. rappresenta un vulnus della punibilità che esclude una qualunque valutazione circa l’entità della pena da commisurare.

Pietra filosofale della questione appare essere, sic et simpliciter, un’errata interpretazione applicativa dell’art. 131 bis c.p. da parte dell’Avvocatura dello Stato; sebbene sia senz’altro vero che la norma risponda all’esigenza di deflettere condanne inopportune rispetto a fatti caratterizzati da particolare tenuità, è  ben altra la questione sollevata dal Tribunale di prime cure. Codesto Giudice, seppur riconoscendo la tenuità dell’offesa in senso oggettivo, in virtù di elementi soggettivi quali, ad esempio, le reali possibilità economiche della vittima, ha comunque ritenuto l’evento di reato opportuno di punizione in virtù di una corretta riflessione orientata dai canoni ermeneutici suggeriti dall’art. 133 c.p..

Ed è altrettanto, se non ben più, inaccettabile l’agitata menzione all’uso delle attenuanti generiche al fine di sopperire alle criticità normative attenzionate dal Giudicante fiorentino; come ben noto le norme che disciplinano l’individuazione della quantità finale di pena commisurabile antepongono a qualsiasi variazione circostanziale la preliminare identificazione della misura base, esulante influenze esterne agli elementi costitutivi tipici del reato e a quelli specificamente indicati dall’art. 133 c.p..

Ne consegue che giammai un’attenuante possa rivelarsi redentrice di un peccato normativo attinente all’edittale castigo stabilito – sproporzionatamente ed arbitrariamente – da un legislatore miope, perché non operante sullo stesso piano, o, meglio, nello stesso spazio-tempo.

4. La decisione n. 46 del 2024

Con sentenza n. 46 depositata in data 22 marzo 2024, la Corte delle leggi, adita, si è espressa sul presunto contrasto costituzionale evocato dal Tribunale fiorentino, riconoscendo la fondatezza delle questioni presentatele.

È evidente, a giudizio del citato Ecc.mo Collegio, la correttezza della tesi di rimessione e la conseguente irragionevolezza di quella difensiva; innalzare di ben quarantotto volte la pena minima destinata ai fatti più lievi di quelli ricompresi dalla fattispecie astratta descritta dalla norma è, oltre che controproducente, anche irrazionale e tantopiù illogica è la scelta di basare una scelta così ingombrante su un presupposto raro come il reperimento di “fondi neri” destinati alla corruzione; insomma, una chiara inversione dal ragionamento deduttivo matematico a quello induttivo.

Per quanto in premessa ed in appendice al presente periodo, è possibile concludere affermando che l’esistenza di casi particolari – nell’odierna fattispecie l’appropriazione di denaro al fine di raccattare liquidità con un fine successivo – può incidere ragionevolmente su una reformatio in peius del limite massimo della pena, ma non su quello minimo; siffatta premessa logica è giustificata dall’esigenza normativa di abbracciare tutte le ipotesi d’intervento possibili, in modo che queste possano adattarsi efficientemente - «sicure di se e pronte a tutto» direbbe Seneca[9] – alle casistiche varie, nel pieno rispetto dei principi di umanità, ragionevolezza e rieducatività della pena.

Nondimeno, essa è anche soggetta all’equità, come ricorda puntualmente la Corte costituzionale citando un suo precedente, relativamente alla sproporzione delle pene tra reati molto simili ed offensivi del medesimo bene giuridico, «che nel campo delle norme del diritto è l’espressione del principio di eguaglianza di trattamento tra eguali posizioni sancito dall’art. 3 Cost.».

5. L’autorevole monito

La Corte ha rammentato che il legislatore gode di ampia discrezionalità “nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato”. Tuttavia, ha aggiunto la Corte, “discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”.

Il controllo sul rispetto di questi limiti – prosegue la sentenza – spetta alla Corte costituzionale, che “è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”.[10]

Ques'ultimo inciso mette in risalto come sia ormai pacifico che il diritto penale sia diventato, nella visione distorta del volgo profano e della rappresentanza politica/legislativa che ne è emanazione, strumento di spettacolarizzazione dell’operato dell’Autorità, soluzione ad ogni male; quanto più Essa adirà al potere di inasprire le pene, tanto più sazierà un’opinione pubblica affamata di giustizialismo.

Ma bisogna anche ricordare che tale potere, in assenza di necessità, può divenire tirannia «ogni pena che non derivi dalla necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica»[11]; tale passaggio, insieme al resto del magnum opus, del grande giurista lombardo, è stato posto[12] quale vademecum di criteri minimi di scienza della legislazione penale, un “codice della ragion pratica politico-criminale” fondato sui principi di proporzionalità e necessità della pena (da intendersi come extrema ratio, specialmente se lesiva della libertà personale); ed è proprio in protezione a tali colonne del diritto che si pone l’odierno intervento costituzionale, in difesa della Costituzione, baluardo di quei valori, il diritto, la legge e la giustizia[13], base dello Stato di diritto e assunti a religione da chi, con innata vocazione, ha imboccato il cursus honorem.

Ci si augura che l’aulico consiglio venga accolto positivamente dagli Organi della legis latio, in modo da recuperare una sbiadita, ma mai obliata riflessione giuridica anteposta alle scelte politico-criminali.

6. Conclusioni

Concludendo, è esplicito il richiamo all’attenzione, allorquando le scelte legislative incidano sui diritti fondamentali della persona e, in particolare, sulla libertà personale dei loro destinatari.

«Discrezionalità non equivale ad arbitrio», queste le parole scelte dall’Ecc.ma Corte, semplici e concise, ma allo stesso tempo incisive ed incredibilmente efficaci nel rimembrare che vi sono dei diritti riconosciuti e garantiti dalla Grundnorm, che non trovano in essa paternità, ma sono immanenti e sempiterni sinonimi di civiltà, e di cui, fortunatamente, la nostra cultura giuridica si è, fin dagli albori, fatta portavoce.  


Note e riferimenti bibliografici

[1] Ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. u), Legge 9 gennaio 2019, n. 3.

[2] A. Carmona, I reati contro il patrimonio, in Questioni fondamentali della parte speciale di Diritto penale, a cura di A. Fiorella, 2019.

[3] A. Carmona, op. cit.

[4]Come sottolineato nell’odierna pronuncia della Corte di Palazzo della Consulta «non può non rilevarsi la macroscopica disparità di trattamento sanzionatorio, generata dall’attuale disciplina, tra l’appropriazione indebita…e un furto o una truffa che producano esattamente il medesimo danno patrimoniale alla persona offesa»;

[5]G. Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, 2020.

[6]G. S. Crispo noto come Sallustio (86-35 a.c.), De Catilinae Coniuratione, 10.

[7]A. De Vita, La nuova legge anticorruzione e la suggestione salvifica del Grande Inquisitore. Profili sostanziali della l. 9 gennaio 2019, n. 3, in Processo penale e giustizia n. 4, 2019.

[8] G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, Manuale di Diritto penale, 2022.

[9]L. A. Seneca (4 a.c. – 65 d.c.), Sulla felicità, «fidens animo atque in utrumque paratus».

[10]Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale, comunicato del 22 marzo 2024.

[11]C. Beccaria, Dei delitti e delle pene.

[12] V. Maiello, Legge e interpretazione nel “Sistema” di Beccaria, 2021.

[13] A. De Marsico, Cancrena, su il Tempo, 25 giugno 1971.