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Pubbl. Mer, 17 Gen 2024

Corte di giustizia: una Pubblica amministrazione può vietare ai suoi dipendenti di indossare segni religiosi

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Domenico Pio Laino
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno



La Corte di giustizia dell´Unione europea, con la pronuncia relativa alla causa C-148/22, si è espressa in merito alla legittimità del divieto, imposto da un ente pubblico, di indossare il velo islamico, quale espressione di un credo religioso. La pronuncia si sofferma sugli elementi che devono sussistere affinché tale legittimità possa dirsi realizzata, e sul perché il contesto lavorativo svolge un ruolo di primo piano nella scelta del Comune di imporre tali limitazioni, altrimenti discriminanti.


ENG The Court of Justice of the European Union, in its ruling on Case C-148/22, has ruled on the legitimacy of a ban imposed by a public institution on the wearing of the Islamic headscarf, as an expression of religious belief. The ruling focuses on the elements that must be in place for such legitimacy to be said to have been realized, and why the employment context plays a major role in the institution´s choice to impose such otherwise discriminatory restrictions.

Sommario: 1. Introduzione; 2. Il rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE; 3. La normativa europea; 4. La normativa belga; 5. Il caso; 6. La decisione; 7. Conclusioni.

1. Introduzione

La Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) si è pronunciata, in data 28 novembre 2023, in merito alla causa C-148/22, la quale si sostanziava in un rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale del lavoro di Liegi (Tribunal du travail de Liège, Belgio). La causa in esame presso il giudice belga riguardava, in particolare, una dipendente del Comune di Ans, alla quale, nello svolgimento delle proprie mansioni, era stato fatto divieto di indossare il caratteristico “hijab” islamico, vale a dire quel velo che, secondo la cultura e la religione musulmana, deve coprire il volto delle donne appartenenti a questo credo, in modo da far trasparire solo gli occhi. In particolare, il Comune di Ans aveva modificato il proprio regolamento prevedendo che i propri dipendenti osservassero una «neutralità esclusiva» sul luogo di lavoro, vietando qualsivoglia forma di proselitismo, realizzata, seppur indirettamente, mediante vistose manifestazioni di determinate convinzioni ideologiche e/o religiose, catalizzate, ad esempio – come nel caso di specie – da segni visibili.

La ricorrente adiva il giudice nazionale, chiedendo l’accertamento circa la violazione della sua libertà di religione – sancita dall’art. 19 della Costituzione belga –, avvalorata dal fatto che la sua posizione lavorativa non sottintendesse rapporti con il pubblico (c.d. “in back office”). Il tribunale nazionale, dal canto suo, dopo aver riconosciuto una discriminazione in atto, adiva la Corte di giustizia dell’Unione europea, chiedendo se la regola di neutralità inserita nel regolamento da parte del Comune di Ans fosse conforme al diritto dell’Unione, segnatamente alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000.

In via generale, si può anticipare che la decisione della Corte è stata nel senso di consentire questa limitazione, poiché ritenuto che «al fine di creare un ambiente amministrativo totalmente neutro, una pubblica amministrazione [possa] vietare di indossare in modo visibile sul luogo di lavoro qualsiasi segno che riveli convinzioni filosofiche o religiose. Una regola del genere non è discriminatoria se viene applicata in maniera generale e indiscriminata a tutto il personale di tale amministrazione e si limita allo stretto necessario», purché tale norma sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco. Quindi, una politica di neutralità da parte dell’amministrazione, volta a creare un ambiente apolitico e, in tal caso, areligioso, viene considerata legittima e giustificata. 

2. Il rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE

Com’è noto, il rinvio pregiudiziale è sancito dall’art. 267 del TFUE ([1]), e consente ai giudici nazionali degli Stati membri di adire la CGUE per sottoporre alla stessa una richiesta sull’interpretazione dei Trattati e sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’UE. Si tratta di un istituto necessario, al fine di garantire su tutto il territorio dell’UE, un’interpretazione omogenea e un’applicazione conforme del diritto comunitario. Tuttavia, è fatto obbligo al giudice nazionale di esperire tale strumento solo allorquando la questione risulti dirimente per la risoluzione della controversia sottoposta al suo esame, sebbene sussista una facoltà per l’organo giurisdizionale d’appello e un’obbligatorietà, invece, per l’organo giurisdizionale di ultima istanza, così come sancito dallo stesso art. 267 TFUE ([2]).

Il mancato sollevamento del ricorso, come sancito dalla sentenza Köbler c. Repubblica d’Austria (C-224/01) ([3]) comporta un dovere risarcitorio da parte dello Stato nei confronti del cittadino, per violazione del diritto comunitario, segnatamente dell’art. 267 TFUE, con la conseguente possibilità di essere chiamato a rispondere dinnanzi alla CGUE in un giudizio di infrazione. La Corte non decide in concreto; tuttavia, fornisce un’interpretazione vincolante e per il giudice a quo – che deve risolvere la causa – e per i giudici degli altri Stati membri che, trovandosi di fronte a una questione simile, dovranno necessariamente far riferimento a quella “interpretazione ufficiale” fornita dalla Corte, pena il rigetto del ricorso.

La questione pregiudiziale sollevata dal giudice nazionale si sostanziava, in particolare, sul se l’art. 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, potesse essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni di convinzioni personali ([4]), e se tale divieto neutro, poiché, sembri colpire in maggioranza le donne, possa costituire una discriminazione dissimulata fondata sul genere ([5]).

Bisogna anzitutto premettere, come viene osservato anche nelle conclusioni dell’Avvocato generale Anthony Michael Collins ([6]), che la questione era già stata oggetto di dibattito presso la Corte. In particolare, ci si chiedeva se un datore di lavoro avesse il diritto di imporre ai suoi dipendenti restrizioni nell’ambito dell’esercizio delle loro funzioni. La novità, in questo caso, che rende la questione meritevole dell’attenzione della Corte, è che si tratta non di un datore di lavoro privato, bensì pubblico, segnatamente un Comune, per cui ci si chiede se la natura e le caratteristiche specifiche del servizio pubblico, nonché il contesto proprio di ciascuno Stato membro, impongano di adottare soluzione diversa da quella adottata in dette precedenti cause.

 

3. La normativa europea

La Corte, nella sentenza, si sofferma tanto sul diritto dell’Unione, in particolare sulla direttiva 2000/78 ([7]), quanto sul diritto belga. In particolare, l’art. 2, paragrafo 1, della suddetta direttiva stabilisce che «per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1». L’articolo 2, paragrafo 2, prevede, invece, che, ai fini dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1: « (a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; (b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: […] tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari […]».

L’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 è determinato dal suo articolo 3, paragrafo 1, che la estende «[…] a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene […] all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione».

Infine, l’articolo 4 prevede, al paragrafo 1, che «fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».

Come si evince, quindi, da questo excursus normativo la disciplina comunitaria è molto dettagliata, prevedendo un ambito di applicazione molto ampio, che certamente, da un punto di vista soggettivo, ricomprende l’ente pubblico comunale parte del procedimento; è altresì derogabile, laddove, appunto la differenza di trattamento sia connotata da essenzialità e determinatezza per l’attività lavorativa, purché rispetti determinati limiti, ovvero persegua una finalità legittima e la situazione differenziale sia proporzionata a suddetta finalità.

4. La normativa belga

Per quanto, invece, concerne il diritto belga, la legge di recepimento della direttiva 2000/78 ([8]) è la legge del 10 maggio 2007 sulla “lotta a talune forme di discriminazione”. In particolare, l’articolo 4 della presente legge, che verte sulle definizioni, dispone che: «ai fini dell’applicazione della presente legge, si intende per: (a) rapporti di lavoro: i rapporti che comprendono, inter alia, l’occupazione, le condizioni di accesso al lavoro, le condizioni di lavoro e le norme sul licenziamento, e questo sia nel settore pubblico che nel settore privato; […] (b)    criteri tutelati: l’età, l’orientamento sessuale, lo stato civile, la nascita, il patrimonio, le convinzioni religiose, filosofiche o politiche, la lingua, lo stato di salute attuale o futuro, una disabilità, una caratteristica fisica o genetica, l’origine sociale».

La legge in esame qualifica una (a) distinzione diretta come quella situazione che si verifica allorché, sulla base di uno dei criteri tutelati, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga, e, di conseguenza la (A) discriminazione diretta come quella distinzione diretta, fondata su uno dei criteri tutelati, che non può essere giustificata sulla base delle disposizioni del titolo II. Inoltre, qualifica una (b) distinzione indiretta come quella situazione che si verifica allorché una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono comportare un particolare svantaggio per le persone caratterizzate da uno dei criteri tutelati rispetto alle altre e, di conseguenza, la (B) discriminazione indiretta come quella distinzione indiretta, fondata su uno dei criteri tutelati, che non può essere giustificata sulla base delle disposizioni del titolo II.

L’articolo 5, paragrafo 1, dispone che, ad eccezione delle materie di competenza delle comunità o delle regioni, tale legge si applichi a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico per quanto riguarda, in particolare, i rapporti di lavoro.

L’art. 7 prevede che «ogni distinzione diretta basata su uno dei criteri tutelati costituisce discriminazione diretta, a meno che tale distinzione diretta sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».

L’articolo 9 di tale legge prevede che «qualsiasi distinzione indiretta fondata su uno dei criteri tutelati costituisce una discriminazione indiretta, […] a meno che la disposizione, il criterio o la prassi apparentemente neutri su cui si basa la distinzione indiretta siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari […]».

Quindi, anche in questo caso, riscontriamo un modello che, giocoforza, è speculare a quello della direttiva (com’è tipico delle leggi di recepimento nazionali): abbiamo, infatti, il precetto, vale a dire quando si realizza una discriminazione diretta e quando una discriminazione indiretta, e, allo stesso modo, vi sono delle eccezioni che, tuttavia, sono limitate dalla finalità legittima e dalla proporzionalità.

Il 29 marzo 2021, il Comune di Liegi, dopo aver, nei mesi precedenti, adottato una serie di decisioni volte a vietare alla ricorrente l’utilizzo di segni riconducibili a convinzioni personali, ha modificato l’art. 9 del suo regolamento di lavoro, prevedendo che «Il lavoratore ha libertà di espressione nel rispetto del principio di neutralità, del proprio obbligo di riservatezza e del proprio dovere di lealtà.

Il lavoratore è tenuto a rispettare il principio di neutralità, il che implica il dovere di astenersi da qualsiasi forma di proselitismo e il divieto di esibire qualsiasi segno vistoso che possa rivelare la sua appartenenza ideologica o filosofica o le sue convinzioni politiche o religiose. Tale regola si applica al lavoratore sia nell’ambito dei suoi contatti con il pubblico sia nei suoi rapporti con i suoi superiori e i suoi colleghi».

Il 26 maggio 2021, la ricorrente ha adito il tribunal du travail de Liège (Tribunale del lavoro di Liegi) chiedendo un’azione inibitoria avverso i provvedimenti di divieto nei suoi confronti precedenti alla modifica del regolamento e riguardo al regolamento stesso, e che, in particolare, constatasse l’esistenza di una discriminazione nei suoi confronti fondata sulla religione e sul genere.

5. Il caso

Il giudice del rinvio, alla luce della normativa sinora esaminata, considera il divieto imposto alla ricorrente dal Comune di indossare il velo islamico come una «discriminazione diretta fondata su una distinzione diretta sulla base del criterio tutelato “convinzione religiosa o filosofica”». Tale distinzione diretta non risulterebbe giustificata da requisiti professionali essenziali e determinanti, dal momento che la ricorrente esercita prevalentemente le sue funzioni senza essere a contatto con gli utenti del servizio pubblico, né essa sarebbe oggettivamente giustificata da una finalità legittima i cui mezzi di attuazione sarebbero appropriati e necessari, com’è sancito dalla normativa belga. Il giudice del rinvio rilevava altresì che, il Comune pone in essere una neutralità «a geometria variabile», ossia esclusiva nei confronti della ricorrente e più inclusiva e permissiva nei confronti dei suoi colleghi con altre convinzioni filosofiche o religiose.

Di conseguenza, detto giudice aveva provvisoriamente consentito alla ricorrente nel procedimento principale di indossare un segno visibile che potesse rivelare le sue convinzioni religiose, ma unicamente in «back office» e non quando fosse a contatto con gli utenti o quando esercitasse una funzione di autorità. Il giudice del rinvio, tuttavia, nutrendo dubbi quanto alla conformità con le disposizioni della direttiva 2000/78 di una disposizione di un regolamento di lavoro, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che impone un obbligo di «neutralità esclusiva» a tutti i dipendenti di una pubblica amministrazione, anche a quelli che non hanno rapporti con gli utenti, sospendeva il procedimento e sottoponeva alla Corte le questioni pregiudiziali di cui sopra si è detto.

6. La decisione

Passando all’analisi della sentenza della Corte che ha concluso tale vicenda, si può partire subito dalla seconda questione – riguardante, l’attuazione di una forma di discriminazione indiretta nei confronti del genere femminile –, in quanto, la Corte ne ravvisa l’irricevibilità per una serie di motivi: il primo è che quando il giudice nazionale esperisce uno strumento di tal fatta (quello di cui all’art. 267 TFUE) è tenuto indicare i motivi precisi che l’hanno indotto a interrogarsi sull’interpretazione del diritto dell’Unione e ritenere opportuno adire la CGUE ([9]), e, come rilevato dall’Avvocato generale e dal governo francese, ciò non era avvenuto, in quanto il giudice del rinvio non aveva specificato il collegamento tra le disposizioni del diritto comunitario e la controversia di cui è investito, con riferimento alla discriminazione fondata esclusivamente sul genere.

Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede se la direttiva 2000/78 possa essere interpretata nel senso di autorizzare un ente pubblico a organizzare un «ambiente amministrativo totalmente neutro» e a vietare pertanto a «tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico» di indossare segni del genere, ovvero se la norma del regolamento comunale dia origine a una discriminazione diretta o indiretta, fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, in violazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2000/78.

Occorre premettere che la direttiva in esame lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri, tale per cui questa consente di tenere conto del contesto specifico del singolo Stato, al fine di garantire la propria identità nazionale.

Per quanto riguarda la sussistenza di una discriminazione diretta, è utile menzionare la sentenza riguardante la G4S Secure Solutions [10], nella quale era stata posta la questione se una norma interna di un’impresa privata, che vieta in generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro costituisse una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.

La Corte in quell’occasione ebbe modo di specificare che, per quanto un’imposizione di neutralità di abbigliamento da parte dell’impresa fosse idonea ad arrecare disagi ai lavoratori, la stessa era da considerarsi legittima, e per tanto non confliggente con la direttiva 2000/78, poiché incapace di istituire una discriminazione, ove concernente qualsiasi manifestazione di qualsivoglia convinzione e volta a determinare una parità di trattamento – per quanto “svantaggiosa” – nei confronti di tutti i dipendenti dell’impresa, in quanto il divieto era imposto in maniera generale e indiscriminata.

A tal proposito, ricollegandosi al caso belga, la norma del regolamento comunale, per come formulata, riguarda qualsiasi manifestazione di convinzioni personali e religiose, tale da imporre, in maniera generale e indiscriminata, a tutti i dipendenti comunali di rispettare un codice di neutralità nell’abbigliamento, non riguardando solo il velo islamico o solo segni esprimenti una ben determinata convinzione filosofica o religiosa o, ancora, solo determinati segni vistosi. La norma regolamentare si riferisce a qualsiasi segno vistoso, per cui una norma del genere non istituisce una differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o a tali convinzioni personali.

D’altra parte, il giudice del rinvio fa riferimento a una neutralità “a geometria variabile”, quindi sottintendente una discriminazione diretta nei confronti della ricorrente; tale valutazione nel concreto spetta, però, al giudice del rinvio, che deve verificare il rispetto della norma da parte del Comune, alla Corte spetta di verificare se tale norma sia conforme al diritto comunitario.

Per quanto concerne la sussistenza di una discriminazione indiretta, da una giurisprudenza costante della Corte risulta che una norma interna, stabilita da un datore di lavoro, che vieta di indossare in modo visibile sul luogo di lavoro qualsiasi segno di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, può costituire una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale disposizione, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro che tale norma contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia. Conformemente all’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78, la differenza di trattamento non costituisce una discriminazione indiretta, qualora sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari ([11]).

Nel caso di specie, vi è da sottolineare che, per quanto il divieto sia effettivamente generalizzato, è oggettivamente riscontrabile come determinati soggetti aderenti a specifici credi religiosi – come appunto quello musulmano – siano più svantaggiati, perché si tratta, in sostanza, di un credo religioso, la cui fede comporta l’adozione di un segno visibile, a differenza, ad esempio, della religione cristiana.

Ad avviso della Corte, la volontà dell’ente pubblico di condurre una politica di neutralità religiosa o filosofica si sostanzia in una finalità legittima che non corrisponde, come per l’impresa privata, nella libertà di impresa, bensì nel trattamento non discriminatorio e di parità degli utenti del servizio pubblico; in tal caso l’obiettivo del comune è quello di attuare il principio di neutralità del servizio pubblico, il quale trova fondamento negli artt. 10 e 11 della Costituzione belga, nel principio di imparzialità e di neutralità dello Stato. Come sottolinea il governo belga nelle sue osservazioni scritte, riproducendo un passaggio di una sentenza del Conseil d’État (Consiglio di Stato, Belgio) del 27 marzo 2013, in uno Stato democratico di diritto, l’autorità pubblica deve essere neutrale «perché è l’autorità di tutti i cittadini e per tutti i cittadini e deve, in linea di principio, trattarli in modo uguale senza discriminazioni basate sulla loro religione, sulle loro convinzioni personali o sulla loro preferenza per una comunità o un partito» ([12]).

La finalità legittima a cui fa riferimento la direttiva, ad avviso della Corte, si riscontrerebbe proprio nella politica di “neutralità esclusiva” che l’ente pubblico intende instaurare e che, a sua volta, è frutto di quel margine di discrezionalità che agli Stati membri è riconosciuto. Di fatti, la direttiva 2000/78, in quanto direttiva, stabilisce solo un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che, quindi, lascia un margine di apprezzamento agli Stati membri e agli enti infrastatali. Motivo per cui si può ritenere che una disposizione come l’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale persegua una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78.

La Corte precisa altresì che per dirsi realizzata in concreto la finalità legittima della “neutralità esclusiva” è necessario che l’obiettivo in questione sia «perseguito dal comune in modo realmente coerente e sistematico, e che il divieto di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche e religiose, previsto dall’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale si limiti allo stretto necessario» ([13]). Tuttavia, una valutazione di tal fatta, lo si ripete, è di stretta competenza del giudice nazionale.

7. Conclusioni

Alla luce di queste considerazioni la Corte fornisce un’interpretazione dell’art. 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, nel senso che «una norma interna di un’amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di istituire, tenuto conto del proprio contesto, un ambiente amministrativo totalmente neutro, purché tale norma sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco».


Note e riferimenti bibliografici

[1] L'art. 267 TFUE, commi 1 e 2, dispone che: «La Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull'interpretazione dei trattati; b) sulla validità e l'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione.

Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri, tale organo giurisdizionale può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione».

[2] L'art. 267 TFUE, comma 3, dispone che: «Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte».

[3] Nella sentenza citata si può leggere che «Il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese. Al fine di determinare se la violazione sia sufficientemente caratterizzata allorché deriva da una tale decisione, il giudice nazionale competente deve, tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale, accertare se tale violazione presenti un carattere manifesto. Spetta all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative al detto risarcimento».

[4] Il tribunale nazionale sottoponeva alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «1) Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva [2000/78] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni [che possano rivelare convinzioni religiose]».

[5] Il tribunale sottoponeva alla Corte, inoltre, una seconda questione: «Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva [2000/78] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni [che possano rivelare convinzioni religiose], benché tale divieto neutro sembri colpire in maggioranza le donne, potendo dunque costituire una discriminazione dissimulata fondata sul genere».

[6] Gli avvocati generali assistono la Corte. Essi hanno il compito di presentare, in piena imparzialità e indipendenza, un parere giuridico, denominato «conclusioni», nelle cause di cui sono investiti.

[7] L’articolo 1 della direttiva 2000/78 così dispone: «La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

[8]  Si tratta della legge del 10 maggio 2007 tendant à lutter contre certaines formes de discrimination, che ha riformato la normativa preesistente su alcuni tipi di discriminazione, comprese le discriminazioni a carattere omofobico.

[9] si veda a tal proposito, Corte Giust. 6 dicembre 2005, cause riunite C-453/03, C-11/04, C-12/04 e C-194/04, ABNA e a., Racc. pag. I-10423, punto 46, nonché citate ordinanze Blanco Pérez e Chao Gómez, punto 18, e Investitionsbank Sachsen-Anhalt, punto 30

[10] Causa C-157/15, G4S Secure Solutions.

[11] sentenza del 15 luglio 2021, WABE e MH Müller Handel, C‑804/18 e C‑341/19, EU:C:2021:594, punto 60.

[12] Stralcio di sentenza rinvenibile nelle conclusioni dell'Avvocato generale riguardanti la causa in esame.

[13] si veda, in tal senso, sentenza del 15 luglio 2021, WABE e MH Müller Handel, C‑804/18 e C‑341/19, EU:C:2021:594, punto 68.