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Pubbl. Mer, 30 Dic 2015
Sottoposto a PEER REVIEW

Giusto processo e dovere di collaborazione fra le parti

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Salvatore Magra


Il ruolo sostanziale del dovere di collaborazione delle parti nel processo civile e i rapporti con il principio del giusto processo.


Concependo il processo come struttura in cui va eliminato in radice qualsivoglia nesso collaborativo fra le parti, il rapporto processuale rispecchia una realtà giuridica in cui il fine prevalente è neutralizzare l'avversario, con conseguente riconduzione del meccanismo a una lotta in cui prevale il più forte, in assenza di uno spirito solidaristico, in palese contrasto con quanto emerge dall'art. 2 Cost., per il dovere inderogabile di solidarietà sociale.

In una simile realtà, l'intervento del Giudice è limitato solo alla fase decisoria in senso stretto, relativa all'emanazione della sentenza. Un modello opposto è quello in cui, diversamente, il Giudice si attiva per tutta la durata del processo, al fine di ottenere risultati utili per la decisione.

Occorre mediare fra questi due estremi opposti, in modo che il Giudice possa acquisire un ruolo attivo durante tutto il processo, senza che alle parti sia inibita la possibilità di assumere anche loro tale ruolo, attraverso un'interazione fra Giudice e parti.

Questo è lo spirito che emerge dalla riforma del giusto processo, con l'art. 111 Cost., il quale, in base alle modifiche intervenute con la legge cost. n. 2 del 1999, ai primi due commi stabilisce che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

Il Legislatore italiano ha tentato di creare un avvicinamento fra Giudice e parti, cercando di stabilire i presupposti per far sì che il Giudice solleciti il contraddittorio sui punti nevralgici della materia del contendere e possa esprimere il proprio orientamento sul materiale acquisito durante lo svolgimento del processo, con l'auspicio che anche al di fuori del meccanismo puramente rituale si possa manifestare un dialogo fra i soggetti del processo. Va rilevato che già prima della modifica dell'art. 111 cost., dalla giurisprudenza della Corte costituzionale è in più occasioni emersa una presa di posizione nel senso del rilievo di ciò che è ricavabile dall'art. 111 Cost. nell'attuale formulazione, già ben prima della modifica di tale testo normativo. Ciò significa che l'attuale art. 111 Cost. ha recepito degli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale, risalenti già agli anni '80. Detto altrimenti, già prima della riforma, i princìpi contemplati dall'attuale art. 111 Cost. erano presenti in modo diffuso nel testo della Carta ed erano in particolare desumibili dall'art. 24 Cost.,

Tale ultima disposizione, pur riferendosi in via diretta al diritto di difesa come inviolabile, è da intendere anche come normativa, che prevede la necessaria partecipazione attiva (salva diversa volontà in tal senso) delle parti nel processo (in questa sede ci si riferisce in particolare al processo civile). Può osservarsi come le norme del procedimento ordinario civile non sono paradigma unico del giusto processo, con la conseguenza che, ove i diritti delle parti siano sufficientemente rispettati, è ben possibile costruire riti differenti, ivi compresi quelli sommari, i quali possono considerarsi costituzionalmente legittimi.

Un rito speciale può, anzi, in astratto e in certi casi, per una sua struttura peculiare e per il modo in cui in concreto viene applicato, rivelarsi maggiormente idoneo a creare i presupposti per un'effettiva partecipazione collaborativa delle parti al raggiungimento della verità.

Secondo la sentenza n. 220 del 1986 della Corte costituzionale “Il giusto processo civile vien celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipanosiano esse attori o convenuti – ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, né deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice” Si comprende come si percepisca una chiara esortazione a pervenire a un'incidenza nel senso di una puntuale risoluzione della vicenda nei suoi aspetti concreti. Secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 137-1984, in cui in modo palese si esamina già nei primi anni '80 il concetto di “giusto processo”, si afferma che il medesimo è «esigenza suprema che non si risolve in affari di singoli, ma assurge a compito fondamentale di una giurisdizione che non intenda abdicare alla primaria funzione di dicere ius di cui i diritti di agire e di resistere nel processo(quale che ne sia loggetto) rappresentano soltanto i veicoli necessari in non diversa guisa delle norme disciplinatrici della titolarità e dellesercizio della potestà dei giudici».

Il giusto processo si salda con il dovere delle parti di collaborare nel processo civile. Questo legame può consentire alle parti stesse di assumere un ruolo attivo e di tener conto nel proprio interesse e nella reciproca correttezza delle indicazioni del Magistrato, per impostare in maniera efficace l'attività difensiva. Il Magistrato, può, nel corso di provvedimenti interlocutori, rendere più o meno palese il suo orientamento anche in rapporto alle questione di merito e ciò può suggerire ai Difensori come prendere le opportune iniziative e se sia opportuno promuovere un tentativo di composizione transattiva della controversia in via stragiudiziale.

L'azione è bilaterale (o plurilaterale), in quanto si fonda sulla necessaria dualità fra attore e convenuto, ma il giudizio è trilaterale, con uno schema di matrice hegeliana in cui il Magistrato è chiamato a costruire una sintesi di una tesi e un'antitesi contrapposte, nell'intento della ricerca razionale della verità, per attuare un'apprezzabile finalità di giustizia sostanziale, contenendo eventuali abusi processuali, derivanti da comportamenti eterodossi dei soggetti coinvolti. L'abuso processuale è in re ipsa quando si violi il suddetto dovere di collaborazione.

La contrapposizione originariamente dialettica fra le parti mira al conseguimento di fini superiori, in particolare il raggiungimento della verità, nei limiti del possibile e nell'ottica dell'ottenimento di questo obiettivo essenziale la contrapposizione stessa si deve attenuare attraverso il prisma della collaborazione.

Il principio di collaborazione delle parti nel processo civile emerge chiaramente, oltre che dalla Costituzione, anche dall' art. 101, comma 1, cod. proc. civ., (secondo cui Il Giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa) e si comprende come per rendere pienamente operativa tale regola fondamentale sia necessario andare oltre la piena realizzazione del principio del contraddittorio, la quale pur costituisce condicio sine qua non per una effettiva collaborazione.

Occorre favorire positivamente la cooperazione, la quale, in un visione non ristretta, deve riguardare non solo le parti, in un'ottica che superi la mera conflittualità e aderisca a una logica collaborativa, ma deve estendersi in modo da coinvolgere anche il Giudice, il quale deve operare come sintesi fra la tesi e antitesi costituita dalle posizioni delle controparti, in modo che si possa procedere a una rielaborazione del confronto fra gli interessi esposti, i quali hanno una pregnanza anche extragiuridica,, tentando una armonizzazione degli stessi, nella prospettiva di una soluzione conforme al diritto. Non basta garantire l'equilibrio delle forze contrapposte (“parità delle armi” o eguaglianza nei punti di partenza), ma occorre promuovere degli accorgimenti perché tale equilibrio si mantenga e sia solo una scelta della parte quella di rimanere inerte a fronte dell'attività difensiva avversaria. Occorre, in altri termini, che a entrambe le parti sia consentito di dare un apporto alla decisione, in una cornice in cui sia promosso il dialogo.

Una visione meramente formalistica non consente un'effettiva incidenza in concreto nel processo, con il rischio che il medesimo diventi fine sa se stesso, vale a dire avulso dalla concreta vicenda avvenuta fra le parti. Anche le sollecitazioni provenienti dalla costituzionalizzazione del giusto processo (art. 111 Cost.) rappresentano il culmine del rilievo costituzionale del dovere di collaborazione fra le parti e determinano il radicale superamento di una concezione del processo in cui l'antitesi esistente fra le parti contrapposte nel diritto sostanziale si traduce pienamente in un'antitesi processuale, in cui ciascuno tenta di scoprire i piani dell'avversario, eventualmente sfruttando gli errori dello stesso.

Se è vero che la parte, con riferimento specifico al processo civile, non può essere costretta ad agire, in ogni caso l'ordinamento deve consentire, proprio in applicazione del suddetto principio di collaborazione nel processo, che chi intenda attivare un giudizio metta in grado la controparte di essere a conoscenza di tale attivazione, in modo da permettere a tale soggetto di scegliere se assumere un ruolo attivo o meno nell'ambito dello svolgimento del giudizio. La contumacia deve essere una scelta ben ponderata(1).

Queste osservazioni trovano una chiara conferma nel principio di cui all'art. 24 Cost. sul diritto di difesa,, con la conseguenza che la posizione paritaria delle parti nel processo va considerata come una condizione imprescindibile, la quale non può restare allo stadio meramente formale, ma va resa effettiva, in quanto la funzione del processo come ricerca della verità è suscettibile di essere realizzata e conseguita, pur nei limiti della fallibilità umana, solo ove sia garantita un'effettiva possibilità alle parti di poter esprimere una propria impostazione difensiva, in rapporto alla materia del contendere. Solo in un'ottica di questo tipo si può realizzare quella collaborazione fra le parti che può portare a un dialogo effettivo fra le medesime, in modo che il principio del contraddittorio non resti una vuota formula. Ove si mantenga solo un collegamento fra principio del contraddittorio ed eguaglianza formale, deriva da questo una perdita del ruolo effettivo che l'uguaglianza può avere nel processo come paradigma di collaborazione.

Vanno a questo punto effettuate delle considerazioni su taluni istituti processualistici di portata generale, per suffragare il ragionamento che in seguito si formulerà.

La nozione di parte è strettamente connessa al rapporto processuale, e, secondo Chiovenda, “non occorre cercarla fuori dalla lite e in particolare nel rapporto sostanziale che è oggetto di controversia”. In particolare, sarebbe “parte colui che domanda in proprio nome (o nel cui nome è domandata) una attuazione di legge, e colui di fronte al quale essa è domandata. Pertanto, la nozione di capacità giuridica, quale attitudine a essere soggetto di diritti e doveri, trova una sua appendice processuale nella “legittimazione al processo”. Essa spetterebbe, dunque, ad ogni persona fisica o giuridica, e consisterebbe nella capacità di esser soggetto, in potenza, di un rapporto processuale 2.

Vi è, altresì e sotto altro profilo, la capacità di porre in essere atti processuali, la quale rappresenta la trasposizione nel diritto processuale della capacità di agire.

Distinta dalla legitimatio ad processum sarebbe, sempre secondo Chiovenda, la legitimatio ad causam o legittimazione ad agire: “Con questa si intende la identità della persona dell’attore colla persona a cui la legge concede l’azione (legittimazione attiva), e la identità della persona del convenuto colla persona contro cui l’azione è concessa (legittimazione passiva); mentre col nome di legitimatio ad processum si indica la capacità di stare in giudizio per sè o per altri” 3.

Poniamo l'ipotesi, in cui un lavoratore subordinato agisca contro un determinato soggetto, affermando che questi è il suo datore di lavoro: egli deve, ovviamente, dimostrare che egli e non altri è il suo datore di lavoro. Le eventuali oscillazioni, desumibili da un esame degli scritti difensivi, sia in ordine all'individuazione del datore di lavoro, sia in ordine alla sovrapposizione di soggetti giuridici differenti, denotano una debolezza argomentativa, in rapporto alla dimostrazione delle tesi sostenute e alla fondatezza delle conclusioni formulate.

In una vicenda processuale come quella ipotizzata, può supporsi che si indichi come datore di lavoro un soggetto che non è il legittimato passivo, ossia che in capo a tale soggetto manchi la legitimatio ad causam o legittimazione ad agire, nella qualità di resistente, in rapporto allo specifico giudizio in corso. Ove non si attui alcun rimedio nel senso sopra indicato (richiesta di estromissione del soggetto non legittimato passivo e chiamata in giudizio dell'effettivo datore di lavoro, si può ritenere compromesso e menomato il diritto di difesa dell'effettivo datore di lavoro, ove il correlativo diritto di difesa si possa esteriorizzare solo in una fase avanzata della procedura.

Il ragionamento sopra sviluppato è partito da un'ipotesi di applicazione del rito del lavoro, in cui il giudizio viene introdotto con ricorso prima depositato e successivamente notificato con il provvedimento del Giudice di fissazione dell'udienza, in quanto il processo, con l'erronea indicazione del legittimato passivo, ha inizio con il deposito del ricorso e l'integrazione del contraddittorio avvenuta in una fase successiva e assai avanzata del processo fa permanere l'originario difetto di instaurazione del contraddittorio. Il ragionamento, peraltro, può estendersi al rito ordinario, in cui si effettui un'erronea vocatio in jus tramite citazione, indicando come convenuto un soggetto privo di legittimazione passiva. L'erronea individuazione del soggetto passivo del rapporto processuale incide in negativo a proposito dell'instaurazione di un sano contraddittorio sostanziale con l'effettivo legittimato passivo.

Nell'ipotesi in cui tale legittimato non sia messo, fin dall'inizio, nella condizione di impostare una propria difesa, perché non abbia ricevuto la regolare “chiamata in causa”, appare assente la costituzione del rapporto processuale, parzialmente e insufficientemente sanata solo in una fase avanzata del giudizio, e vi è un radicale difetto del contraddittorio.

L'accertamento in concreto e la risoluzione del problema se attore e convenuto (o, secondo il rito che si applichi, ricorrente e resistente) siano, dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari del rapporto dedotto in giudizio, è questione di merito, concernente la fondatezza della pretesa (Trib. Potenza, sentenza del 28-8-2013; in senso conforme v. Cass. 3 dicembre 1999, n. 13467; Cass. 24 luglio 1997, n. 916; Cass. 13 gennaio 1995, n, 377, Cass. 17 marzo 1995, n. 3110).

Ove la parte che instauri un giudizio commetta un errore riguardo al legittimato passivo e successivamente non esperisca alcun rimedio per ovviare all'inconveniente, chiedendo l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'effettivo legittimato passivo e l'estromissione del soggetto erroneamente chiamato in giudizio, tale parte è destinata alla soccombenza anche in rapporto a una violazione del dovere di collaborazione. Tale violazione dovrà essere tenuta in adeguata considerazione dal Giudice anche sul piano decisorio.

Ciascuna parte processuale, nell'impostazione delle proprie argomentazioni difensive, segue un percorso logico, che ha necessariamente come base di partenza l'individuazione del soggetto contro cui sviluppare le proprie pretese. Proprio la fallacia del ragionamento iniziale, relativa all'individuazione della controparte, si ripercuote sulla fondatezza delle pretese e delle conclusioni formulate.

Non si possono estendere i ragionamenti svolti presupponendo in astratto che il destinatario dei medesimi sia un determinato soggetto (ossia il soggetto per errore chiamato in giudizio), quando sul piano concreto il destinatario avrebbe dovuto essere un altro e quando l'attore oscilli negli scritti difensivi in punto di indicazione del destinatario delle pretese resta confermata la presenza di una fallacia logica iniziale non sanabile, la quale ridonda nella violazione del dovere collaborativo più volte menzionato. L'esempio in questione è stato formulato proprio per sondare un caso concreto in cui il dovere di cooperazione possa essere funzionale a una effettiva e sana instaurazione del contraddittorio.

La verità delle premesse, la loro pertinenza, e la plausibilità delle conclusioni formulate sono radicalmente compromesse dall'errore di individuazione dell'effettiva controparte. Un argomento sviluppato, presupponendo che un certo soggetto sia controparte al posto di un altro, non può strutturalmente e in modo automatico adoperarsi nei confronti di un destinatario ontologicamente e giuridicanente diverso.

Non è possibile estendere a un soggetto diverso quanto affermato a proposito di altro soggetto, attraverso una inconcepibile omologazione degli argomenti difensivi. E' intrinsecamente contraddittorio affermare che un ragionamento sia valido anche quando si sia errato nell'indicazione del soggetto destinatario di tale ragionamento. In un'ipotesi siffatta, si perviene a conclusioni relative a un soggetto specifico, diverso dal legittimato passivo.

La modifica della premessa, in rapporto al destinatario delle richieste, specialmente nelle ipotesi in cui essa non sia autonomamente effettuata dall'attore, ma sia determinata dal progressivo svilupparsi della realtà processuale e da un intervento del Magistrato nel senso dell'integrazione del contraddittorio, inficia le conclusioni processuali formulate nel momento dell'instaurazione del giudizio.

 

Note e riferimenti bibliografici

(1) Per approfondimenti sull'art, 111 Cost., si veda Corte costituzionale, Servizio Studi: Il giusto processo civile, a cura di PAOLO SORDI, reperibile cliccando qui; Sul dovere di collaborazione delle parti nel processo cfr. GRASSO, La collaborazione nel processo civile, in Riv dir proc. 1986, 600; SALVANESCHI, Dovere di collaborazione e contumacia del Giudice , passim e capoverso iniziale: reperibile cliccando qui: “Parlare del dovere di collaborazione nel processo civile a quasi cinquant’anni di distanza dalla prolusione che Eduardo Grasso tenne in materia nell’Università di Catania, poi tradotta nel noto saggio ancora oggi ovunque citato quando si tratta di questo tema, richiama immediatamente alla mente il brocardo ivi citato in apertura. Iudicium est actus ad minus trium personarum: actoris,rei, iudicis, questo l’aforisma di Bulgaro,che riassume il congiunto operare del giudice e delle parti che è l’essenza del principio di collaborazione quale criterio organizzativo di forze che operano nel processo”. in materia di contumacia rilevante quanto afferma F. P. Luiso in, Diritto processuale civile, II, 6° ed., Milano 2011, pag. 224 e seg. per il quale “Alla base della decisione di rimanere contumace, c’è una valutazione della parte riferita all’oggetto del processo, cioè alla situazione sostanziale dedotta in giudizio con la domanda. La parte ritiene che, in relazione a quella situazione sostanziale, non ha interesse a difendersi: gli sta bene anche rimanere soccombente Va da sé che, per il rispetto del diritto di difesa, debbono essere quindi notificati al contumace tutti gli atti, che contengono domande nuove, perché in relazione al diverso oggetto del processo il contumace deve essere messo in grado di valutare ex novo se ha interesse a costituirsi, oppure se mantiene l’interesse a non costituirsi”. Queste affermazioni del Luiso sono citate nella nota 54 del testo di Salvaneschi sopra menzionato; peraltro, nonostante l'autorevolezza dell'opinione, asserire apoditticamente che il contumace sceglie di restare tale perché gli sta bene anche restare soccombente rappresenta un postulato indimostrato, il quale può andare bene in talune ipotesi, ma non sempre, in quanto nulla vieta di ipotizzare che un soggetto scelga di restare contumace perché ritiene del tutto destituita di fondamento la tesi avversaria, da non rischiare neppure in minima parte la soccombenza. Possono, altresì, formularsi ipotesi intermedie fra l'accettazione dell'idea della soccombenza e l'idea della totale infondatezza della tesi della parte costituita. la scelta della contumacia è aleatoria, in quanto si calcola in modo più o meno razionale il rischio della scelta di non difendersi.

(2) G. CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civileLe azioni. Il processo di cognizione, Napoli, 1965, rist. an., p. 578. Nello stesso senso v. S. SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1967, p. 75 ss

(3) G. CHIOVENDA, Principii., cit., p. 152)