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Pubbl. Mer, 19 Ott 2022

L´Adunanza plenaria sulle azioni esperibili per il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno del bene illegittimamente occupato

Ilaria Travaglione
AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



Il presente contributo ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale e normativa che ha interessato la tematica delle espropriazioni indirette, alla luce della ricostruzione operata dalle recenti Adunanze Plenarie 2, 4 e 5 del 2020. Si propone, infine, di analizzare l’iter argomentativo seguito dall’Adunanza Plenaria 6/2021, in ordine ai limiti del giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente del bene illegittimamente occupato.


Sommario: 1. L’occupazione acquisitiva o appropriativa; 2. L’occupazione usurpativa; 3. L’incompatibilità delle “espropriazioni indirette” con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo; 4. L’istituto della c.d. “occupazione sanante” di cui all’art. 43 d.P.R. 327/2001; 5. Il procedimento acquisitivo previsto dall’art. 42 bis d.P.R. 327/2001; 6. La rinuncia abdicativa come possibile modo di acquisito della proprietà pubblica; 7. La tutela del privato illegittimamente espropriato; 8. L’Adunanza Plenaria 6/2021 e gli effetti preclusivi del giudicato civile contenente l’accertamento di una fattispecie di occupazione acquisitiva; 8.1. I fatti di causa; 8.2. Le questioni di diritto; 8.3. Il contrasto interpretativo; 8.4. La soluzione fornita dall’Adunanza Plenaria 6/2021.

Sommario: 1. L’occupazione acquisitiva o appropriativa; 2. L’occupazione usurpativa; 3. L’incompatibilità delle “espropriazioni indirette” con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo; 4. L’istituto della c.d. “occupazione sanante” di cui all’art. 43 d.P.R. 327/2001; 5. Il procedimento acquisitivo previsto dall’art. 42 bis d.P.R. 327/2001; 6. La rinuncia abdicativa come possibile modo di acquisito della proprietà pubblica; 7. La tutela del privato illegittimamente espropriato; 8. L’Adunanza Plenaria 6/2021 e gli effetti preclusivi del giudicato civile contenente l’accertamento di una fattispecie di occupazione acquisitiva; 8.1. I fatti di causa; 8.2. Le questioni di diritto; 8.3. Il contrasto interpretativo; 8.4. La soluzione fornita dall’Adunanza Plenaria 6/2021.

La questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria del 9 aprile 2021 n. 6 attiene alla rilevanza e ai limiti del giudicato civile di rigetto (per intervenuta prescrizione) della domanda di risarcimento danni per equivalente da perdita della proprietà del bene illegittimamente occupato dalla Pubblica amministrazione, rispetto alla successiva domanda (promossa innanzi al giudice amministrativo) di risarcimento del danno in forma specifica con restituzione del bene, previa rimessione in pristino.

L’Adunanza Plenaria, mediante un’interpretazione logico-sistematica della sentenza del giudice di prime cure, analizza la portata del giudicato civile, evidenziando come il perfezionarsi della fattispecie di occupazione appropriativa abbia costituito nella prospettazione del Tribunale antecedente logico necessario e implicito della statuizione finale di rigetto.

Pertanto, prima di passare in rassegna l’iter argomentativo seguito dal Supremo Consesso nella soluzione dei quesiti sottoposti alla sua attenzione dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, occorre preliminarmente soffermarsi su origini, evoluzione e criticità del fenomeno delle c.d. espropriazioni indirette, e sul regime proprietario dei beni occupati sine titulo, alla luce della ricostruzione operata dalle recenti Adunanze Plenarie 2, 4 e 5 del 2020[1].

1. L’occupazione acquisitiva o appropriativa

L’occupazione acquisitiva o appropriativa è istituto di origine pretoria che – a partire dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite del 1983[2] – consentiva alla Pubblica Amministrazione, previa dichiarazione di pubblica utilità, l’acquisto a titolo originario della proprietà del bene del privato, nonostante l’assenza o illegittimità di un titolo idoneo a determinarne il trasferimento.

L’elaborazione dell’istituto risponde all’esigenza di regolamentare le conseguenze derivanti dalla prassi amministrativa di occupare, “per le vie di fatto”, aree private per la realizzazione di opere pubbliche.

In epoca antecedente, secondo la tradizionale ricostruzione giurisprudenziale, la realizzazione di opera pubblica su area occupata non iure era qualificata come illecito permanente, con la conseguente immanenza della pretesa risarcitoria per mancato godimento del bene, in capo al privato/proprietario, che tale rimaneva.

A partire dal 1983, invece, tale comportamento fattuale viene ricostruito come «fenomeno costituente, per un verso, il fatto genetico della proprietà pubblica e, per l’altro, un illecito istantaneo, con conseguente prescrittibilità quinquennale della pretesa risarcitoria del privato ablato»[3].

Pertanto, l’occupazione si traduce in un illecito istantaneo ad effetti permanenti, che priva il proprietario del proprio diritto dominicale e, al tempo stesso, lo abilita a chiedere il risarcimento del danno per equivalente del valore che il fondo aveva al momento dell’irreversibile trasformazione, nel termine prescrizionale di cinque anni.

La citata pronuncia delle Sezioni Unite del 1983 riconduceva l’acquisto del bene illecitamente occupato alla radicale trasformazione del fondo, destinato irreversibilmente all’opera pubblica.

L’effetto acquisitivo derivava, dunque, dalla “irreversibile trasformazione” del bene del privato, intesa non come mera manipolazione o impiego per il soddisfacimento di interessi generali, bensì come attività volta a modificarne completamente e irreparabilmente la natura e consistenza originaria, di modo che l’opera «anche se non ultimata, fosse emersa come strutturalmente e fisicamente nuova»[4].

Secondo questa ricostruzione, il fondo viene acquisito a titolo originario e ipso iure al patrimonio indisponibile della Pubblica Amministrazione, in forza della vis abtractiva esercitata dall’opera pubblica ivi realizzata.

Per il principio dell’accessione invertita (art. 938 c.c.), non è, dunque, il proprietario del suolo ad acquisire la proprietà della costruzione (“quod aedificatur solo cedit”), ma, al contrario, è la proprietà del suolo ad accedere alla proprietà della costruzione[5].

Alla luce del descritto orientamento giurisprudenziale, nel caso di illegittima occupazione del suolo privato da parte della Pubblica Amministrazione, l’effetto acquisitivo si realizzerebbe, però, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 938 c.c., così determinandosi un ampliamento dello spazio applicativo dell’istituto dell’accessione invertita, in ragione della particolare rilevanza degli interessi pubblici coinvolti.

Invero, perplessità sono sorte in ordine all’operatività del principio per giustificare l’occupazione acquisitiva della Pubblica Amministrazione, trovando la regola applicazione anche a prescindere dalla sussistenza di uno sconfinamento limitato e dalla buona fede dell’attività edificatoria.

La giurisprudenza successiva, discostandosi dall’arresto del 1983, aveva «posto in rilievo l'esigenza di collegare il fatto acquisitivo-ablativo ad un evento diverso dall'illecito inteso soltanto come mera origine storica dell’evento». La giurisprudenza configurò, pertanto, l’istituto non più come accessione invertita, ma piuttosto come «occupazione appropriativa».

Trattasi, invero, di fattispecie complessa, in cui l’effetto di estinzione della proprietà in capo al privato costituisce l’evento lesivo, eziologicamente riconducibile in via immediata e diretta all’illecita occupazione del fondo, mentre l’effetto di acquisizione della proprietà in capo all’amministrazione costruttrice rappresenta «una conseguenza ulteriore, eziologicamente dipendente non dall’illecito, ma dalla situazione di fatto», ossia dalla «realizzazione dell’opera pubblica con conseguente non restituibilità del suolo in essa incorporato»[6].

Pertanto, il diritto di proprietà del privato non è attratto dall’opera pubblica realizzata per il principio di accessione invertita, ma si estingue, viene «nullificato», e ciò che passa nella sfera proprietaria della Pubblica Amministrazione è un diritto nuovo e diverso rispetto al precedente diritto del privato.

2. L’occupazione usurpativa

Dall’occupazione acquisitiva, si differenzia l’occupazione usurpativa, anch’esso istituto di origine pretoria, elaborato dalla giurisprudenza a partire dal 1997[7].

L’occupazione è usurpativa quando la trasformazione del fondo del privato avviene in assenza di una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità, che abbia accertato la prevalenza funzionale dell’interesse pubblico[8].

Pertanto, la condotta della Pubblica Amministrazione si traduce in un’attività meramente materiale, non espressione dell’esercizio di una potestà pubblica, lesiva del diritto dominicale del privato e della correlativa situazione possessoria, costituente un illecito extracontrattuale permanente, non sanabile.

Ne discende che l’effetto della perdita della proprietà non consegue (e non può conseguire) all’attività usurpativa.

Tradizionalmente, in passato, la perdita del diritto dominicale veniva ancorata a un momento successivo, ossia a una scelta del proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto di proprietà, optasse per una tutela integralmente risarcitoria in luogo di quella restitutoria[9].

La giurisprudenza non è mai stata univoca, invece, in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo alla Pubblica Amministrazione, quale momento eventualmente successivo alla scelta abdicativa del privato: normalmente, ipotizzava un modo di acquisto a titolo originario, semmai occupatorio (in analogia all’art. 942 c.c.) e non accessivo (art. 934 c.c.).

L’effetto di acquisizione del bene alla mano pubblica resterebbe, comunque – si ribadisce – estraneo a questa fattispecie, in quanto “vicenda logicamente e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione del fondo[10].

3. L’incompatibilità delle “espropriazioni indirette” con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo

Le maggiori perplessità in ordine all’ammissibilità dell’occupazione acquisitiva, come fenomeno costituente il diritto di proprietà in capo alla Pubblica Amministrazione, si sono manifestate a livello sovranazionale.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[11] ha censurato tutte le forme di espropriazione indiretta, elaborate dalla giurisprudenza nazionale, qualificandole come illecito permanente.

Il principio di legalità, inteso in senso sostanziale e non meramente formale, impone un preciso parametro di qualità della legge, che deve assumere i caratteri dell’accessibilità, della precisione e della chiarezza e deve assicurare una tutela giurisdizionale effettiva.

La Corte di Strasburgo[12] ha rilevato che il quadro normativo interno in materia di occupazione acquisitiva, di carattere essenzialmente giurisprudenziale, ha condotto ad applicazione contraddittorie dell’istituto, tali da privare l’interessato di una tutela efficace ed effettiva, in evidente contrasto con il principio di legalità di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 della Convezione Europea dei diritti dell’uomo[13].

Ne deriva un vulnus sistemico dei meccanismi di protezione del proprietario rispetto ad occupazioni che esulano dall’ambito di un regolare procedimento espropriativo. Non è consentito, infatti, ai pubblici poteri «di trarre beneficio da una situazione illegittima, nella quale il proprietario è posto dinanzi al fatto compiuto».

Anche la giurisprudenza nazionale, in linea con altri ordinamenti europei, ha poi confermato l’indirizzo della Corte Europea, sottolineando l’urgenza di espungere dal sistema la possibilità per la Pubblica Amministrazione di acquisire la proprietà di un bene, per effetto di vicende esclusivamente occupatorie[14].

D’altro canto, «non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito»[15].

4. L’istituto della c.d. “occupazione sanante” di cui all’art. 43 d.P.R. 327/2001

Nel tentativo di risolvere le criticità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva evidenziate dalla Corte di Strasburgo, l’art. 43 d.P.R. n. 327/2001, nel disciplinare la «utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico», introduce la c.d. occupazione sanante.

La disposizione ha il fine di consentire alla pubblica amministrazione «di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto», fornendo una idonea base legale alle occupazione sine titulo, e attribuendo all’autorità, «che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità», una potestà valutativa di tipo discrezionale, avente ad oggetto la restituzione dell’area ovvero la sua acquisizione sanante al patrimonio indisponibile.

L’Adunanza Plenaria[16] chiarisce che l’atto di acquisizione – «che assorbe dichiarazione di pubblica utilità e decreto di esproprio» – richiede una verifica rigorosa degli interessi in conflitto, in quanto la Pubblica Amministrazione non solo è tenuta a valutare la pubblica utilità dell’opera, ma deve tener altresì conto che il potere ha valore “sanante” dell’illegittimità della procedura, anche se solo ex nunc. Per tali ragioni, l’istituto ha natura eccezionale e non può essere mera alternativa alla procedura ordinaria.

Dunque, all’occupazione acquisitiva e usurpativa, il legislatore sostituisce l’occupazione provvedimentale, quale unico titolo idoneo a costituire il diritto di proprietà in capo alla Pubblica Amministrazione.

Ne discende che l’effetto traslativo non deriva dalla situazione di fatto costituita dall’irreversibile trasformazione del fondo, ma dall’atto di natura provvedimentale con cui la Pubblica Amministrazione ne dispone l’acquisizione a patrimonio indisponibile, in ragione della particolare rilevanza dell’interesse pubblico.

L’art. 43 d.P.R. n. 327/2001, ai commi 3 e 4, disciplina, altresì, la c.d. acquisizione giudiziaria, che consente alla Pubblica Amministrazione, con eccezione processuale, di neutralizzare la domanda di restituzione del bene illegittimamente occupato, chiedendo al giudice di essere condannata al risarcimento del danno per equivalente[17].

La Corte Costituzionale n. 293/2010 ha, tuttavia, dichiarato l’illegittimità dell’art. 43 cit. per eccesso di delega ex art. 76 Cost., palesando, peraltro, sia pur in un obiter dictum, un «legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta realizzata con la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU (…) in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo “buona e debita forma”, sicché non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità».

5. Il procedimento acquisitivo previsto dall’art. 42 bis d.P.R. 327/2001

All’indomani della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 cit., il legislatore reintroduce un meccanismo di acquisto della proprietà di un bene illegittimamente occupato, all’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001 – inserito dall’art. 34 d.-l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111 – rubricato «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico».

Il nuovo istituto appare conforme alla giurisprudenza prevalente nazionale e sovranazionale ed è immune da vizi di legittimità[18].

L’art. 42 bis cit. segna la fine della prassi delle espropriazioni indirette, censurate dalla Corte EDU, in quanto attribuisce alla Pubblica Amministrazione un potere «doveroso quanto all’avvio del relativo procedimento e discrezionale in ordine alla scelta finale tra acquisizione e restituzione» del bene illegittimamente occupato.

La disciplina dell’istituto, infatti, «regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportante la cessazione dell’illecito permanente»[19].

Trattasi di un procedimento ablatorio sui generis, «semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti»: da un lato, assorbe in sé tanto la dichiarazione di pubblica utilità, tanto il decreto di esproprio, sintetizzando «uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento», dall’altro il nuovo meccanismo acquisitivo impone uno specifico obbligo motivazionale “rafforzato” in capo alla Pubblica Amministrazione procedente, in ordine alle «attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione del bene» al patrimonio indisponibile.

L’istituto – il cui scopo non è di sanatoria – non si muove in una logica meramente rimediale rispetto a un pregresso illecito, ma risponde all’esigenza di consentire alla Pubblica Amministrazione di «riprende[re] a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino»[20].

Attraverso un atto di acquisizione coattiva, dunque, si sostituisce il regolare procedimento ablatorio prefigurato dal T.U. sulle espropriazioni (d.P.R. n. 327/2001).

La qualificazione dell’istituto come rimedio di carattere generale ne impedisce, tuttavia, la limitazione dell’ambito applicativo ai soli casi di esercizio di un potere amministrativo specifico di carattere ablatorio.

Invero, la disposizione – in funzione di chiusura – può trovare applicazione ogni qual volta un bene altrui sia nella disponibilità o sia utilizzato in assenza di un valido titolo, e ciò anche quando l’amministrazione agisca in veste di contraente privato, quale che sia la ragione del difetto del titolo[21].

L’operatività della fattispecie acquisitiva presuppone, sul piano logico-giuridico, che la formale titolarità della proprietà risulti ancora in capo al privato. Infatti, la giurisprudenza afferma che la Pubblica Amministrazione non può adottare l’atto di acquisizione ex art. 42 bis cit. «in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato»[22].

Il Supremo Consesso chiarisce, tuttavia, che l’effetto preclusivo/inibitorio si produce esclusivamente qualora il giudicato (amministrativo o civile) disponga espressamente la restituzione del bene al privato, e non anche, qualora, per effetto dell’assenza di una domanda restitutoria, abbia connotato puramente cassatorio.

Ad ogni modo, non è precluso alla Pubblica Amministrazione –in presenza di un giudicato restitutorio del bene illegittimamente occupato – l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, ex art. 42 bis, comma 6, d.P.R. 327/2001. Invero, l’imposizione di una servitù presuppone proprio, per definizione, il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.

6. La rinuncia abdicativa come possibile modo di acquisito della proprietà pubblica

La giurisprudenza si è, inoltre, recentemente, interrogata in ordine alla possibilità per la Pubblica Amministrazione di acquisire il bene occupato sine titulo anche al di fuori delle modalità previste dall’art. 42 bis d.P.R. 327/2001 e, specificamente, sull’ammissibilità della rinuncia abdicativa come mezzo per la cessazione delle occupazioni illegittime.

Sul punto si è pronunciata l’Adunanza Plenaria[23], escludendo la possibilità che una rinuncia abdicativa possa implicitamente desumersi dalla proposizione della domanda risarcitoria per equivalente del bene occupato sine titulo.

In passato, invece, si riteneva che il privato, attraverso il proprio contegno processuale, potesse abdicare al proprio diritto di proprietà.

La tesi per cui il privato, previa rinuncia abdicativa alla proprietà del bene, potesse optare per il risarcimento del danno per equivalente è stata elaborata proprio con specifico riferimento all’istituto dell’occupazione usurpativa, nella quale è assente qualsivoglia collegamento tra occupazione del bene e interesse pubblico.

Secondo la tradizionale ricostruzione, l’atto abdicativo del privato segnerebbe, dunque «la cessazione della permanenza dell’illecito in seguito al venir meno del dovere di far cessare l’antigiuridicità mediante la restituzione del bene in conseguenza dell’opzione esercitata dal proprietario»[24].

Per la tesi contraria all’ammissibilità della rinuncia abdicativa nel settore dell’espropriazione per pubblica utilità, l’illecito permanente verrebbe meno esclusivamente nei casi previsti dall’art. 42 bis d.P.R. 327/2001, di acquisizione o restituzione del bene, salva la stipula di un contratto traslativo tra le parti di natura transattiva[25].

In linea generale, la rinuncia abdicativa è istituto ammissibile nel nostro ordinamento: è un negozio giuridico unilaterale, a carattere non recettizio, con il quale un soggetto dismette una situazione giuridica di cui è titolare.

Il trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto non è, però, effetto automatico dell’estinzione dello stesso: è conseguenza eventualmente riflessa, non correlata al contenuto causale dell’atto dismissivo, per l’assenza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto, che invece caratterizza la rinuncia cd. traslativa, avente natura contrattuale.

Viceversa, «la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico al settore dell’espropriazione per pubblica utilità, al dichiarato fine di apprestare un ulteriore strumento di tutela del proprietario leso dall’occupazione illegittima e dalla trasformazione del fondo da parte della pubblica amministrazione, genera un’irrazionalità amministrativa di tipo funzionale, in quanto lascia ‘aperta’ e irrisolta la questione dell’effetto acquisitivo in favore della pubblica amministrazione»[26].

La rinuncia abdicativa nel contesto espropriativo si espone, infatti, a un triplice ordine di obiezioni[27]:

Innanzitutto, «non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante», in quanto l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita del diritto di proprietà, non già l’acquisizione del bene alla mano pubblico. Del resto, la spiegazione dell’effetto traslativo non è riconducibile neppure alla disciplina dell’art. 827 c.c., poiché essa consente al più l’acquisto del bene a titolo originario in capo allo Stato e non all’autorità espropriante.

In secondo luogo, «la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito, secondo la nota dogmatica degli atti impliciti, senza averne le caratteristiche essenziali». La teoria dell’atto implicito riguarda esclusivamente gli atti amministrativi e non gli atti privatistici; dalla domanda risarcitoria – neppure personalmente sottoscritta dalla parte – non è possibile desumere in modo inequivoco la specifica volontà di abdicare al bene.

In terzo luogo, ma con funzione assorbente, la rinuncia abdicativa «non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo».

L’istituto, privo di idonea e sufficiente base legale, si colloca, invero, sulla falsariga dell’«ormai tramontato istituto dell’occupazione acquisitiva», esponendosi ai medesimi dubbi di legittimità, evidenziati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Come precisato, infatti, il legislatore ha disciplinato la fattispecie acquistiva, dapprima mediante l’art. 43 d.P.R. 327/2001 e poi con l’art. 42 bis d.P.R. 327/2001, che consente alla Pubblica Amministrazione, con una normativa autosufficiente, coerente e sistematica, di valutare se apprendere il bene definitamente o restituirlo al privato.

Nessuna norma attribuisce, viceversa, al privato un diritto potestativo di determinare l’effetto acquisitivo/traslativo in favore dell’autorità espropriante, previo risarcimento del danno.

La scelta (discrezionale) spetta esclusivamente alla Pubblica Amministrazione.

Ne consegue che l’illegittima e irreversibile trasformazione del fondo non esclude l’obbligo della Pubblica Amministrazione di restituire il bene al privato. Anzi, in tal caso, la tutela risarcitoria in forma specifica prevale su quella per equivalente[28].

7. La tutela del privato illegittimamente espropriato

Del resto, uno dei profili più problematici dell’occupazione sine titulo concerne proprio la tutela del proprietario illegittimamente espropriato.

La giurisprudenza anteriore al 1983 riteneva che il bene occupato illegittimamente rimanesse nella sfera di proprietà del privato, al quale sarebbe spettata, al più, una tutela risarcitoria per il mero mancato godimento del bene. La natura di illecito permanente dell’occupazione sine titulo, peraltro, impediva la decorrenza del termine prescrizionale quinquennale.

La successiva qualificazione del fenomeno come occupazione acquisitiva e illecito istantaneo ha consentito l’attribuzione al privato del diritto a pretendere il risarcimento del danno per perdita del diritto dominicale nel termine prescrizionale quinquennale, decorrente dall’avvenuta irreversibile trasformazione del fondo. Restava, ad ogni modo, esclusa la possibilità di domandare la restituzione del bene.

A fronte del mutato quadro normativo e giurisprudenziale e alla luce dei principi elaborati dalla Corte Europea, l’occupazione sine titulo è ormai una condotta antigiuridica che non determina giammai la perdita del diritto di proprietà in capo al privato.

È «configurabile come illecito a carattere permanente, che si protrae nel tempo, a partire dall’iniziale apprensione del bene, e determina un pregiudizio destinato a rinnovarsi continuamente, in relazione alla privazione del godimento ed alla perdita dei frutti dell'immobile»[29].

L’art. 42 bis d.P.R. 327/2001 riconduce, infine, nell’alveo della legalità le occupazioni sine titulo, attraverso l’attribuzione all’amministrazione dell’obbligo di avviare un procedimento, all’esito del quale operare una valutazione, questa sì discrezionale, in ordine alla scelta tra acquisire definitamente il bene o restituirlo al privato.

Ne consegue che l’irreversibile trasformazione del fondo non esclude l’obbligo della Pubblica Amministrazione di restituire il bene al privato. Anzi, in tal caso, la tutela risarcitoria in forma specifica prevale su quella per equivalente.

8. L’Adunanza Plenaria 6/2021 e gli effetti preclusivi del giudicato civile contenente l’accertamento di una fattispecie di occupazione acquisitiva

L’Adunanza Plenaria 6/2021 si è pronunciata, recentemente, sulla rilevanza e i limiti del giudicato civile di rigetto di una domanda risarcitoria per equivalente rispetto alla successiva domanda di risarcimento in forma specifica, promossa innanzi al giudice amministrativo.

8.1. I fatti di causa

Allo scopo di meglio chiarire e comprendere gli approdi ermeneutici del Supremo Consesso, occorre brevemente passare in rassegna la vicenda fattuale e processuale oggetto della pronuncia.

Il 18 luglio 1977, con Decreto del Presidente della Giunta regionale della Sardegna n. 5/1199/249, l’ente ospedaliero Ospedali Riuniti Cagliari veniva autorizzato ad occupare d’urgenza terreni di proprietà di privati per realizzare il Nuovo Ospedale Civile.

Nonostante l’effettiva utilizzazione e trasformazione delle aree, per esigenze di pubblica utilità, l’ente ospedaliero non adottava il provvedimento finale d’esproprio.

Il 14 ottobre 1991, l’Azienda U.S.L. n. 21 di Cagliari, succeduta ex lege agli Ospedali Riuniti, approvava un accordo bonario di cessione volontaria delle aree occupate sine titulo.

La delibera veniva, tuttavia, annullata in autotutela per difficoltà di finanziamento.

Gli eredi di uno dei proprietari dei beni occupati adivano, pertanto, il Tribunale ordinario di Cagliari, chiedendo la condanna al risarcimento del danno per equivalente corrispondente al valore di mercato dei terreni occupati sine titulo.

Con la sentenza n. 2860 del 22 novembre 2006, il Tribunale ordinario di Cagliari dichiarava prescritto il diritto al risarcimento del danno, dovendosi ritenere integrata una fattispecie di occupazione acquisitiva, intesa come illecito istantaneo ad effetti permanenti.

La sentenza, non impugnata, passava in giudicato.

Successivamente, il 3 settembre 2018, i ricorrenti adivano il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, chiedendo la condanna al risarcimento del danno in forma specifica, attraverso il rilascio dei terreni illegittimamente occupati.

I ricorrenti deducevano, che a fronte del superamento dell’istituto di creazione giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, era loro consentito azionare un rimedio alternativo e domandare la restituzione del bene.

Il TAR, con la sentenza n. 408 del 13 maggio 2019, respingeva la domanda, accogliendo l’eccezione di giudicato sollevate dall’amministrazione resistente.

Avverso tale sentenza gli originari ricorrenti proponevano appello, deducendo la diversità di petitum e causa petendi tra domanda risarcitoria per equivalente oggetto di giudicato civile e domanda di risarcimento del danno in forma specifica.

Sostenevano che, mentre, per la prassi inaugurata dalla sentenza Sez. Un. n. 1464/1983, al privato ablato era riconosciuta, tutela unicamente risarcitoria, per effetto del mutamento giurisprudenziale e l’introduzione dell’art. 42 bis d.P.R. 327/2001, avrebbero potuto ottenere la restituzione del bene.

8.2. Le questioni di diritto

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria la risoluzione delle seguenti questioni di diritto:

«a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla occupazione appropriativa o accessione invertita – sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;

b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla occupazione appropriativa ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;

c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio, per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale);

d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente)».

8.3. Il contrasto interpretativo

Sulla questione rimessa all’Adunanza Plenari era emerso un contrasto interpretativo.

Secondo un primo indirizzo ermeneutico, la sussistenza di un giudicato civile sul regime proprietario della Pubblica Amministrazione avrebbe precluso l’accoglimento di una domanda volta ad «ottenere l’applicazione ‘ora per allora’ di un diverso orientamento giurisprudenziale, successivamente affermatosi sotto la spinta della Corte EDU, e di un antitetico quadro legislativo introdotto dal legislatore nazionale, appunto, per conformarsi ai precetti della Corte»[30].

Del resto, la procedura di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001, con conseguente possibilità di ottenere la restituzione del bene, potrebbe trovare applicazione solo qualora la questione circa l’effettiva titolarità del bene espropriato sine titulo sia ancora sub judice e non si sa formato un giudicato.

Altra ricostruzione, viceversa, sarebbe evincibile da una sentenza del Consiglio di Stato[31], che aveva, nella specie, escluso preclusioni di sorta, in quanto la Pubblica Amministrazione non aveva proposto formale domanda di accertamento dell’acquisto della proprietà e, pertanto, il giudicato non poteva dirsi formato sul regime proprietario dei beni.

La Sezione rimettente, seguendo quest’ultimo orientamento, ritiene ammissibile la domanda di restituzione del bene illegittimamente occupato, con la conseguenza che potrebbero sussistere i presupposti per l’esercizio del potere acquisitivo di cui all’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001.

Più in generale, si tratta di chiarire se il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione del diritto di una domanda di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà, in applicazione dell’ormai superato istituto della cd. occupazione acquisitiva, precluda altresì l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica volta alla restituzione della res, innanzi al giudice amministrativo.

La soluzione della questione presuppone:

«- per un verso, la corretta definizione del rapporto tra le due forme di tutela esperite nei due giudizi, tenendo, altresì, conto dei principi affermati dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, circa la possibilità di convertire – anche in sede d’appello – la domanda di restituzione, basata sulla lesione del diritto di proprietà, nella domanda di applicazione dell’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001, basata sulla lesione dell’interesse legittimo pretensivo disciplinato da tale disposizione;

- per altro verso, stante un contrasto all’interno della giurisprudenza Consiglio di Stato, l’individuazione degli effetti delle novità normative, nonché del cambiamento dell’orientamento giurisprudenziale, per l’effetto della presa di posizione della C.EDU, sviluppatosi sulle forme di tutela esperibili avverso l’occupazione sine titulo di immobili da parte della pubblica amministrazione, per individuare se la domanda formulata in primo grado sia nuova rispetto a quella decisa dal giudice civile;

- per altro verso ancora, il rapporto tra giudicato nazionale e diritto dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.»

8.4. La soluzione fornita dall’Adunanza Plenaria 6/2021

Primariamente, l’Adunanza Plenaria chiarisce l’imprescindibile necessità di correttamente interpretare il giudicato civile formatosi con la sentenza civile n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari, non impugnata.

Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, l’interpretazione del giudicato civile va effettuata tenendo conto non solo del dispositivo, ma anche della motivazione, in quanto il thema decidendum si estende anche alle questioni che costituiscono il fondamento logico-giuridico della statuizione finale (cd. giudicato implicito).

Tali considerazioni si fondano su «una concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato», secondo cui il giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c. «si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti in fatto e in diritto, i quali rappresentino le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico della pronuncia finale, spiegando, quindi, la sua autorità non solo sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda giudiziale (cd. giudicato esplicito), ma estendendosi agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione e ne formano il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico-giuridico della statuizione finale (cd. giudicato implicito)».

Il giudicato si estende, dunque, anche alla questione logico-pregiudiziale – senza che a tal fine sia necessaria la proposizione di un’apposita domanda ai sensi dell’art. 34 c.p.c. – a condizione, tuttavia, che dalla sentenza emerga che la questione abbia formato oggetto di una valutazione effettiva, come non avviene, viceversa, in applicazione del cd. primato della ragione più liquida, oppure in presenza di un mero obiter dictum[32].

Tanto precisato in punto di diritto, il Supremo Consesso chiarisce che la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà – contenuta nel giudicato civile del Tribunale ordinario di Cagliari – trova il proprio antecedente logico nella qualificazione della fattispecie come occupazione acquisitiva.

Il giudicato civile si è, dunque, formato oltre che sulla inesistenza per intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento per equivalente, anche sulla titolarità del bene occupato in capo alla Pubblica Amministrazione.

Irrilevante – ritiene l’Adunanza Plenaria – è la mancata adozione di una formale ed espressa statuizione sul punto, l’effetto acquisitivo producendosi ipso iure a seguito dell’irreversibile trasformazione della res, per effetto dell’occupazione acquisitiva.

Pertanto, rispetto a tale effetto, la pronuncia assume valenza meramente ricognitiva, non già costitutiva.

Il Supremo Consesso chiarisce, inoltre, che la domanda proposta innanzi al giudice amministrativo è pacificamente una domanda risarcitoria in forma specifica.

L’azione di reintegrazione in forma specifica è un rimedio risarcitorio volto all’eliminazione delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo, e come tale richiede l’accertamento dei presupposti della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., oltre che dei presupposti previsti dall’art. 2058 c.c.[33]

È azione diversa per causa petendi e petitum dall’azione di rivendicazione, che, viceversa, ha carattere reale, petitorio e reipersecutorio/ripristinatorio, ed è proponibile da chi assume di essere proprietario, a prescindere dall’accertamento di un illecito.

L’azione di risarcimento in forma specifica e per equivalente rappresentano «due rimedi in rapporto di concorso alternativo, diretti all’attuazione dell’unico diritto alla reintegrazione della sfera giuridica lesa che trova la sua fonte nella medesima fattispecie di illecito».

Pertanto, i due rimedi non possono che essere alternativi tra loro, tant’è che ne è consentita la modifica in corso di giudizio, come emendatio libelli.

A diverse conclusioni non si giungerebbe neppure qualora i privati avessero proposto azione reale di rivendicazione ex artt. 948 c.c., in ragione della incompatibilità del presupposto della domanda (l’essere proprietario) con l’accertamento passato in giudicato sulla titolarità del diritto di proprietà in capo alla Pubblica Amministrazione.

È preclusa, altresì, l’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio sull’istanza a provvedere ai sensi dell’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001, in quanto l’istituto trova applicazione esclusivamente qualora i fatti siano ancora sub judice[34].

Ad ogni modo, l’Adunanza Plenaria rileva che, nel caso di specie, i privati avrebbero potuto e dovuto – secondo criteri di ordinaria diligenza, correttezza e buona fede (art. 2 Cost.) – interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno e impugnare la sentenza civile prima che passasse in giudicato, facendo valere il sopravvenuto mutamento del quadro giurisprudenziale[35].

Inoltre, l’irretrattabilità del giudicato è principio non solo di diritto interno, ma anche sovranazionale.

Invero, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha, in più occasioni, affermato che il diritto comunitario non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, neppure allo scopo di rimuovere una violazione del diritto UE[36].

Neppure è ravvisabile un contrasto con il diritto convenzionale della C.E.D.U., in quanto i privati non hanno esaurito i rimedi processuali interni né tantomeno adito la Corte europea.

In ogni caso, la Corte costituzionale ha stabilito che, al di fuori della materia penale, non sussiste alcun obbligo per gli Stati membri di revocazione del giudicato e riapertura del processo, per conformarsi a una sentenza della Corte europea, che abbia accertato la violazione della Convenzione[37].

Non sussistono, invero, le medesime ragioni di tutela della libertà personale che hanno indotto la Consulta ad interrogarsi, nell’ambito dei procedimenti penali, su quali sia lo strumento più efficace ed effettivo per realizzare la restitutio in integrum dell’imputato/condannato che abbia subito una lesione dei diritti fondamentali, per violazione della Convenzione.

Alla luce di tali considerazioni, dunque, non è consentita la riapertura generalizzata dei processi definiti con sentenza passata in giudicato, anche qualora sia stata fatta applicazione di un istituto, quale quello della cd. occupazione acquisitiva, ormai decisamente superato.

L’Adunanza Plenaria n. 6/2021, pertanto, formula i seguenti principi di diritto:

«(i) In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001.

(ii) Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto.

 


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per un corretto inquadramento sistematico dell’istituto si vedano: F. CARINGELLA, Manuale di diritto Amministrativo, Parte Generale e Parte Speciale, XV Ed., Dike, 2022, 841 ss.; R. GAROFOLI, G. FERRARI, R., Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, XII Ed., 1299 ss.; M. SANTISE, Coordinate ermeneutiche di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2018, 165 ss.

[2] Cfr. Cass. civ., SS.UU. del 26 febbraio 1983 n. 1464.

[3] Cfr. Corte Costituzionale 188/1995.

[4] Cfr. Cass. civ., SS.UU. del 26 febbraio 1983 n. 1464.

[5] Si veda in particolare,: F. CARINGELLA, L. BUFFONI, Manuale di diritto Civile, XII Ed., Dike, 2022, 443 ss.; R. GAROFOLI, G. FERRARI, R., Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, XII Ed., 1299 ss.; M. SANTISE, Coordinate ermeneutiche di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2018, 165 ss.

[6] Adunanza Plenaria, 20 gennaio 2020, n. 4.

[7] Cass. civ. 16 luglio 1997, n. 1615.

[8] La dichiarazione di pubblica utilità è, viceversa, indefettibile punto di partenza dell’occupazione acquisitiva (v. F. CARINGELLA, Manuale di diritto Amministrativo, Parte Generale e Parte Speciale, XV Ed., Dike, 2022, 841 ss.)

[9] v. Cass. civ., 28 marzo 2001, n. 4451; Cass. civ., Sez. un., 4 marzo 1997, n. 1907; nonché, con particolare chiarezza, Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2003, n. 6853.

[10] Sul punto, diffusamente, Adunanza Plenaria, 20 gennaio 2020, n. 4.

[11] Con la nota sentenza 30 maggio 2000, ricorso n. 31524/96, Belvedere Alberghiera s.r.l./Italia.

[12] Cfr. Corte EDU sentenze 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 15 e 29 luglio 2004, Scordino c. Italia; 19 maggio 2005, Acciardi c. Italia; 15 luglio 2005, Carletta c. Italia; Adunanza Plenaria n. 2/2005.

[13] L’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 della Convezione europea dei diritti dell’uomo, rubricato «Protezione della proprietà», così recita: «1. Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. 2. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende».

[14] Cfr. Corte Costituzionale 293/2010.

[15] Cfr. Corte Costituzionale 349/2007.

[16] Adunanza Plenaria, 20 gennaio 2020, n. 2.

[17] In tal modo, tuttavia, il potere ablativo viene esercitato senza le garanzie partecipative e gli oneri istruttori e motivazionali propri del procedimento amministrativo.

[18] Corte Cost. n. 71/2015.

[19] In particolare, v. Corte Cost. n. 71/2015 e Adunanza Plenaria 4/2020.

[20] Corte Cost. n. 71/2015.

[21] Adunanza Plenaria, 18 febbraio 2020, n. 5.

[22] Da ultimo Adunanza Plenaria 5/2020; in senso conforme, Adunanza Plenaria 2/2016 e Corte Costituzionale 71/2015.

[23] Adunanza Plenaria n. 2, 4 e 5 del 2020.

[24] Adunanza Plenaria 2/2016; Cass. civ., Sez. un., 4 marzo 1997, n. 1907; nonché, con particolare chiarezza, Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2003, n. 6853.

[25] Adunanza Plenaria n. 2, 4 e 5 del 2020.

[26] Adunanza Plenaria n. 4 del 2020.

[27] In particolare, Adunanza Plenaria n. 2 del 2020.

[28] La realizzazione dell’opera pubblica non fa, dunque, venir meno l’obbligo di restituzione del bene illegittimamente espropriato, così che, ove possibile, la tutela in forma specifica prevale su quella risarcitoria (cfr. Consiglio di Stato IV, n. 450 del 2002 e n. 5820 del 2003).

[29] Cassazione civile sez. I, 02/03/2022, n. 6867.

[30] Cons. Stato, Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1466.

[31] Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830.

[32] Sul punto, Cass. Civ., Sez. 1, Sentenza n. 5264 del 17/03/2015; Cass. civ., Sez. 3, 8 ottobre 1997, n. 9775; Cass. n. 7140/2002; Cass. n. 11672/2007; Cass. civ., Sez. 3, Sentenza 8 novembre 2006, n. 23871.

[33] L’insussistenza dei limiti della possibilità e la non eccessiva onerosità.

[34] Cfr. Corte Cost. n. 71/1995; Ad. plen., n. 2/2016.

[35] Cfr. Corte EDU sentenze 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 15 e 29 luglio 2004, Scordino c. Italia; 19 maggio 2005, Acciardi c. Italia; 15 luglio 2005, Carletta c. Italia; Adunanza Plenaria n. 2/2005).

[36] Corte di Giustizia, sentenza del 4 marzo 2019, C-34:19. L’Adunanza Plenaria 6/2021 evidenzia, peraltro, che il regime della proprietà, in cui rientra senza dubbio la materia dell’espropriazione per pubblica utilità, non è neppure di competenza legislativa dell’Unione europea.

[37] Corte Costituzionale 123/2017 e 93/2018.