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Pubbl. Gio, 1 Feb 2024

Dalla persuasione lecita all´istigazione via social: le parole possono uccidere?

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Silvana Ciancio
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Salerno



Il contributo mira ad analizzare e comprendere alcune delle caratteristiche della persuasione e dell´istigazione, il confine che le separa e la correlazione tra l´aspetto psicologico e il conseguente risvolto penale. L´obiettivo è quello di fornire utili spunti di riflessione, soprattutto alla luce di una società digitale in continua evoluzione e dei recenti casi di cronaca, ove si discute della configurabilità del reato di istigazione al suicidio perpetrato via social.


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From lawful persuasion to incitement on social networks: can words kill?

The paper aims to analyse and understand some of the features of persuasion and incitement, the line separating them and the connection between psychological side and consequential criminal implication. The purpose is providing useful ideas for thought, especially in a continuously developing digital society and the current new cases, where configurability of incitement to suicide committed on social networks is being discussed.

Sommario: 1. Il concetto di persuasione; 2. Il condizionamento psichico illecito; 3. L’istigazione nell’era dei social; 4. La vicenda Pedretti; 5. Il ruolo della pari dignità sociale; 6. Conclusioni.

1. Il concetto di persuasione

Come scrisse il filosofo greco Aristotele nel IV secolo a.C., “l’Uomo è un essere sociale”: per sua natura tende ad aggregarsi e a vivere in relazione con gli altri. Accade quotidianamente che gli uomini instaurino rapporti gli uni con gli altri, interagendo e influenzandosi reciprocamente; in questo intreccio di comportamenti è inevitabile un certo condizionamento. Per essere più precisi, è il “cd. condizionamento buono” ad essere inevitabile, ossia quello che rimanda al concetto di persuasione. Il termine persuasione deriva dal latino persuadēre, composto dal verbo “suadēre” (consigliare, convincere) unito al prefisso “per” che rimanda al concetto di continuità dell’azione e indica “l’atto di indurre qualcuno a riconoscere la realtà di un fatto, la fondatezza di un’idea o a comportarsi in un certo modo”[1]. Dal punto di vista psico-sociale, la persuasione è il “potere di modificare atteggiamenti attraverso l’informazione”[2].

È opportuno sottolineare che, nel fenomeno persuasivo, il ricevente del messaggio si ritrova a subire un condizionamento e, quindi, a modificare il proprio “sistema di credenze”, ma in modo più o meno consapevole e dunque libero.

Pertanto, la disposizione a lasciarsi convincere e l’accettazione del messaggio sono presupposti fondamentali del fenomeno, tali da far comprendere il concetto in questione anche dal punto di vista giuridico. Infatti, se persuadere significa influenzare la mente dell’interlocutore con argomenti, ragioni, suggerimenti, per far sì che cambi atteggiamento nei confronti di un oggetto, di una persona, di un’idea politica o filosofico-religiosa”[3], ma lasciandogli conservare pur sempre un certo margine di libertà di autodeterminazione, allora la persuasione è sì un condizionamento, ma un “condizionamento lecito”, che non comporta, perciò, conseguenze negative nel mondo del diritto.

Essendo uno strumento volto ad ottenere il consenso, la comunicazione persuasiva lascia nell’interlocutore una scelta, una libertà di pensiero, di volontà e di azione; di conseguenza, non c’è alcun bene giuridico da tutelare.

2. Il condizionamento psichico illecito

Discorso differente va affrontato nel momento in cui il condizionamento psicologico diventa illecito. A tal punto, però, occorre chiedersi come si può individuare concretamente il limen esistente tra il condizionamento cd. “buono” e quello “cattivo”?

Si tratta di un confine piuttosto labile la cui determinazione non dipende da elementi oggettivi ma da tutta una serie di “fattori variabili”, dipendenti, questi, dalla personale condizionabilità[4] di ciascun individuo, che possono agevolare o meno l’instaurazione di particolari dinamiche suggestive.

In tale contesto, la questione principale resta sempre quella della traduzione giuridica del condizionamento psicologico: dall’introduzione del delitto di plagio fino alla sua successiva abrogazione; ancora oggi, il punctum dolens è costituito proprio dalla difficoltà di stabilire materialmente quando un certo condizionamento sia di intensità tale da “espropriare” la personalità del singolo. Se, infatti, nel condizionamento “buono” sussiste una certa libertà in capo al soggetto persuaso, tale libertà manca nel caso in cui si verifichi un condizionamento “cattivo”, idoneo a violare la stessa autodeterminazione del soggetto.

A seguito della sentenza di incostituzionalità del delitto di plagio n. 96/1981, nel nostro ordinamento permane un vuoto di tutela in relazione alla lesione dell’integrità psichica derivante da condizionamento psicologico. Vuoto di tutela destinato a non colmarsi per ora, continuando a mancare nelle scienze specialistiche sicuri criteri di accertamento dei fenomeni riconducibili al concetto di “manipolazione mentale”, che permettano di individuare le condotte penalmente rilevanti; da ciò consegue che, ancora oggi, è piuttosto arduo “tracciare una linea di confine tra i casi in cui l’individuo compie una libera scelta – seppure condizionata dalla personalità, dalla persuasività e dal carisma di altre persone – e quelli in cui subisce un’imposizione tale da essere strumento dell’altrui volontà”[5].

Tuttavia, pur permanendo tale vuoto di tutela nel nostro ordinamento, sussiste una diversa fattispecie di reato che fa riferimento e punisce il condizionamento psichico attuato da un soggetto nei confronti di un altro, ossia l’istigazione.

3. L’istigazione nell’era dei social

Il termine istigazione fa riferimento all’incitamento al male o ad azioni riprovevoli: istigare, infatti, vuol dire letteralmente “incitare”, ovvero esercitare “un’azione sulla psiche di altre persone per spronarle a compiere determinati fatti, facendo sorgere o rafforzando motivi di impulso, ovvero distruggendo o affievolendo motivi inibitori”[6].

Dunque, quando qualcuno istiga un’altra persona non compie una mera azione di convincimento, come accade nel caso della persuasione, bensì fa nascere o rafforza dei propositi che, talvolta, già esistevano nella mente del soggetto istigato.

Ferma restando la distinzione tra istigazione in concorso dello stesso reato posto in essere da parte dell’istigato (art. 115 c.p.) e istigazione intesa come fattispecie delittuosa autonoma (art. 414 c.p.), in tale sede occorre notare che la condotta istigatoria non sempre ha ad oggetto un fatto costituente reato: in alcuni casi, invero, il codice penale punisce la condotta di chi istiga altri a commettere un fatto penalmente irrilevante (basti pensare all’istigazione al suicidio oppure all’istigazione all’odio, fenomeni che, nella società contemporanea, si inseriscono soprattutto nel contesto digitale, raggiungendo una estensione mai toccata prima).

Grazie all’avvento di Internet, l’informazione è oggi caratterizzata da una velocità prima impensabile: le notizie che attraversano il web e i social networks fanno il giro del mondo in pochi secondi e ogni utente ha la possibilità di accedere ad una quantità immensa di dati informativi, potendo egli stesso produrre notizie in rete, reagire alle opinioni espresse da altri, proporre attivamente idee e pubblicare, in modo illimitato, foto e video. Dunque, non v’è dubbio che i social rappresentino un utile e irrinunciabile strumento di connessione e di libertà, essendo moderne “agorà” in cui si dibatte, si discute, ci si confronta sui temi più disparati.

Tuttavia, spesso costituiscono anche il palcoscenico principale di una serie indeterminata di azioni illecite: nonostante tale evoluzione abbia comportato la massima espansione della libertà di espressione, il mondo del web resta pur sempre un mondo “anarchico”, cioè “capace di autogovernarsi grazie all’applicazione di norme tecniche, idonee a consentire a chiunque di connettersi con altri, diffondendo messaggi e ricevendone, senza limiti territoriali e senza interferenze da parte delle pubbliche autorità[7].

In pratica, i nuovi media sono sistemi in cui nessuno può stabilire quale notizia debba essere pubblicata e quale no: tutti possono pubblicare qualsiasi cosa senza alcuna selezione preliminare che stabilisca se un contenuto sia idoneo o meno a giungere all’attenzione dell’opinione pubblica.

4. La vicenda Pedretti

Al fine di una più ampia riflessione su fenomeni e meccanismi moderni assai complessi, potremmo richiamare la recente vicenda mediatica – nata interamente sul web – che ha visto protagonista Giovanna Pedretti, titolare della pizzeria “Le Vignole” a Sant’Angelo Lodigiano.

La donna è stata al centro dell’attenzione pubblica prima come “eroina” nazionale, poi, nel giro di qualche ora, come oggetto di critiche e di manifestazioni d’odio, dopo aver pubblicato la sua risposta ad una recensione omofoba e abilista di un cliente del ristorante. Inizialmente lodata, è stata poi criticata e accusata di aver falsificato la recensione per motivi di marketing.

A distanza di pochi giorni dal clamore mediatico che l’aveva investita, la Pedretti ha deciso di togliersi la vita.

Nonostante si tratti di un atto rientrante nel potere di autodeterminazione della donna, la Procura di Lodi ha iscritto, contro ignoti, la “notitia criminis” per investigare su una possibile istigazione al suicidio.

In tale complessa vicenda, infatti, sono molte le questioni spinose che vengono alla luce, non solo di natura giuridica, ma anche e soprattutto di natura sociologica.

L’istigazione al suicidio ex art. 580 c.p. (fattispecie di cui si è, negli ultimi anni, dibattuto in tema di suicidio assistito), si configura quando un soggetto “determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. Pertanto, nel caso di specie, potrebbe individuarsi una “partecipazione psichica” di qualcuno al decesso della Pedretti?

In primis, è necessario sottolineare che l’evento suicidio è certamente successivo, da un punto di vista cronologico, alle manifestazioni d’odio attuate online nei confronti della donna, ma esso non è per forza conseguenza della presunta gogna mediatica.

In tale contesto si inserisce, dunque, un’ulteriore domanda irrisolta: l’interpretazione della parola ci dice qualcosa dell’emittente o del ricevente?

Proprio per tale motivo, gli inquirenti stanno effettuando approfondimenti tecnici sul telefono e sul computer della Pedretti, non solo per identificare chi si cela dietro la discussa recensione, ma anche per ricostruire aspetti ignoti della vita e della storia personale della donna.

Ferma restando l’importanza delle future indagini e degli accertamenti che, auspicabilmente, faranno luce sull’intera vicenda, occorre fermarsi a riflettere: può davvero l’uso “distorto” dei social influire sulla libertà del singolo?

Certamente, ciò che emerge dall’analisi del caso è la velocità e la mutevolezza delle opinioni che si susseguono vorticosamente: le accuse e i dubbi sollevati da pochi sono diventate sentenze definitive pronunciate da molti, senza processo né contraddittorio. Non solo “il popolo del web” ha iniziato a inveire contro la donna, ma anche gli stessi giornalisti e le tv nazionali hanno continuato a farle insistenti domande per comprendere l’origine del fatto (la recensione con relativa risposta) che l’aveva vista protagonista.

In un caso divenuto di così ampia eco mediatica, è certamente lecito fare luce sui fatti; tuttavia, la velocità con cui si pubblicano le notizie sembra prevalere rispetto al controllo della veridicità delle fonti.

È questa la legge nella giungla del web: non conta tanto la verità di ciò che affermi, quanto la tempistica con cui lo fai.

In tal modo, è evidente la conseguenza: un intreccio di notizie tra social media, giornali e tv che causa un inevitabile cortocircuito, ove è impossibile individuare cause ed effetti, responsabili e vittime.

Alla luce di ciò, sicuramente si è in presenza di un fenomeno socialmente dannoso le cui modalità vanno condannate, ma è piuttosto difficile affermare con certezza che esso sia la causa determinante della scelta di una persona di togliersi la vita.

A ben vedere, ritorna quel ragionamento alla base della pronuncia in tema di plagio della Corte costituzionale: l’incostituzionalità fu dichiarata, con sentenza n. 96/1981, proprio perché non era possibile – e non lo è ancora – stabilire in modo oggettivo in presenza di quali fattori e in che misura l’autodeterminazione del singolo viene meno.

Dunque, da un punto di vista giuridico, la vicenda richiamata non è di facile soluzione, sia a causa del complesso accertamento processuale della causalità psichica esistente tra la parola di un soggetto e l’azione di un altro, sia a causa della tutela del diritto – assolutamente irrinunciabile in una democrazia liberale – alla libera manifestazione del pensiero.

5. Il ruolo della pari dignità sociale

È da sempre fonte di discussione, infatti, il difficile bilanciamento tra la libertà di espressione, da un lato, e la necessità della criminalizzazione della parola, dall’altro: in sostanza, quand’è che tale diritto deve essere “necessariamente” limitato?

Una possibile chiave di lettura affonda le radici nell’affascinante concetto di “dignità umana”.

Si tratta di un valore intrinseco dell’esistenza che rimanda all’ “essenza dell’uomo, evoca ciò che necessariamente gli appartiene in quanto tale, ossia un nucleo irriducibile e non bilanciabile di pretese, la cui negazione è negazione dell’umano”[8].

È proprio da questo nucleo irriducibile che derivano i diritti umani.

La dignità umana, menzionata per la prima volta nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948[9] e valore fondante delle Costituzioni del dopoguerra, assurge al ruolo di clausola generale di protezione della persona umana, in grado di immettere nel novero della tutela tutti quei nuovi interessi che la coscienza sociale, di volta in volta, considera essenziali[10].

Essendo, però, un concetto molto ampio che tende ad essere considerato una sorta di “meta-valore” all’interno del quale convive una serie indeterminata di diritti fondamentali, è necessario analizzarlo accanto al concetto di uguaglianza[11]: la compenetrazione delle due nozioni nell’art. 3 della nostra Costituzione – il quale sancisce il principio della “pari dignità sociale” – rappresenta un utile punto di riferimento nella materia dei discorsi d’odio. Infatti, la “pari dignità” possiede una portata selettiva maggiore rispetto al generico riferimento alla dignità umana, in quanto consente di affermare in modo chiaro cosa “non decet homines[12]. Allora, la parola va limitata quando “non è degna dell’essere umano”, ossia quando lo umilia, lo offende, lo calpesta, lo discrimina.

Eppure, sembra così difficile fermarsi e non farsi assorbire dal vortice d’odio che coinvolge, oggi più che mai, qualsiasi piattaforma digitale.

Le notizie che riceviamo sui casi di cronaca del momento fanno il giro del mondo ad una velocità disarmante, la stessa con cui si diffondono i commenti online. È, dunque, la velocità la piaga del nostro tempo? Oppure l’utilizzo che ne facciamo? Nel contesto digitale mancano quel senso di inibizione e di pudore “sano” che caratterizzano i rapporti umani: chiunque si sente in diritto di dire la propria, senza freni, senza limiti. Ma perché il senso del limite oggi fa così paura? È davvero una repressione della libertà di espressione?

Lo stesso fenomeno dell’hate speech perpetrato online fa così tanto parte delle nostre vite quotidiane che sembra quasi non sorprenderci più, ma è proprio quando subentra l’abitudine ad assistere al verificarsi di certi eventi che bisognerebbe allertarsi, sicuramente come giuristi, sociologi o psicologici, ma prima di tutto come esseri umani e, come essere umani, non può non prendersi atto della deriva sociale a cui assistiamo e di cui siamo, contemporaneamente, complici e vittime.

6. Conclusioni

Comprovata la produzione di effetti reali a seguito di azioni digitali, negli ultimi anni sono state predisposte una serie di misure per arginare determinate condotte illecite. Tra i vari interventi compiuti dall’Unione Europea si segnala la sottoscrizione da parte della Commissione Europea di un accordo con i principali intermediari di servizi Internet (Microsoft, Facebook, Twitter e Youtube, Instagram, Google+, Snapchat e Dailymotion), per l’adozione di un Codice di condotta finalizzato a contrastare, in particolare, l’hate speech[13].

Il Codice – non giuridicamente vincolante – è stato siglato nel 2016 in modo conforme alla decisione quadro 2008/913/GAI sulla lotta contro alcune forme di razzismo e xenofobia, con l’obiettivo di rafforzare l’autoregolamentazione interna dei providers: i gestori delle piattaforme digitali devono impegnarsi a predisporre procedure semplici ed efficaci ai fini delle segnalazioni da parte degli utenti di manifestazioni d’odio contenute nei servizi offerti dal provider. In tal modo, a seguito di una valutazione in merito alla validità delle singole segnalazioni, è possibile eliminare i contenuti illeciti o disabilitare l’accesso alla singola piattaforma. Inoltre, le linee-guida indirizzate alla community degli utenti del sito web o del social network sono tenute a stabilire espressamente il divieto di ogni forma di istigazione all’odio e alla violenza.

Tuttavia, ciò non è sufficiente ad arginare il fenomeno dell’istigazione attuata attraverso i social, i quali non diffondono solo odio ma, talvolta, agevolano fattuali condotte illecite.

A causa dell’evidente interconnessione tra il mondo reale e quello digitale, i cui confini sono sbiaditi, opachi, quasi irriconoscibili, è necessario ripensare a determinate categorie giuridiche, tipiche del mondo fisico: solo trasferendo i principi dello Stato di diritto nel mondo digitale, sarà possibile dare effettive garanzie alle nostre libertà.

Inoltre, vista l’estrema complessità esistente nel valutare ex post determinati comportamenti dell’uomo, forse sarebbe necessario prevenire alcune delle conseguenze negative derivanti da essi. Una soluzione potrebbe consistere nella possibilità di conoscere fin da subito chi si cela dietro un commento o un post attraverso un preciso sistema di identificazione digitale effettivamente connesso all’identità reale delle persone, evitando, così, la proliferazione incontrollata di profili falsi. Ovviamente, i presumibili vantaggi dell’ipotesi in questione non sarebbero sufficienti ad escluderne i potenziali rischi, come quello di ledere il diritto alla privacy o di limitare eccessivamente la libertà di espressione.

In virtù di ciò, rivestirebbe un ruolo fondamentale il consenso dell’utente del web al proprio riconoscimento, quale libera, specifica, informata ed inequivocabile manifestazione di volontà, sulla scia del sistema Spid, attualmente previsto per accedere ai servizi della pubblica amministrazione.

Tuttavia, viene spontaneo chiedersi: come potrebbe essere tutelata la riservatezza di colui che esprime un’opinione – lecita – ma desidera conservare l’anonimato, per motivi altrettanto leciti e meritevoli di tutela? A tal proposito, ulteriore ipotesi potrebbe essere l’istituzione di precise sezioni di raccolta e protezione dati presso ciascun Social Provider. Quest’ultimo si impegnerebbe a consentire l’accesso alle informazioni solo se necessario ai fini di un’indagine, qualora venissero violate le linee guida della community o compiute presunte azioni illecite, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente.

In ogni caso, si tratta di mere ipotesi, rischiose e di non facile attuazione, che andrebbero approfondite. Ciò che si vuole evidenziare in tale sede è l’utilità di una strategia di prevenzione che non dovrebbe essere letta in un’ottica repressiva, bensì garantista, pervenendo così all’essenza del diritto stesso, inteso come insieme di norme finalizzate a garantire la pacifica convivenza sociale.

In sostanza, piuttosto che discutere di colpevolezza ex post in una moderna “caccia alle streghe”, non sarebbe più utile affrontare il tema della responsabilizzazione ex ante degli utenti di Internet?

Pertanto, la repressione della “parola pericolosa” sarebbe possibile solo nei casi più gravi provati oltre ogni ragionevole dubbio, mentre le violazioni meno gravi dovrebbero essere affrontate con strumenti diversi dalla legislazione penale; la migliore risposta all’odio e all’utilizzo distorto dei social è costituita proprio dall’uso di parole che favoriscano la coesione sociale, diano maggiore voce alle minoranze, incoraggino il dialogo e l’educazione ai sentimenti accorciando, così, effettivamente le distanze anche nel mondo reale.

In conclusione, nel contesto attuale, forse sarebbe opportuno riproporre il concetto di libertà accanto a quello di autoresponsabilità, che si pone alla base di ogni sistema giuridico liberale, ove ogni persona può compiere delle scelte liberamente ma allo stesso tempo è tenuta a rispondere delle conseguenze che ne derivino. Dunque, la libertà è tale non perché assoluta e priva di limiti ma proprio perché li implica, dovendo essere intesa nel senso di “autodeterminazione responsabile”: non è pensabile limitare ancora la libera manifestazione del pensiero, ma si potrebbero prevenire determinate conseguenze negative di essa, ponendo l’accento sulla concezione di individui certamente liberi di esprimersi ma allo stesso tempo responsabili, cioè “abili a rispondere” delle proprie azioni.

Solo così si può garantire quella pari dignità sociale di cui all’art. 3 della Costituzione, cercando di limitare, ove possibile, tutto ciò che non decet homines.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Enciclopedia giuridica Treccani.

[2] Così J.T. CACIOPPO, G.G. BERNSTON, R.E. PETTY, Persuasion in Encyclopedia of human biology, VI vol., London – New York, Academic press, 1997.

[3] A. GODINO, L’arte della persuasione: seduzioni del pensiero, 2009.

[4] G.M. FLICK, La Tutela della Personalità nel delitto di plagio, Giuffrè, Milano, 1972, p. 93.

[5] A. USAI, Profili penali dei condizionamenti psichici. Riflessioni sui problemi penali posti dalla fenomenologia dei nuovi movimenti religiosi, Milano, 1996; p. 244 e 248.

[6] F. CONSULICH in G. FORNASARI – S. RIONDATO, Reati contro l’ordine pubblico, Giappichelli, Torino, 2017.

[7] In questi termini, R. NIRO, Piattaforme digitali e libertà di espressione fra autoregolamentazione e coregolazione: note ricostruttive, in Osservatorio sulle fonti, n. 3, 2021, p. 1375. 

[8] A. GALLUCCIO, Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, discorso d’odio e libertà di espressione nell’era di internet, Giuffrè, 2020, p. 121.

[9] L’Art. 1 della Dichiarazione sancisce: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

[10] Cfr. F. BARTOLOMEI, La dignità umana come concetto e valore costituzionale, Giappichelli, 1987.

[11] L’Art. 2 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo sancisce: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità”.

[12] La dignità evoca il concetto di “ciò che è degno”, dal latino dignum est. Il verbo decet indica “ciò che è bene, ciò che è adatto”.

[13] P. FALLETTA, Controlli e responsabilità dei social network sui discorsi d’odio online, in Speciale ICON-S Italia 2019 - Le nuove tecnologie e il futuro del diritto pubblico.