ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Gio, 16 Feb 2023

Conseguenze sanzionatorie degli abusi su area del demanio marittimo

Modifica pagina

Marco Di Donfrancesco



La sentenza Cons. Stato, Sez. VII, data ud. 11/10/2022, dep. 14/11/2022, n. 9960, si è occupata di rimarcare i confini del regime giuridico dell’impianto sanzionatorio previsto dal T.U. Edilizia in caso di abuso edilizio posto in essere sul territorio del demanio marittimo, ribadendo la natura vincolata del provvedimento di demolizione del manufatto abusivo ex art. 35 d.P.R. 380/2001, posto a tutela sia del rispetto della disciplina urbanistica generale e di zona che dell’integrità e della cura del patrimonio demaniale


ENG

Sanctioning consequences of abuses on maritime state property

The sentence Cons. State, Section VII, date hearing 11/10/2022, filed 11/14/2022, no. 9960, undertook to underline the boundaries of the legal regime of the sanction system provided for by the TU Construction in the event of building abuse carried out on the territory of the maritime state property, reiterating the binding nature of the provision for the demolition of the abusive building pursuant to art. 35 d.P.R. 380/2001, placed to protect both the respect of the general and area planning regulations and the integrity and care of the state property

Sommario: 1. I fatti di causa; 2. La decisione del T.A.R. Calabria; 3. La pronuncia del Consiglio di Stato; 4. Cenni sul regime giuridico del demanio marittimo; 5. Gli abusi edilizi e le conseguenze sanzionatorie; 5.1. La competenza ad esercitare la funzione di controllo; 5.2. Le tipologie di sanzioni amministrative edilizie; 5.2.1. La fattispecie di abuso edilizio ex art. 31 t.u.ed.; 5.2.2. L’art. 35 t.u.ed.: occupazione abusiva di suolo demaniale; 6. Conclusioni.

1. I fatti di causa

La decisione in commento origina dall’impugnazione di una sentenza della Sez. II del T.A.R. Calabria – Catanzaro, che aveva respinto il ricorso dell’appellante contro un’ordinanza del Comune di Stalettì (CZ) recante un’ingiunzione di rilascio di un appezzamento di terreno, occupato dall’appellante, sul presupposto che detto terreno appartenesse al suolo demaniale marittimo (congiuntamente, l’appellante impugnava anche la nota comunale recante comunicazione di avvio del procedimento e la presupposta nota del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Ufficio Circondariale Marittimo – Guardia Costiera di Soverato, che accertava l’abusiva occupazione del suolo in questione da parte di un manufatto insistente su di esso).

Nello specifico, l’appellante lamentava l’incoerenza del contegno del Comune di Stalettì il quale – a detta dello stesso appellante – avrebbe, a seguito di apposito bando pubblico, autorizzato i cittadini ad occupare il suolo in questione, anche per il tramite di costruzioni stabili, in attesa dell’avvio del procedimento di lottizzazione dell’area e della successiva cessione a titolo oneroso della predetta area ai privati.

Il suddetto procedimento di lottizzazione, tuttavia, non ebbe mai avvio, a causa di un contenzioso ingeneratosi tra il Comune di Stalettì e l’Amministrazione statale, la quale rivendicava la proprietà esclusiva dell’area in ragione della sua appartenenza al demanio pubblico. Parimenti, non aveva alcun esito il procedimento di condono del manufatto abusivo promosso dall’appellante ai sensi della l. n. 47/1985.

Sempre secondo l’appellante, inoltre, l’incoerenza del contegno del Comune – e quindi la presunta illegittimità dell’ordinanza di rilascio del suolo – sarebbe stata avvalorata anche dal fatto che nel 2016 il Comune di Stalettì, nel fornire alla Regione Calabria i dati relativi alla ricognizione della fascia costiera, non avesse inserito l’area oggetto dell’ordinanza di rilascio tra le zone demaniali marittime.

Nonostante ciò, nel 2019 il Comune di Stalettì emanava a carico dell’appellante ordinanza di rilascio del suolo, ex art. 35 d.P.R. 380/2001 (Testo Unico sull’Edilizia) dopo aver ricevuto una nota della Guardia Costiera di Soverato (CZ) che accertava l’abusiva occupazione del suolo demaniale marittimo (essendo stata la predetta area sottoposta a vincolo paesaggistico – in virtù del d.m. 7 marzo 1966 – e idrogeologico) nonché l’abusività dell’opera stessa, costruita in assenza dei titoli autorizzativi prescritti dalla legge.

Il ricorrente, in sede di impugnazione dinanzi al T.A.R., contestava l’appartenenza del suolo in questione al demanio dello Stato e lamentava anche una lesione del suo affidamento circa la legittimità del manufatto – poi ritenuto abusivo – dovuta alla condotta tenuta per molti anni dal Comune stesso. 

2. La decisione del T.A.R. Calabria

Il T.A.R., nel respingere il ricorso contro l’ordinanza di rilascio del suolo, preliminarmente sottolinea la legittimità dell’ordinanza impugnata; difatti, secondo i giudici amministrativi, ai fini dell’applicazione dell’ordine di sgombero previsto dall’art. 35 T.U. Edilizia non è rilevante che l’area oggetto di rilascio sia appartenente al demanio o al patrimonio dello Stato o di altro Ente pubblico, essendo dirimente invece il carattere di pubblicità dei suoli in questione.

Inoltre, sempre secondo il T.A.R., non potrebbe in alcun modo equipararsi un invito ad occupare un suolo (quale quello effettuato dal Comune di Stalettì) al rilascio di un titolo edilizio, neppure illegittimo; con la conseguenza che, in difetto di titolo edilizio, nessun tipo di contegno tenuto dall’Amministrazione comunale avrebbe potuto ingenerare nel privato un ragionevole affidamento circa la regolarità e la legittimità delle costruzioni poste in essere sul suolo in questione.

Da ultimo, il giudice amministrativo sottolinea il carattere vincolato dei provvedimenti di repressione e rimozione degli abusi edilizi – quale appunto l’ordinanza di sgombero – sulla cui legittimità non potrebbe neanche incidere la contestuale pendenza del procedimento di condono ai sensi della l. n. 47/1985; legittimità rafforzata dalla presenza, sull’area oggetto di sgombero, di vincoli paesaggistici e idrogeologici (che non avrebbero comunque consentito la sanatoria delle opere abusive anteriori alla loro apposizione in difetto dell’acquisizione dei pareri delle Autorità preposte alla loro tutela).

3. La pronuncia del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, conferma la decisione del giudice di prime cure e, dichiarandolo infondato nel merito, respinge l’appello.

Innanzitutto, il giudice amministrativo respinge l’istanza proposta dall’appellante di sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in ragione della contestuale pendenza del giudizio sul ricorso avverso il diniego di condono, considerato dall’appellante pregiudiziale rispetto al giudizio oggetto della pronuncia de qua.

Secondo il Consiglio di Stato, in realtà, la pregiudizialità è inversa: infatti, il diniego di condono – emanato dal Comune di Stalettì – ha come presupposto l’appartenenza dell’area al demanio marittimo e la conseguente inevitabile adozione dell’ordinanza di sgombero.  Da ciò deriva che, a ben vedere, è la decisione del riscorso avverso il diniego di condono a dipendere dall’esito del giudizio oggetto della pronuncia in commento, operando la pregiudizialità in senso inverso rispetto a quanto sostenuto dall’appellante.

In via preliminare rispetto all’esame dei motivi di gravame – riproposti in appello – il Consiglio di Stato sottolinea sin da subito l’illegittimità della delibera n. 4/1964 del Comune di Stalettì con la quale lo stesso avrebbe autorizzato i privati cittadini (rectius: «i naturali del posto», come riportato nella predetta delibera) ad occupare il suolo oggetto dell’ordinanza di sgombero impugnata.

Secondo il giudice di ultima istanza, infatti, non possono ritenersi ancora sussistenti incertezze di sorta circa il carattere demaniale dell’area in questione: il terreno, infatti, appartiene al demanio marittimo e quindi allo Stato – non al Comune che, quindi, non avrebbe la possibilità giuridica di disporne – così come è stato accertato dalla sentenza della Sez. II Civile della Corte di Cassazione all’esito del giudizio civile di opposizione alle ingiunzioni emanate dall’Ufficio Registro di Catanzaro per il pagamento dell’indennità di occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo.

Il Consiglio di Stato si definisce conscio del fatto che la sentenza della Corte di Cassazione che accerta in via definitiva la demanialità dell’area non è opponibile all’appellante né è in grado esprimere alcun effetto di giudicato nei suoi confronti ex art. 2909 c.c. (poiché non è stata resa nei suoi confronti né di un suo avente causa); tuttavia, secondo i giudici di ultima istanza, già la lettura della citata delibera n. 4 del 1964 del Comune di Stalettì confermerebbe l’appartenenza dell’area al demanio marittimo statale e non al Comune stesso, con la conseguente impossibilità per il Comune di autorizzare l’occupazione di detto terreno, del quale non aveva la disponibilità.

Sottolineando le particolari e folkloristiche espressioni utilizzate nella delibera de qua – la cui «evanescenza» è stata efficacemente rimarcata in entrambi i gradi di giudizio – i giudici amministrativi fanno presente come, in realtà, la stessa delibera si sia riferita ad una porzione di terreno diversa da quella oggetto della ordinanza di sgombero impugnata; tale conclusione è «coerente con il dato giuridico dell’appartenenza di tale area al demanio dello Stato e, quindi, con l’impossibilità giuridica per il Comune di autorizzare i privati ad occupare il demanio statale» (v. par. 5.4.2. della sentenza in commento).

Evidenziando l’infondatezza dei motivi di appello[1], il Consiglio di Stato nuovamente ribadisce come l’invito ad occupare i terreni da lottizzare (contenuto nella citata delibera 4/1964) non possa in ogni caso equipararsi ad un titolo edilizio: la mancanza di detto titolo fa venir meno la nascita e il mantenimento di un qualsivoglia ragionevole affidamento del privato in ordine alla regolarità delle edificazioni di cui trattasi.

A far maturare tale affidamento non possono neanche contribuire le altre circostanze dedotte dall’appellante, come l’aver l’Amministrazione comunale obbligato i privati ad allacciarsi alla rete fognaria o aver percepito gli oneri e i tributi legati agli immobili (così come le altre circostanze richiamate al par. 6.4. della decisione in commento).

Difatti, dette richiamate circostanze non consentono, in nessun caso, di supplire al difetto di titolo edilizio: la mancanza del titolo abilitativo de qua – congiuntamente al mancato completamento del procedimento di lottizzazione dell’area – conferma la natura di abuso edilizio del manufatto. Detta natura illegittima è ulteriormente confermata dalla presentazione, da parte dello stesso appellante, di una istanza di condono ai sensi della l. n. 47/1985, la quale costituisce ex se confessione irretrattabile dell’abuso denunciato, come pacificamente riconosciuto dalla stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato[2].

Dirimente è comunque, nel caso di specie, la circostanza che la delibera comunale impugnata avesse autorizzato l’occupazione di terreni diversi da quelli effettivamente occupati dal manufatto dell’appellante: di talché, essendo venuto meno il presupposto fondante le pretese dell’appellante, la sua occupazione dell’area in questione risulta definitivamente sine titulo e senza alcuna giustificazione. Secondo il Consiglio di Stato, quindi, l’ordinanza di sgombero «si presenta come atto dovuto e vincolato […] proprio perché trattasi di occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo» (v. par. 6.5.)

Come riconosciuto dalla giurisprudenza, infatti, «il solo fatto della realizzazione dell’abuso sul suolo di proprietà comunale (o comunque pubblica) giustifica l’irrogazione della misura vincolata ex art. 35 d.P.R. n. 380/2001, volta a tutelare le aree demaniali o di Enti pubblici dalla costruzione di manufatti da parte dei privati, senza che si debba accertare l’epoca di tale realizzazione e senza la possibilità di configurare affidamenti tutelabili alla conservazione di una siffatta situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto»[3].

4. Cenni sul regime giuridico del demanio marittimo

Nel procedere alla disamina della pronuncia del Consiglio di Stato pare opportuno soffermarsi brevemente sulla disciplina relativa all’individuazione ed utilizzazione del demanio marittimo[4].

I beni demaniali rientrano nell’ambito della macro-categoria dei beni pubblici (così definiti poiché di proprietà dello Stato o di altri Enti pubblici, dei quali si serve la Pubblica amministrazione per perseguire i propri fini); in particolare, l’ordinamento giuridico non definisce i beni pubblici, ma individua categorie di beni sulla base di caratteristiche comuni, quali la finalità pubblica e le limitazioni alla disponibilità, all’uso e alla tutela.

L’art. 822 del Codice civile – congiuntamente ad altre leggi speciali di settore – distingue i beni pubblici secondo un criterio formale che si fonda sul regime giuridico a questi applicabile (in relazione alla alienabilità, prescrittibilità dei diritti e pretese che i terzi possono avanzare su di essi, individuando due principali categorie: beni demaniali e beni patrimoniali.

I beni demaniali sono beni che, per qualità intrinseche del bene stesso, possono appartenere solo allo Stato o ad altro Ente territoriale; sono beni inalienabili, non suscettibili di usucapione né di espropriazione forzata e non possono essere oggetto di diritti a favore di terzi, se non con le condizioni e le modalità previste dalla legge (attraverso, cioè, le concessioni amministrative).

Si distinguono ulteriormente i beni demaniali c.d. eventuali o accidentali (beni cioè che possono essere di proprietà dei privati ma che, se appartengono ad un Ente territoriale, entrando a far parte del demanio) dai beni demaniali necessari: in quest’ultima categoria rientrano il demanio marittimo (il lido del mare, la spiaggia, i porti e le rade, le lagune, i canali utilizzabili per uso pubblico marittimo e le pertinenze del demanio marittimo), il demanio idrico (i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque sorgenti, gli acquedotti, i canali e i bacini artificiali) ed il demanio militare (cioè le opere permanenti destinate alla difesa nazionale, come le fortezze, le piazzeforti, le linee fortificate e trincerate et cetera).

La categoria dei beni demaniali è dunque individuata tassativamente dalla legge; il compito della pubblica Amministrazione si limita all’accertamento in concreto dell'appartenenza di un determinato bene o area alle categorie tipizzate dal legislatore, senza alcuna discrezionalità.

Sono le caratteristiche naturali del bene o dell’area che ne determinano l’appartenenza alla categoria legislativamente individuata; l'accertamento compiuto dall'Autorità amministrativa è meramente dichiarativo e mai costitutivo, nel senso che «la proprietà pubblica circa le cose stesse si costituisce e si estingue a seconda del venire ad esistenza e dello scomparire e modificarsi delle cose stesse nella loro natura e struttura»[5].

Il demanio marittimo è, pertanto, necessario e naturale e, come tale, costituito da beni elencati con atti semplicemente dichiarativi, in quanto non creano la demanialità, ma la accertano soltanto, determinando una semplice presunzione e non provocando alcun effetto costitutivo o modificativo del regime giuridico dei beni inclusi[6].

5. Gli abusi edilizi e le conseguenze sanzionatorie

La pronuncia della VII Sezione del Consiglio di Stato sottolinea in più punti la natura vincolata dell’ordinanza di sgombero dell’area appartenente al suolo del demanio marittimo, fornendo per tale via l’occasione di fare il punto sul regime di repressione degli abusi edilizi, nonché sul relativo impianto sanzionatorio. Il tema è di non poco momento, considerata la discussione sorta intorno alla questione circa la natura stessa di tale tipologia di sanzioni e del loro rapporto con la repressione degli illeciti penali in materia edilizia.

Vero è, infatti, che ampio è tuttora il dibattito circa la natura afflittiva o ripristinatoria del c.d. ordine di demolizione previsto dal T.U. Edilizia (il già citato d.P.R. 380/2001) e sulla possibilità, più in generale, di individuare sanzioni amministrative a carattere punitivo diverse da quelle previste dalla l. 689/81[7].

Preliminarmente, appare opportuno sottolineare come il già citato T.U. Edilizia non dia una definizione esatta di attività edilizia; esso si limita a definire gli interventi edilizi, distinguendo tra interventi considerati espressione di attività edilizia libera ed interventi subordinati al permesso di costruire. La definizione non può che essere ricavata, quindi, attraverso l’analisi ermeneutica.

Secondo la ricostruzione di autorevole dottrina, per attività edilizia si intende quell’attività materiale che «consiste sempre in una modifica del suolo (un muro, uno scavo, una piattaforma di cemento, un movimento di terra, ecc.), non in un qualsiasi uso del suolo, ancorché possibile oggetto di altra disciplina»[8].

Di talché, qualsiasi attività materiale che rientri in predetta definizione, qualora posta in essere in difetto delle prescrizioni imposte dalla legge – nello specifico, in mancanza dei titoli abilitativi – potrà configurare un abuso edilizio.

5.1. La competenza ad esercitare la funzione di controllo.

L’intervento edilizio è sottoposto ad un’attività di controllo da parte della pubblica Amministrazione, volta a verificare la legittimità delle iniziative edilizie secondo la disciplina generale e di zona.

Tale attività di controllo è affidata in prima battuta ai Comuni, chiamati esercitare un potere preventivo di controllo sulla legittimità delle iniziative di trasformazione immobiliare ed un successivo potere di vigilanza sull’attività materiale del costruire.

Il primo comma dell’art. 27 t.u.ed. conferisce espressamente al responsabile o al dirigente del competente ufficio comunale il compito di realizzare un’attività di «vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi».

La competenza dell’Ente comunale circa l’esercizio del potere di vigilanza e sanzionatorio sull’attività urbanistico-edilizia è stata ribadita anche dalla pronuncia del Consiglio di Stato in commento (n. 9960 del 14 novembre 2022).

I giudici amministrativi, infatti, dichiarano infondate le censure riproposte dall’appellante con il secondo motivo di ricorso, riguardanti la presunta incompetenza del Comune di Stalettì ad adottare l’ordinanza di sgombero, sul presupposto che la legge regionale n. 17/2005 (recante “Norme per l’esercizio della delega di funzioni amministrative selle aree del demanio marittimo”) avrebbe posto un limite alle competenze dei Comuni sulle aree del demanio marittimo, relegandole alle sole ipotesi di occupazione del demanio marittimo per finalità turistico-ricreative.

Sottolinea però il Consiglio di Stato che, se da una parte l’art. 4 co. 1 lett. b) della già menzionata legge regionale ha conferito alle Regioni e ai Comuni funzioni di vigilanza sull’uso delle aree concesse rispetto alle finalità turistico-ricreative, dall’altra parte la normativa regionale non ha tuttavia introdotto una disciplina derogatoria del potere di vigilanza e sanzionatorio sull’attività urbanistico-edilizia.

Tale competenza rimane attribuita in via generale ai Comuni, sulla base del combinato disposto degli artt. 27, 31 e 35 del d.P.R. 380/2001; competenza che non potrebbe, in ogni caso, essere derogata dalla normativa regionale.

Richiamando l’orientamento elaborato in seno allo stesso Consiglio di Stato, viene evidenziato che «l’esistenza del demanio marittimo non esclude affatto la titolarità dei poteri urbanistici comunali: infatti ai sensi del combinato disposto degli art. 30 e 55 c. nav. e 10 2° e 3° comma l. 6 agosto 1967, n. 765 (nonché art. 4 della legge n. 10/1977 ed art. 31 legge n. 1150 del 1942), da un lato si deve escludere l’incondizionata possibilità che gli strumenti urbanistici regolino i beni del demanio marittimo e dall’altro non è possibile sottrare completamente alla disciplina urbanistica i terreni in esso rientranti; pertanto, in tema di costruzioni edilizie nell’ambito del demanio marittimo, l’ordinamento giuridico non prevede alcuna deroga alla distribuzione delle attribuzioni e delle competenze, in quanto non sottrae l’esercizio del potere urbanistico-edilizio alla competenza comunale sui terreni demaniali marittimi […]»[9].

5.2. Le tipologie di sanzioni amministrative edilizie

Ribadita la competenza generale del Comune in materia, è a tal punto opportuno soffermarsi sulle tipologie di sanzioni degli abusi previste dal T.U. Edilizia.

Il d.P.R. 380/2001 identifica un sistema di gradazione delle misure repressive degli abusi edilizi – sulla falsariga delle disposizioni contenute nella precedente l. n. 10/1977 e riprese dalla l. n. 47/1985 – disciplinandone le conseguenze civili, amministrative e penali e prevedendo ipotesi tassative di sanatoria degli abusi[10].

Differentemente dalla citata legge del 1985, tuttavia, il testo unico amplia la tipologia degli abusi e delle relative sanzioni, prevedendo anche un significativo inasprimento delle stesse[11]. Inoltre, la modifica introdotta dal d. lgs. 301/2002 – che ha introdotto il comma 9-bis nell’art. 22 t.u.ed. – ha assoggetto all’impianto repressivo del testo unico anche gli interventi suscettibili di realizzazione mediante s.c.i.a. ma eseguiti in totale o parziale difformità rispetto ad essa.

In primis vi è da rilevare che l’art. 27 del testo unico detta una regola di carattere generale, conferendo all’Amministrazione comunale competente la funzione di vigilanza sugli abusi, nonché il dovere di provvedere “alla demolizione e ripristino dello stato dei luoghi” qualora venga accertata l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate a vincolo di inedificabilità e “in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

In disparte l’esegesi delle altre sanzioni[12] previste dal Testo Unico Edilizia, è opportuno raffrontare le due ipotesi considerate dal Consiglio di Stato, segnatamente gli artt. 31 e 35 del citato Testo Unico.

5.2.1. La fattispecie di abuso edilizio ex art. 31 t.u.ed.

L’art. 31 t.u.ed. individua la più grave delle ipotesi di abuso, cioè quella relativa ad interventi edilizi realizzati in assenza di permesso di costruire, oppure in totale difformità o con variazioni essenziali – così come individuate dal successivo art. 32 – rispetto al titolo abilitativo.

In tale ipotesi la disposizione de qua conferisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale il compito di ingiungere al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione dell’opera abusiva che – ai sensi del successivo co. 3 dell’art. 31 – viene acquisita di diritto dalla pubblica Amministrazione se il responsabile dell’abuso non provvede alla rimozione o alla demolizione nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione.

Più nello specifico, viene acquisito di diritto – e gratuitamente – al patrimonio del comune il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive. Detta area non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.

Il successivo comma 4-bis prevede poi che, in caso di inottemperanza all’ordine di rimozione o demolizione, l’autorità competente è tenuta ad irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria[13], salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme di legge.

La norma prevede dunque due fasi nel procedimento di repressione dell’abuso edilizio realizzato in mancanza o in totale difformità del titolo abilitativo: l’ingiunzione di ripristino consegue direttamente all’abuso edilizio in quanto tale, ed è volta alla restaurazione dell’interesse pubblico concretamente leso (sottratta, come tale, ai principi e alle regole delle misure punitive); di contro, solo a seguito dell’inottemperanza all’ordine di ripristino seguono le sanzioni in senso stretto, cioè l’acquisizione gratuita del bene e della relativa area al patrimonio del comune e la correlata sanzione pecuniaria[14]. È solo rispetto a tale seconda fase, quindi, che possono trovare applicazione le regole e i principi per l’applicazione delle pene vere e proprie (quali il principio del favor rei, la presunzione di non colpevolezza, l’irretroattività, l’onere della prova a carico dell’amministrazione, il divieto di bis in idem)[15], come stabilito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo nel noto “caso Engel” in relazioni alle sanzioni formalmente amministrative ma recanti natura punitiva[16].

L’ingiunzione di demolizione è diretta sia al proprietario che al responsabile dell’abuso, naturalmente ove si tratti di soggetti distinti.

Tuttavia, nel caso in cui la demolizione non venga effettuata nel termine stabilito, anche prima dell’introduzione del T.U. Edilizia era invalsa la linea interpretativa – accolta anche dalla Corte costituzionale – secondo la quale «essendo l’acquisizione gratuita una sanzione prevista per il caso dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso, non potendo di certo operare nella sfera di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell’area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirla on gli strumenti offertigli dall’ordinamento»[17].

Tale interpretazione sembra trovare conferma nella lettera dell’art. 31 del t.u.ed., il quale dispone l’acquisizione solo se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Se, dunque, l’inadempienza non dipende dal proprietario, non si fa luogo alla acquisizione gratuita dell’area e del manufatto, in quanto la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato rimane ristretta alla sola possibilità della demolizione, eseguita coattivamente dal Comune. La misura della demolizione dell’immobile non è, infatti, esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell’immobile abusivamente edificato[18].

La giurisprudenza del Consiglio di Stato[19] non ha mancato di sottolineare che l’ingiunzione di ripristino è un provvedimento dovuto e vincolato, conseguente direttamente all’accertamento dell’abuso edilizio, senza necessità di ulteriori motivazioni di interesse pubblico; lo scopo del provvedimento de qua, infatti, non è tanto quello di sanzionare l’abuso e il responsabile dello stesso, quanto quello di ripristinare lo stato dei luoghi precedente all’abuso, nel rispetto e in conformità agli strumenti urbanistici-edilizi secondo la disciplina generale e di zona.

La natura non eminentemente sanzionatoria di tale strumento è indirettamente confermata dalle molteplici prescrizioni contenute nell’art. 31 t.u.ed. volte a garantire l’adozione e l’esecuzione dell’ingiunzione di rilascio, congiuntamente alla previsione di poteri sostitutivi in caso di inerzia dei competenti organi dell’Amministrazione comunale[20].

La sanzione in senso stretto, dunque, si rinviene solo all’esito del secondo momento di tale procedimento bifasico, in conseguenza dell’inottemperanza dell’ordine di ripristino da parte del titolare dell’abuso, alla quale consegue l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 9 del 2017 – occupandosi dei presupposti e degli eventuali limiti del potere di repressione degli abusi edilizi – ha precisato inoltre che l’inerzia delle P.A. nell’esercizio del proprio potere/dovere di contrasto all’abusivismo edilizio non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo, né può radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.

In definitiva, l’ordine di ripristino ex art. 31 t.u.ed. si configura come un provvedimento vincolato al solo accertamento della violazione, senza la necessità di ulteriori oneri motivazionali anche ove il titolare del bene, soggetto alla sanzione in ragione della natura reale pacificamente riconosciutale dalla giurisprudenza[21], sia estraneo all’abuso e non ne fosse consapevole al momento dell’acquisizione[22].

5.2.2. L’art. 35 t.u.ed.: occupazione abusiva di suolo demaniale

Le considerazioni svolte in relazione all’ipotesi di abuso disciplinato dall’art. 31 t.u.ed. possono considerarsi valide anche – e a fortiori – relativamente alla fattispecie di abuso sanzionata dall’art. 35 del predetto testo unico.

La norma afferma infatti che, di fronte alla realizzazione di interventi in assenza o in difformità (totale o parziale) del permesso di costruire, realizzati sul suolo del demanio o del patrimonio dello Stato o di altri enti pubblici, la competente amministrazione comunale è tenuta ad adottare – previa diffida non rinnovabile – un ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi nei confronti del responsabile dell’abuso.

Anche in tal caso l’ordine di demolizione e riduzione in pristino è la conseguenza diretta ed immediata dell’abuso edilizio: l’elemento di specificazione – rispetto alla fattispecie di cui all’art. 31 t.u.ed. – si rinviene nel fatto che il manufatto abusivo è in tal caso costruito sul suolo del demanio o del patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico.

La necessità di assicurare la tutela della demanialità dell’area non consente di prevedere alcun tipo di sanatoria dell’abuso edilizio; e ciò a maggior ragione se si considera che, in tal caso, la disposizione non prevede neanche un’ipotesi – come invece è prevista dall’art. 31 – di acquisizione gratuita dell’immobile abusivo e dell’area ad esso relativa.

L’acquisizione al patrimonio del comune del bene abusivo e del sedime sul quale è costruito non è quindi applicabile quando l’abuso edilizio sia realizzato su beni appartenenti al demanio, proprio in ragione della peculiare gravità della realizzazione di abusi edilizi su suolo pubblico.

Lo stabilisce l’art. 35, il quale prevede che sia il dirigente o il responsabile dell’ufficio a emettere una diffida che ordina al responsabile dell’abuso la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi e di darne comunicazione all’ente proprietario del suolo.

A differenza di quanto previsto per gli abusi edilizi commessi su aree di proprietà privata, la norma dispone l’imputabilità dell’opera abusiva al destinatario della sanzione.

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la sanzione demolitoria possa essere irrogate unicamente nei confronti del responsabile dell’abuso e non del proprietario dei manufatti realizzati abusivamente[23].

Dall’esegesi della disposizione pare dunque potersi dedurre che l’ordine di demolizione ex art. 35 t.u.ed. non solo si inserisce nell’ambito dei «provvedimenti di amministrazione attiva volti a restaurare l’equilibrio urbanistico alterato»[24], ma è anche – e forse prevalentemente – posto a garanzia della tutela delle aree demaniali e del patrimonio dello Stato, nonché degli eventuali vincoli amministrativi (ad esempio, paesaggistici) su di esse insistenti.

Si tratta, dunque, di una misura ripristinatoria e non afflittiva, poiché non mira direttamente alla punizione della condotta illecita del responsabile dell’abuso; non operano dunque – rispetto a tale misura – le garanzie previste per l’applicazione delle sanzioni amministrative punitive.

Come in più occasioni ricordato anche dalla Settima Sezione del Consiglio di Stato nella decisione in commento, l’ingiunzione di ripristino ex art. 35 t.u.ed. si presenta come un provvedimento di natura vincolata: nel caso di «occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo» – del quale, nel caso di specie, non essendo nella sua disponibilità giuridica, il Comune non avrebbe comunque potuto disporre – la conseguente ordinanza di sgombero si identifica come un «atto dovuto e vincolato», rispetto al quale non è necessario un ulteriore onere motivazionale. Il ripristino della legalità violata e la tutela del suolo demaniale giustificano di per sé l’emanazione della misura, la quale mira a «tutelare le aree demaniali o di Enti pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati […] senza la possibilità di configurare affidamenti tutelabili» da parte dei privati[25].

Secondo il supremo Consesso amministrativo, nel caso sottoposto alla sua attenzione si ha dunque a che fare non solo con «una fattispecie di abuso edilizio, bensì anche di occupazione abusiva di suolo demaniale»; su tale compresenza di illeciti si fondano sia l’ordinanza di sgombero che il diniego di condono contestati con la proposizione dell’appello.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, il Consiglio di Stato respinge l’appello, dichiarandolo infondato, e conferma la sentenza impugnata.

6. Conclusioni

La pronuncia del supremo Consesso amministrativo richiama all’attenzione degli interpreti il tema della repressione degli abusi edilizi, specialmente quelli commessi su aree relative al demanio o al patrimonio dello Stato. Si tratta di un tema sicuramente degno di attenta analisi, considerata la diversità di fattispecie predisposte dal legislatore al fine di reprimere il fenomeno degli abusi in materia edilizia che, purtroppo, continua a pervadere l’economia del Paese, della quale l’edilizia è una colonna portante e un volàno fondamentale.

Un dato, però, caratterizza certamente il sistema dei controlli sull’attività edilizia: le numerose fattispecie previste dal Testo Unico, congiuntamente alle oscillanti interpretazioni che di esse ne dà la giurisprudenza – si veda, ad esempio, la questione circa l’individuazione dei presupposti per la risarcibilità di legittimi affidamenti dei privati – non depongono certo in favore della certezza giuridica, non fornendo adeguate garanzie agli operatori e agli investitori circa il legittimo avvio e prosecuzione delle loro attività.

In ogni caso, questi interessi risultano sub-valenti rispetto alla tutela dei beni demaniali o del patrimonio dello Stato e di altri enti pubblici, specie qualora su di essi insistano vincoli paesaggistici, storici, culturali o idrogeologici, a tutela di interessi sensibili della collettività.

Aperto è ancora il dibattito – sotto diversi punti di vista – sul tema della repressione degli abusi edilizi; non si può che rimettere la risoluzione delle diverse questioni all’operato del Legislatore con l’auspicio che, nell’operare una sorta di reductio ad unitatem della materia, sia in grado di fornire una risposta efficiente ed efficace alle necessità di tutela dei contrapposti interessi, concedendo maggiori garanzie agli operatori che decidono di investire le proprie risorse nel settore edilizio, sempre nel rispetto dell’immenso patrimonio demaniale del nostro Paese e delle esigenze urbanistiche individuate dalla disciplina vigente.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Si sottolinea che viene dichiarato infondato anche il primo motivo di ricorso, avente ad oggetto la pretesa omessa pronuncia sull’istanza istruttoria presentata dal ricorrente per ottenere l’ordine al Comune di depositare in giudizio tutti i documenti inerenti ai procedimenti edilizi riguardanti l’immobile: l’art. 64, comma 3, c.p.a. rimette alla valutazione discrezionale del giudice l’acquisizione, anche d’ufficio, di informazioni e documenti utili ai fini della decisione che si trovino nella disponibilità dell’Amministrazione. Legittima è stata dunque la decisone del T.A.R. di non acquisire detti documenti, stante l’assenza di alcun obbligo di procedere in tal senso e considerata la palese inidoneità della delibera comunale a far nascere qualsiasi ragionevole affidamento in capo al privato.

[2] C.d.S., Sez. IV, 3 febbraio 2017, n. 463; id. V Sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5553, richiamate al par. 6.3. della decisione.

[3] queste le parole del Consiglio di Stato, par. 7.1.3., che richiama rilevante giurisprudenza sul punto quale, ex multis, C.d.S., Sez. VI, 3 gennaio 2019, n. 85.

[4] Si veda, funditus, GRANARA D., I beni demaniali marittimi ed il relativo regime giuridico, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, n. 6/2011, p. 277 e ss..

[5] CERULLI IRELLI V., voce Beni pubblici, in Digesto delle Disc. Pubbl., Torino, Utet, 1999, vol. II, p. 280.

[6] Principio già affermato da pronunce risalenti quali, ad esempio, Cons. Stato, 9 novembre 1965 n. 788. Più recentemente, si vedano sul punto le note “sentenze gemelle” Cass. Civ. Sez. Un., 16 febbraio 2011, nn. 3811, 3812, 3813 e 18 febbraio 2011, nn. 3936, 3937, 3938, 3939, che ricostruiscono la disciplina dei beni pubblici, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata.

[7] Così PEPE R., “Riflessioni sul potere sanzionatorio di ripristino del giudice penale”, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, n. 1/2021, p. 35.

[8] STELLA RICHTER P., “Diritto Urbanistico – Manuale breve”, Giuffrè Editore, Milano, 2014, cit. p. 93; l’Autore, più precisamente, ritiene che «occorre quindi, in via interpretativa, muovere dal significato di edilizia (dall’etimo aedes, cioè casa), che indica l’attività del costruire e conservare gli edifici. Facendo riferimento alle norme che equiparano alla realizzazione di costruzioni una attività che tale a rigore non è (quale l’installazione non temporanea di manufatti mobili “utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili”: art. 3, lett. e.5 del t.u.), si deduce a contrario che, quando non ricorrano i presupposti della fattispecie equiparativa, non si è in presenza di un’attività edilizia. Ancor più interessante è l’art. 10, comma 2, il quale dispone che “le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio di attività”. Qui è invero evidente che, se si è ritenuto necessario precisare che il mutamento può avvenire anche senza opere, vuol dire che l’attività edilizia è di regola necessariamente legata a “trasformazioni fisiche”», cit. pp. 92-93.

[9] C.d.S., Sez. VI, 21 settembre 2006, n. 5547, richiamata al par. 7.1.2. della decisione in commento.

[10] SANDULLI M.A., “Edilizia”, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, n. 3/2022, p. 171 e ss..

[11] MENGOLI G.C., Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2010, p. 1002;

[12] Il testo unico in materia edilizia (d.P.R. 380/2001) dedica l’intero Capo II al tema delle sanzioni. Vagliando sinteticamente le altre ipotesi di sanzioni previste, si rileva che, in apertura, l’art. 30 sanziona la lottizzazione abusiva, per tale intendendosi l’attività di costruzione di opere che comportino una trasformazione urbanistica dei terreni in violazione delle prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici vigenti al momento della realizzazione dell’opera; gli artt. 33 e 34 sanziona invece gli interventi di ristrutturazione edilizia avvenuti in assenza o in difformità (totale o parziale) dal permesso di costruire; l’art. 37 si occupa invece di sanzionare gli interventi eseguiti in assenza p in difformità della s.c.i.a.; gli artt. 38-39 regolano infine le ipotesi di interventi realizzati in seguito ad un permesso di costruire poi successivamente annullato, mentre l’art. 44 individua le sanzioni penali correlate alla violazione delle prescrizioni prima descritte.

[13] Di importo compreso tra 2.000 e 20.000 euro, irrogata nella misura massima se riguarda abusi realizzati su aree a rischio idrogeologico elevato o molto elevato oppure su aree ed edifici individuati dal co. 2 dell’art. 27, cioè aree sottoposte a tutela secondo il d. lgs. 42/2004, c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio.

[14] Cfr., inter alia, Cons. Stato, Sez. VI, 1 settembre 2021 n. 6190; Id., 10 dicembre 2021 n. 8240.

[15] Così SANDULLI M.A., op. cit., p. 215.

[16] «Il percorso seguito al riguardo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo si fa tradizionalmente risalire alla decisione del caso Engel in tema di sanzioni detentive derivanti da illeciti disciplinari in ambito militare, decisione con la quale sono stati fissati i c.d. “Engel Criteria” attraverso i quali riconoscere se ad una accusa sia attribuibile o meno il carattere “penale”, con conseguente applicabilità dell’art. 6 della convenzione stessa. La Corte ha definito i seguenti parametri sulla scorta dei quali sottoporre a verifica la singola fattispecie illecita per stabilirne la natura di accusa penale ai fini CEDU consistenti: 1) nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale; 2) nella natura dell’illecito; 3) nella natura nonché nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere. Si tratta di criteri tra loro alternativi e non cumulativi essendo sufficiente affinché venga riconosciuta la natura penale dell’illecito che esso abbia esposto l’interessato ad una sanzione che, per natura o livello di gravità, rientri in linea generale nella materia penale» in questi termini PEPE R., “Riflessioni sul potere sanzionatorio di ripristino del giudice penale”, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, n. 1/2021, cit. p. 42.

[17] Corte cost. 15 luglio 1991, n. 345.

[18] La Corte costituzionale, nella sentenza da ultimo citata (345/1991) ha inoltre precisato che nel caso in cui si possa far luogo all’acquisizione gratuita da parte del Comune, tale acquisizione non è da considerarsi «una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all’inottemperanza dell’ingiunzione, abilitando poi il Sindaco ad una scelta fra la demolizione di ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici, il che significa per la destinazione a fini pubblici».

[19] Cons. Stato, Sez. V, 4 ottobre 2021 n. 6613.

[20] In questi termini SANDULLI M.A., op.cit., p.215; l’A. precisa che, in relazione a tali poteri sostitutivi «è recentemente intervenuto anche il già richiamato d.l. n. 76 del 2020 (c.d. decreto semplificazioni), che, in virtù di quanto previsto dall’art. 10-bis, “trasferisce” la competenza in materia di procedure di demolizione di manufatti abusivi in capo al Prefetto in caso di mancato adempimento da parte dei Comuni entro 180 giorni dall’accertamento dell’abuso.» cit. p. 215.

[21] Cfr., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 22 dicembre 2020 n. 8171, Id., 10 maggio 2021, n. 3657; Cons. Giust. Amm. Regione Sicilia, 14 giugno 2021 n. 532.

[22] Sul punto non sono mancate le critiche della dottrina; ad esempio, SANDULLI M.A., op.cit., afferma che «Il punto merita invero qualche ulteriore riflessione, con specifico riferimento ai presupposti in presenza dei quali il t.u.ed. ammette “a regime” la sanatoria (onerosa) del permesso all’esito di apposito accertamento di (doppia) conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, che a quello della presentazione della domanda. Se la mera conformità “acquisita” non è invero condizione sufficiente a evitare il ripristino, ciò significa che, almeno in tali ipotesi, quest’ultimo non può propriamente dirsi finalizzato alla reintegrazione dell’interesse al corretto assetto urbanistico-edilizio (con il quale l’opera abusiva non è più in contrasto), ma reagisce esclusivamente al difetto originario del titolo. Il profilo non è evidentemente privo di rilevanza per la valutazione della ragionevolezza della misura demolitoria disposta, dopo un notevole lasso di tempo, soprattutto nei confronti di un soggetto totalmente estraneo all’illecito, che abbia acquisito il bene in perfetta buona fede. In altri termini, se l’esigenza di ristabilire un assetto territoriale secundum legem giustifica, e anzi impone, l’ordine immediato di reintegro dello stato dei luoghi abusivamente alterato, indipendentemente da qualsiasi valutazione dell’elemento soggettivo del titolare attuale del bene (relativo destinatario), quando invece tale esigenza non sussiste, non sembra ragionevole né proporzionato prescindere totalmente da qualsiasi valutazione dell’elemento soggettivo e, più in particolare, dell’affidamento creato nel proprietario incolpevole da una protratta inerzia delle amministrazioni competenti a vigilare sull’attività edilizia (nella specie, illegittima, dei suoi danti causa). E, soprattutto, non appare ragionevole né proporzionato imporre senza deroghe la distruzione di opere ormai solo formalmente abusive e sostanzialmente compatibili con gli interessi pubblici diversi da quello al ripristino della legalità violata, trattando allo stesso modo situazioni oggettivamente dissimili.» cit. p. 216-217.

[23] Così si è espresso il Consiglio di Stato Sez. VI, 4 maggio 2015, n. 2211.

[24] Così definiti in dottrina da STELLA RICHTER P., op. cit., cit. p. 103.

[25] Precisa il Consiglio di Stato che «non resta che ribadire l’inidoneità della delibera consiliare n.4/1964 e degli atti successivi del Comune (…) a fondare un affidamento del privato, stante la carenza in capo a costui di un titolo idoneo all’occupazione del suolo demaniale e di un titolo idoneo aa realizzare (nonché a mantenere) la costruzione di cui assume essere titolare.»; cfr. par. 7.4.1. della decisione.