La natura degli atti posti in essere dal contribuente ai fini del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
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Adriano Randaccio
Dopo una breve premessa sull´origine del diritto penale tributario, si passa alla disamina dei singoli reati tributari. Dopodiché si esamina- in chiave critica - la fattispecie criminosa di cui all´art. 11 D.lgs. 74/2000 approfondendo la ratio del delitto tributario nonché le motivazioni della sua, oggi, sempre più frequente contestazione. Si procede, poi, ad analizzare l´aspetto sanzionatorio della fattispecie in oggetto, così come scaturito dall´estensione della responsabilità ex D.lgs. 231/2001 ai reati tributari. Arrivando, così, alla disamina degli elementi strutturali del reato de quo per approfondire, infine, quella che è la natura che - necessariamente - deve connotare gli atti posti in essere ai fini della sua configurazione, alla luce delle Sezioni Unite 12213 del 2018.
The nature of the acts implemented by the taxpayer for the purpose of the offense of fraudolent subtraction to the payment of taxes
After a brief introduction on the origin of criminal tax law, we move on to the examination of the individual tax networks. Then the criminal offense referred to in art. 11 Legislative Decree 74/2000 deepening the rationale of the tax crime as well as the motivation of its, today, increasingly frequent dispute. We then proceed to analyze the sanctioning aspect of the case in question, as weel as resulting from the extension of libality pursuant to Legislative Decree 231/2001 to tax offenses. Thus arriving at the examination of the structural elements of the crime de quo in order to deepen, finally, what is the nature that - necessarily - must characterize the acts put in place for the purposes of its configuration, in the light of the United Sections 12213 of 2018.Sommario: 1. Premessa; 2. La legge dei reati tributari e la posizione occupata all’interno di essa dal delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte; 3. La “ratio” della fattispecie criminosa in oggetto e le motivazioni della sua frequente contestazione; 4. Il regime sanzionatorio del reato de quo a seguito dell’estensione della responsabilità ex d.lgs. 231/2001 all’ambito penal-tributario; 5. La “struttura” del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte; 6. La natura degli atti posti in essere ai fini della configurazione del reato ex art. 11 d.lgs. 74/2000 – alla luce delle Sezioni Unite 12213/18; 7. Conclusioni in prospettiva “de jure condendo”.
1. Premessa
Da un punto di vista storico, appare opportuno sottolineare l’origine e l’evoluzione della normativa nel settore penal-tributario. Ebbene, a tal riguardo, va detto che il diritto penale tributario affonda le proprie radici nel fascismo, infatti, la prima normativa in materia di reati tributari è stata la Legge n. 4 del 1929[1].
Con l’avvento della Carta costituzionale, poi, la legge 4/1929 fu’ fortemente criticata perché giudicata non conforme ai principi cardini del diritto penale e, in particolare, non era tollerabile che il processo penale – nonché il relativo esito – fosse subordinato a quello tributario, non assistito dalle garanzie proprie dell’udienza penale, pertanto, successivamente, la stessa fu dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi.
Arriviamo, così, ad un radicale cambio di rotta, nel 1982, con la Legge n. 516, con la quale furono portati avanti principalmente due obiettivi: quello del “doppio binario”, che ha comportato la separazione del processo tributario da quello penal-tributario, nel senso che le sorti del primo non condizionano più l’inizio del secondo in quanto i due procedimenti camminano parallelamente, in maniera autonoma l’uno dall’altro, senza condizionamenti reciproci[2].
L’aspetto critico di tale “duplicazione” è rinvenibile nel rischio che un soggetto, che abbia definito in maniera positiva il processo tributario, si veda, invece, condannare in sede penale – rispetto al medesimo fatto oggetto di contestazione tributaria – con tutte le conseguenze che ne derivano, prima fra tutte la confisca, o anche al contrario, e cioè che venga assolto nel processo penale e, invece, riconosciuto responsabile in sede di accertamento fiscale. Poi, il secondo obiettivo della suddetta legge era quello di prevedere e disciplinare il più ampio numero possibile di fattispecie criminose tributarie[3], in quanto veniva attribuita al diritto penale tributario una funzione repressiva.
Tra l’altro, un simile approccio appare in palese contrasto con i principi fondamentali del diritto penale e, più precisamente, con il principio di legalità e i sub-principi di tassatività e divieto di analogia in quanto le fattispecie tributarie penalmente rilevanti, oltre il precetto e la sanzione, hanno un contenuto particolarmente “tecnico” che deriva da altre branche del diritto, pertanto, le norme che le disciplinano dovrebbero essere limitate nel numero e sufficientemente determinate nei loro elementi costitutivi evitando, così, di sfociare nella norma penale in bianco.
Arriviamo, infine, all’attuale legge dei reati tributari, ovvero il D.lgs. n. 74 del 2000, con il quale si è perseguito l’obiettivo opposto a quello prefissato con la normativa previgente, ovvero limitare i delitti tributari a poche fattispecie criminose ben determinate nel loro contenuto anche se, come vedremo di qui a breve, l’approfondimento dei singoli delitti tributari – previsti e disciplinati dal d.lgs. n. 74 del 2000 – restituisce una scena tutt’altro che scevra da interrogativi irrisolti e, soprattutto, contrariamente a quanto perseguito dal legislatore del 2000, dai margini applicativi per niente ben definiti.
2. La legge dei reati tributari e la posizione occupata all’interno di essa dal delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
Prima di analizzare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, ex art. 11 d.lgs. 74/2000, appare opportuno – per una più completa comprensione della disciplina di settore e per meglio inquadrare la posizione che all’interno di essa occupa la fattispecie criminosa che qui si intende approfondire – passare alla disamina di quelli che sono i reati tributari.
Ebbene, la legge dei reati tributari[4] disciplina tre categorie di fattispecie delittuose, la prima concerne i “delitti in materia di dichiarazione”, tra i quali troviamo: a) la Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni[5] inesistenti, che punisce con la reclusione da quattro a otto anni “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”[6].
Va specificato che, ai fini della configurazione del suddetto reato, è irrilevante il quantum di imposta evasa essendo necessario, invece, che la condotta incriminata, consistente nell’indicazione di elementi passivi fittizi, sia stata posta in essere mediante l’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; b) la Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, che punisce con la reclusione da tre a otto anni “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una della dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi”[7].
Con riferimento a questa fattispecie delittuosa – la quale, insieme a quella di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti rappresentano, tra i delitti in materia di dichiarazione, le due fattispecie che destano maggior allarme sociale –[8] meritano, a parere di chi scrive, di essere menzionati alcuni importanti interventi legislativi che hanno modificato in maniera sostanziale il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
Va precisato, innanzitutto, che è stato eliminato l’elemento caratterizzante della figura di reato consistente nella falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie, ampliando, in questo modo, il novero dei possibili autori del reato potendo lo stesso essere commesso, a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 158/2015, anche da soggetti non obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Inoltre, devono ricorrere altre due condizioni che la giurisprudenza di legittimità[9] considera come elementi costitutivi del reato in oggetto, per cui, nel caso in cui non dovessero essere soddisfatte non verrebbero raggiunte le soglie richieste ai fini della punibilità, con il conseguente venir meno della sussistenza del reato, e sono: in primo luogo, che l’imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro trenta mila; in secondo luogo, che l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, sia superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, superiore a un milione cinquecentomila euro; c) La Dichiarazione infedele, che consiste nell’indicare in dichiarazioni minori elementi attivi od elementi passivi inesistenti.
E una fattispecie meno grave della dichiarazione fraudolenta e per questo è punita con la reclusione da due a quattro anni e sei mesi, inoltre, ai fini della sussistenza del reato l’imposta evasa deve essere superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro centomila e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante l’indicazione di elementi passivi fittizi, deve essere superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, superiore a euro due milioni[10]; d) L’omessa dichiarazione.
Per l’integrazione di questa fattispecie di reato, che punisce con la reclusione da due a cinque anni “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte”[11], occorre che l’imposta evasa sia superiore a cinquantamila euro e, comunque, il ritardo lieve nella presentazione della dichiarazione comporta solo una sanzione amministrativa, non essendo penalmente rilevante il ritardo non superiore a novanta giorni[12] dalla scadenza del termine.
Per quanto concerne l’elemento psicologico, occorre far presente che sia la dottrina che la giurisprudenza maggioritaria hanno sempre sostenuto che per la configurazione dei delitti tributari - in materia di dichiarazione - fosse necessaria la sussistenza del dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà finalizzata ad evadere le imposte su redditi o sul valore aggiunto. Va segnalata, tuttavia, una recente giurisprudenza della cassazione la quale, contrariamente agli orientamenti precedenti, ha ritenuto “configurabile il reato dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti anche in caso di dolo eventuale, da intendersi in termini di lucida accettazione, da parte dell’agente, dell’evento lesivo, e quindi anche del fine di evasione o indebito rimborso, come conseguenza della sua condotta”[13].
A parere di chi scrive, una simile conclusione appare poco condivisibile stante l’oggettiva difficoltà di individuare quelli che sono gli “elementi” o “indicatori” dai quali desumere la sussistenza del dolo eventuale e, quindi, la sussistenza o meno dell’accettazione del rischio da parte del contribuente di evadere le imposte.
Peraltro, una simile previsione giurisprudenziale appare in evidente contrasto con i principi fondamentali del diritto penale, primo fra tutti quello di tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale. La seconda categoria di reati tributari, espressamente disciplinata dal d.lgs. 74/2000, è quella dei “delitti in materia di documenti”. In questa categoria rientrano: a) L’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, che punisce con la reclusione da quattro a otto anni “chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”[14].
Tale disposizione, come sostiene onorevole dottrina, è volta a colpire le c.d. cartiere, ovvero quelle imprese che, in maniera illecita, perseguono lo scopo unico di emettere e vendere documentazione volta a supportare l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi fittizi[15]; b) L’occultamento o distruzione di documenti contabili, che punisce con la reclusione da tre a sette anni “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”[16]. Rispetto a quest’ultima fattispecie di reato merita di essere quantomeno menzionato il criterio utilizzato di recente dalla Corte di cassazione per ritenere configurato il reato de quo.
Ebbene, i giudici di legittimità hanno ritenuto configurato il delitto di occultamento di documenti contabili anche nel caso di mancato rinvenimento di alcuna fattura presso il presunto emittente, ma, bensì, per la colpevolezza di quest’ultimo è stato ritenuto sufficiente il ritrovamento di una sola fattura presso un terzo, in quanto, ad avviso degli ermellini:
“risponde a canoni di logica desumere dal rinvenimento di una fattura presso un terzo il fatto che di quel documento esista fisicamente una copia presso chi l'ha emessa”. Per cui, continuano i giudici di cassazione, “non è manifestamente illogico desumere dal mancato rinvenimento di detta copia la conseguenza della sua distruzione ovvero del suo occultamento”[17]. A parere di chi scrive, la conclusione a cui sono pervenuti i Giudici della cassazione risulta in palese contrasto con il principio di colpevolezza, in quanto viene àncorata la responsabilità penale sulla base di elementi che esulano dalla responsabilità personale del presunto reo. Più precisamente: si attribuisce rilevanza penale a una condotta la cui commissione non è in alcun modo provata ma solo “logicamente desunta” sulla base del mero ritrovamento documentale presso terzi. L’ultima categoria di delitti in materia tributaria – nella quale rientra anche la fattispecie qui oggetto di approfondimento, ovvero la sottrazione fraudolenta – è quella relativa al pagamento delle imposte. In questa categoria rientrano: a) L’omesso versamento di ritenute certificate, che punisce con la reclusione da sei mesi a due anni “chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta”[18]. Seppur il dettato normativo utilizza la parola “chiunque”, va specificato, però, che il reato di omesso versamento di ritenute certificate può essere commesso soltanto dai sostituti d’imposta. A tal riguardo, merita di essere menzionata una recente pronuncia della Corte di cassazione, con la quale gli ermellini hanno stabilito che va riconosciuta la circostanza attenuante comune dell’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale, ex art. 62, comma I°, c.p., all’imprenditore che non abbia versato le ritenute per salvare il posto di lavoro dei propri dipendenti[19]. A parere di chi scrive, nel caso in cui l’imprenditore non paghi le tasse per salvare il posto di lavoro dei dipendenti, considerati i beni confliggenti – ovvero il diritto al lavoro da un lato e il dovere di contribuire alle spese pubbliche dall’altro – andrebbe riconosciuta all’imprenditore insolvente non la mera sussistenza della circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale ma, piuttosto, la non punibilità per la sussistenza della causa di giustificazione dello stato di necessità, ex art. 54 c.p., sempreché, beninteso, sia dimostrato che l’imprenditore non poteva percorrere nessun altra strada per evitare il licenziamento dei dipendenti e che quindi il pericolo non era “altrimenti evitabile”. Una simile chiave di lettura, inoltre, trova il supporto di autorevole dottrina, la quale, in contrapposizione all’orientamento prevalente in giurisprudenza – fermo nel ritenere non applicabile l’art. 54 c.p. nei casi di bisogno economico, sul presupposto che alle carenze dei bisognosi può oggi far fronte l’organizzazione sociale con i suoi vari istituti – sostiene che il concetto di necessità, così come inteso dalla giurisprudenza, risulta troppo astratto per cui: “per verificare se una data condotta sia veramente necessaria o no a scongiurare il pericolo di danno, non è sufficiente considerare la possibilità ipotetica di ricorrere ad altre condotte penalmente lecite ma occorre altresì accertare se queste condotte alternative posseggano in concreto pari o analoga idoneità a porre in salvo il bene in questione”[20]; b) L’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, che punisce con la reclusione da sei mesi a due anni “chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”[21]. Va detto che, dal punto di vista del soggetto attivo[22] del reato di omesso versamento dell’Iva, questo può essere sia il contribuente persona fisica che il contribuente persona giuridica. Inoltre, merita di essere menzionata la c.d. “impossibilità a versare l’Iva” che può scagionare l’imprenditore. Al fine del riconoscimento dell’impossibilità scusante, però, va specificato che deve trattarsi di una impossibilità oggettiva, fondata sulla sussistenza di due presupposti: in primo luogo, la totale mancanza di disponibilità economiche; in secondo luogo, l’assenza di qualsiasi forma di dolo; c) L’indebita compensazione, che punisce con la reclusione da sei mesi a due anni “chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti o inesistenti”[23]. Con riferimento a questa fattispecie di reato, va specificato che ai fini della sua configurazione va superata la soglia di punibilità che è fissata a cinquantamila euro di imposta evasa per crediti non spettanti o inesistenti. Detta soglia, va calcolata prendendo in considerazione la somma complessivamente non versata dal contribuente, senza distinguere tra i diversi titoli debitori, il che comporta una maggiore possibilità di superare la soglia di punibilità con conseguente aumento delle probabilità di contestazione del reato tributario. Inoltre, sempre con riferimento al reato di indebita compensazione, una recente sentenza della Corte di cassazione ha stabilito che: “Il reato di indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti, di cui all’art. 10-quater d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in combinato disposto con l’art. 17 d.lgs. n. 241 del 1997, si configura sia in caso di c.d. compensazione orizzontale, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, sia in caso di c.d. compensazione verticale, riguardante crediti e debiti per tributi di natura omogenea, in quanto si concretizza in una condotta omissiva supportata dalla redazione di un documento ideologicamente falso, idoneo a prospettare una compensazione fondata su un credito inesistente o non spettante”[24]. Infine: d) Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, fattispecie oggetto di approfondimento in questa sede, che punisce “chiunque aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”[25].
3. La “ratio” della fattispecie criminosa in oggetto e le motivazioni della sua frequente contestazione
Prima di rivolgere l’attenzione a quelle che sono le caratteristiche che debbono connotare gli atti posti in essere dal contribuente/debitore, ai fini della configurazione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – alla luce della più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione – appare opportuno, a parere di chi scrive, soffermarsi, seppur brevemente, sulla “ratio” della fattispecie in oggetto e sulle motivazioni che, almeno negli ultimi anni, hanno portato alla sua sempre più frequente contestazione, oltre che su alcune peculiarità della fattispecie in oggetto che meritano di essere esaminate.
Va detto, innanzitutto, che il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte trova il suo fondamento nel principio costituzionale secondo il quale “tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”[26] e, contestualmente, nel correlato pericolo che i crediti tributari non trovino soddisfacimento nel patrimonio del debitore.
Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte occupa da sempre una posizione centrale tra quelli che sono i reati in materia tributaria, infatti, tale fattispecie criminosa era già prevista all’art. 97 del D.P.R. n. 602 del 1973. Seppur profondamente modificata rispetto alla vecchia disciplina, ad oggi, la fattispecie delittuosa di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte trova frequente contestazione grazie alla possibilità, ora prevista dall’ art. 12 bis del d.lgs. 74/2000, di applicare la confisca per equivalente anche ai reati tributari mediante lo strumento processuale rappresentato dal sequestro preventivo. Il suddetto art. 12 bis riproduce fedelmente la norma dell’art. 322 ter, comma I, c.p. la quale trovava applicazione prima della riforma del 2015; il secondo comma dell’art. 12 bis. del d.lgs. 74/2000, poi, stabilisce che anche in caso di sequestro, la quota che il contribuente si è impegnato a versare al Ministero delle finanze, non sarà confiscata.
Da un punto di vista più squisitamente difensivo, dunque, possiamo affermare che è possibile evitare la confisca non solo mediante la definizione del processo penale in modo favorevole per il (presunto) reo ma anche rateizzando il debito con l’erario, in modo tale da neutralizzare l’efficacia della confisca già disposta ed eliminare, così, i vincoli sui rapporti bancari o sugli immobili.
A tal riguardo, corre l’obbligo di rammentare che, secondo un recentissimo orientamento giurisprudenziale, l’art. 12 bis deve essere interpretato nel senso che: “la confisca può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito”[27].
In questi termini, i giudici della Corte di cassazione hanno stabilito che gli effetti del sequestro, e quelli della confisca che eventualmente ne conseguirà, sono “conservati” fino a quando il debitore – che abbia deciso di rateizzare il suo debito con l’Erario – non restituisce l’intera somma evasa e che le somme già versate da quest’ultimo possono essere considerate solo ai fini della rideterminazione (in termini quantitativi) della misura.
Gli illeciti fiscali, dunque, consentono di “vincolare” il denaro e gli immobili appartenenti al contribuente/debitore per un valore corrispondente a quello dell’evasione realizzata. In questi casi, infatti, si parla di confisca “sospesa”, in quanto la misura diventerà operativa solo nel caso in cui i versamenti rateali saranno interrotti da parte del debitore e, invece, cade o comunque resta non operativa quando il contribuente ha rateizzato il suo debito ed è in regola con i pagamenti. Recentemente, i giudici di legittimità, muovendosi nella stessa direzione hanno precisato che, in tal caso: “la confisca pur essendo regolarmente adottata non è eseguibile poiché subordinata a una condizione eventuale e incerta, che si realizzerà solo in caso di mancato versamento delle somme dovute all’erario”[28].
Risulta evidente, dunque, che ci troviamo di fronte a un’ipotesi di confisca obbligatoria e non facoltativa, che colpisce i beni appartenenti al reo che abbiano un valore corrispondente al prezzo o profitto del reato. A parere di chi scrive, ciò che merita attenzione – in questa sede – è la motivazione alla base della sempre più frequente contestazione del reato ex art. 11 d.lgs. 74/2000, e cioè la possibilità di sequestrare e confiscare beni immobili e denaro del debitore in caso di commissione di reati tributari.
Ebbene, premesso che non è questa la sede più opportuna per approfondire il tema della confisca, in considerazione anche delle peculiarità nonché dei dubbi di costituzionalità che a parere di chi scrive avvolgono l’applicazione di questa misura, è pur vero, tuttavia, che ci sono alcune questioni relative alla confisca che interessano i reati tributari e che, pertanto, meritano di essere approfondite in questa sede non solo per meglio comprendere l’intera disciplina di settore, ma anche per “quantificare” la portata della confisca sulla fattispecie tributaria qui oggetto di approfondimento.
Appare di primo rilievo, innanzitutto, evidenziare che la c.d. confisca allargata o per sproporzione, prevista per i delitti considerati più gravi (terrorismo, criminalità organizzata, associazione a delinquere di stampo mafioso, usura, estorsione ecc…) è stata estesa anche ai reati tributari. Si badi, però, che per l’applicazione della confisca per “sproporzione” – che colpisce i beni dei quali il condannato non può giustificare la legittima provenienza, con ribaltamento dell’onere probatorio a carico dell’imputato – ai reati tributari, non è sufficiente qualsiasi evasione fiscale, ma è necessario il superamento delle soglie di punibilità stabilite per ciascun reato ex d.lgs. 74/2000.
Inoltre, corre l’obbligo di rammentare che, in tema di reati tributari, secondo una recente pronuncia della cassazione: “la confisca per equivalente può essere disposta anche in assenza di un precedente provvedimento cautelare di sequestro”[29], sempre che l’imputato sia stato attinto da una sentenza di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti. Merita altresì attenzione, sempre in relazione alla possibilità di emettere provvedimenti ablativi in caso di commissione di reati tributari, un’altra recentissima pronuncia con la quale i giudici di legittimità hanno affermato che: “in tema di reati tributari il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti della persona fisica è ammissibile anche nel caso in cui sia intervenuto il fallimento della persona giuridica, che determina il passaggio dei beni nella disponibilità della curatela, con conseguente impossibilità di ablazione attraverso il sequestro in via diretta nei confronti di detta persona giuridica”[30].
Ma le maggiori perplessità, a parere di chi scrive, emergono con l’applicazione della confisca – nei reati tributari – nella fase “post rem iudicatam”. Infatti, alla questione sottopostagli dalla I sezione penale[31], con una recente sentenza delle Sezioni Unite – le cui motivazioni non sono state ancora depositate ma la soluzione adottata è stata resa nota con una “informazione provvisoria” – la Suprema Corte di cassazione dava la seguente soluzione: “il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di confisca ex art. 240 bis c.p., esercitando gli stessi poteri che, in ordine alla detta misura di sicurezza atipica, sono propri del giudice della cognizione, può disporla, fermo restando il criterio di ragionevolezza temporale, in ordine ai beni che sono entrati nella disponibilità del condannato fino al momento della pronuncia della sentenza per il c.d. reato spia, salva comunque la possibilità di confisca di beni acquistati anche in epoca posteriore alla sentenza, ma con risorse finanziarie possedute prima”[32].
Appare dunque evidente, con la soluzione adottata dalle Sezioni Unite, che il giudice dell’esecuzione può disporre la confisca allargata non solo dei beni riferibili al condannato fino al momento della sentenza di condanna, ma anche dei beni acquistati da quest’ultimo successivamente alla sentenza, purché “ritenuti” dal giudice appresi mediante il reimpiego di denaro “già” esistente al momento della condanna.
Un simile assunto risulta particolarmente penalizzante, soprattutto per i soggetti condannati per reati tributari. Più precisamente, la confisca c.d. “allargata” è stata estesa ai reati tributari soltanto nel 2019 e si applica alle condotte poste in essere dopo il 25 dicembre 2019 ma, alla luce della statuizione delle Sezioni Unite, la confisca potrà colpire anche quei beni entrati nel patrimonio dell’autore del reato in un’epoca antecedente. Una simile interpretazione, ad avviso di chi scrive, è in palese contrasto con le garanzie costituzionali poste a tutela dei soggetti sottoposti a procedimento penale, con particolare riferimento al principio di legalità che, invece, dovrebbe essere la stella cometa che guida sia il legislatore che l’interprete quando in gioco ci sono beni costituzionalmente rilevanti.
Non si dimentichi, infatti, che il diritto penale tributario costituisce un “settore” speciale del diritto penale,[33] e non del diritto tributario, pertanto, le fattispecie di reato previste dalla legge dei reati tributari non devono porsi in contrasto con i principi costituzionali sottesi alla libertà personale, la cui restrizione è presa in considerazione solo come extrema ratio e cioè soltanto in presenza della violazione di un bene, il quale, se pure non di pari grado rispetto al valore (libertà personale) sacrificato, sia almeno dotato di rilievo costituzionale[34], nonché quando gli altri strumenti dell’ordinamento giuridico – sanzione civile, amministrativa ecc. – appaiono insufficienti a tutelare un bene giuridico ritenuto meritevole di protezione dal legislatore che si muove nel quadro dei valori costituzionali[35].
4. Il regime sanzionatorio del reato de quo a seguito dell’estensione della responsabilità ex d.lgs. 231/2001 all’ambito penal-tributario
Al sorgere del nuovo decennio, si è assistito all’estensione della responsabilità delle persone giuridiche discendente da reato – ex d.lgs. n. 231 del 2001 – all’ambito del penale tributario. L’opera è iniziata con il D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 e completata con il d.lgs. 75/2020, entrato in vigore il 30 luglio 2020 a recepimento della direttiva europea 2017/1371, meglio conosciuta come PIF – relativa alla lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale – ma anche dietro la spinta di autorevole dottrina[36].
E appena il caso, in questa sede, di rammentare che per il perseguimento e la repressione delle “frodi comunitarie” è stata istituita – in ragione di una “cooperazione rafforzata” – con Regolamento (EU) 2017/1939 del 12 ottobre 2017 e diventata operativa il 1° giugno 2021, dopo un lungo e travagliato percorso, la Procura Europea (EPPO) acronimo inglese di European Public Prosecutor’s Office[37]. Sui rapporti tra normativa ex d.lgs. 231/2001 e procedimento tributario, in relazione ai problemi della duplicazione sanzionatoria e delle rispettive interferenze si tratterà appositamente in altra sede, non essendo questo l’oggetto dell’odierno approfondimento.
Ciò che invece rileva, almeno in questa sede, è capire come cambia il regime sanzionatorio dei reati tributari a seguito dell’estensione agli stessi della normativa “231”. Innanzitutto, però, occorre premettere che, in considerazione del fatto che la confisca per equivalente può aggredire solo i beni di cui il responsabile dell’illecito ha la disponibilità – in quanto la normativa precludeva la possibilità di applicare la misura sanzionatoria all’ente giuridico nel cui patrimonio è effettivamente reperibile il profitto del reato posto in essere – la “ratio” dell’estensione della disciplina “231” all’ambito penale tributario va ravvisata nell’esigenza di poter applicare la confisca per equivalente ai reati tributari - anche - nei casi in cui l’autore del reato (persona fisica) diverge dal contribuente (società) che incamera il profitto del reato fiscale. Sul punto, già da tempo, i Giudici di legittimità avevano segnalato le criticità derivanti dalla mancata previsione dei reati tributari nell’ambito del catalogo dei reati presupposto della responsabilità ex d.lgs. 231/2001.
In particolare, si fa riferimento a una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la quale il massimo consesso ha osservato che: “il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 231/2001, rischia di vanificare le esigenze d tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto l’art. 1, comma 143, L. n. 244/2007. Infatti, è possibile, attraverso l’intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all’ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato”[38].
Ciò premesso, l’estensione della responsabilità ex d.lgs. 231/2001 agli illeciti fiscali, come si anticipava, ha avuto inizio con il D.L. 124/2019, convertito il L. 157/2019, e si è completata con il d.lgs. 75/2020. Per quello che, almeno in questa sede, è di nostro interesse – ovvero come cambia il regime sanzionatorio del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, a seguito dell’ingresso dei reati fiscali nella “231” –, occorre approfondire le modifiche apportate dal primo intervento legislativo del 2019, che hanno interessato, tra gli altri, il delitto qui oggetto di approfondimento, mentre con il secondo intervento del 2020, si è inciso su altre fattispecie penali tributarie.
Ebbene, nello specifico, l’art. 25-quinquiesdecies d.lgs. 231/2001, a seguito della conversione del D.L. 124/2019 nella L. 157/2019, contemplava le seguenti fattispecie criminose con le relative sanzioni amministrative: art. 2 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti – fino a 500 quote, nel caso di importi uguali o superiori a 100 mila euro (art. 2, comma 1), e fino a 400 quote, in caso di importi inferiori a 100 mila euro (art. 2, comma 2 bis); art. 3 – Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici – fino a 500 quote; art. 8 – Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti – fino a 500 quote, nel caso di importi uguali o superiori a 100 mila euro (art. 8, comma 1), e fino a 400 quote, in caso di importi inferiori a 100 mila euro (art. 8, comma 2 bis); art. 10 – Occultamento o distruzione di documenti contabili – fino a 400 quote; art. 11 – Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte – fino a 400 quote. In termini pratici, considerato che l’importo di una quota varia dai 258 euro ai 1.549 euro, ne deriva che la sanzione pecuniaria irrogabile alle imprese, per i reati fiscali commessi dai legali rappresentanti a vantaggio e nell’interesse delle stesse, potrà arrivare fino a 774.500 euro per gli illeciti più gravi, e fino a 619.600 euro per gli illeciti meno gravi, oltre all’aumento di un terzo nel caso in cui l’ente abbia conseguito un profitto di rilevante entità. Inoltre, e questo – a parere di chi scrive – è l’aspetto più critico, sono state previste anche delle sanzioni interdittive a carico dell’ente, che sono; il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
A parere di chi scrive, le sanzioni interdittive appena menzionate risultano oltremodo fuori misura, in quanto comportano, in buona sostanza, la morte dell’impresa. Basti pensare alla società che abbia investito in maniera significativa sul piano di rilancio, ed abbia stipulato, prima della definizione del procedimento penale, diversi contratti con agenzie pubblicitarie per poi vedersi destinataria della misura interdittiva del divieto di pubblicizzare beni o servizi. La naturale conseguenza dell’applicazione di un simile regime sanzionatorio, in questi casi, non potrà essere diversa dalla “decapitazione” della società. In conclusione, può affermarsi che – se queste sono le “pene” – l’unica possibilità di salvezza per l’ente è l’adozione di un modello organizzativo (MOG) idoneo a prevenire la commissione di determinati fatti nonché l’istituzione di organismo di vigilanza efficiente, in modo tale da poter invocare l’esimente prevista dall’art. 26, comma 2, del d.lgs. n. 231 del 2001, a tenore del quale “l’ente non risponde quando volontariamente impedisce il compimento dell’azione o la realizzazione dell’eventi”.
5. La “struttura” del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte
Sotto il profilo strettamente strutturale, occorre sottolineare, preliminarmente, che il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte – previsto e punito dall’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000 – è volto alla tutela del corretto funzionamento della procedura di riscossione coattiva a favore dell’Erario. Va precisato, a tal proposito, che il bene giuridico tutelato dalla norma non va identificato – come sostenuto da parte della dottrina –[39] con il diritto di credito dell’Erario, bensì nella “garanzia” che i beni del contribuente-debitore non vengano sottratti alle pretese dell’Erario.
Pertanto, come sostiene autorevole giurisprudenza: “il reato di sottrazione fraudolenta può configurarsi anche nel caso in cui, in un momento successivo al compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta all’Erario”[40]. Ciò è esplicativo non solo con riferimento alla natura di reato di pericolo della fattispecie in oggetto, sulla quale si approfondirà di qui a breve, ma anche rispetto all’effettivo interesse tutelato dal reato tributario in oggetto.
Per quanto concerne, poi, il soggetto attivo del reato di sottrazione fraudolenta, occorre precisare che il delitto de quo – oggi sanzionato dall'art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000 – può essere commesso soltanto da chi sia stato già qualificato come debitore d’imposta, pertanto è un reato proprio e non un reato comune come indurrebbe a pensare il dettato letterale della norma che, nell’indicare i soggetti attivi del reato tributario, utilizza, in entrambi i due commi, la parola “chiunque”. Tornando alla natura del reato de quo, è interessante sottolineare l’intervento legislativo che ha determinato il mutamento del delitto di sottrazione fraudolenta da reato di danno a reato di pericolo concreto.
A tal proposito, va detto che – seppur la ratio ispiratrice della legge dei reati tributari si basava su fattispecie di danno ancorate alla presentazione delle dichiarazioni –, il delitto di cui all’ art. 11 d.lgs. n. 74/2000 è un reato di pericolo. Più precisamente è un reato di pericolo concreto, in quanto per la sua configurazione è richiesto che gli atti simulati o fraudolenti – dei cui elementi caratterizzanti si tratterà di qui a breve – siano posti in essere con il fine specifico di sottrarsi al pagamento delle imposte, che costituisce il concreto danno erariale. Ma non è stato sempre così, anzi, come si anticipava, il legislatore del 2000 ha operato un’inversione di rotta, in quanto, il delitto di sottrazione fraudolenta era già disciplinato dall’art. 97, comma 6, del D.P.R. n. 602 del 1973 e successivamente è stato riformato dalla Legge n. 413 del 1991.
Quest’ultima, in buona sostanza, poneva – come presupposto necessario per la punibilità del contribuente – che vi fosse stato l’inizio di accessi, ispezioni, verifiche o notifiche di atti. Dunque, con la riforma del 2000 il delitto di sottrazione fraudolenta ha smesso di essere un reato di danno per diventare reato di pericolo, con l’evidente conseguenza dell’aumento di probabilità di vedersi contestare il suddetto reato.
Si tratta di una differenza sostanziale, di non poco conto, tanto da modificare profondamente la fattispecie criminosa in oggetto. Sul punto, merita di essere menzionata una pronuncia della Corte di cassazione, la quale ha colto in pieno la portata della novella legislativa ed ha precisato che: “la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000, è diversa rispetto all’omologa fattispecie, oggi abrogata, di cui all’art. 97, comma 6, del D.P.R. n. 602 del 1973 (così come modificato dall’art. 15, comma 4, della L. n. 413/1991), in quanto – a fronte della identità sia dell’elemento soggettivo costituito dal fine di evasione ed integrante il dolo specifico, che della condotta materiale rappresentata dall’attività fraudolenta – la nuova fattispecie non richiede: 1) né che l’amministrazione tributaria abbia già compiuto un’attività di verifica, accertamento o iscrizione a ruolo; 2) né l’evento, ossia la sussistenza di una procedura di riscossione in atto e la effettiva vanificazione della riscossione tributaria coattiva”[41].
A questo aspetto si ricollega quello relativo al profitto del reato in oggetto, il quale, secondo un orientamento giurisprudenziale incontrastato in dottrina: “è rappresentato dal valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti della Amministrazione finanziaria per le imposte evase e non già dal debito tributario rimasto inadempiuto”[42]. Dunque, posto che il profitto del reato de quo è rappresentato dal valore dei beni idonei a fungere da garanzia alle pretese erariali e considerata la natura di reato di pericolo concreto della fattispecie tributaria in oggetto, ne discende, a parere di chi scrive, che una volta sottratto il valore del bene alienato simulatamente, il reato può sussistere esclusivamente nei casi in cui il patrimonio rimasto non fosse comunque sufficiente a garantire le pretese dell’Erario.
Per quanto concerne l’elemento soggettivo, ai fini della configurazione della fattispecie in oggetto è necessaria la sussistenza del dolo specifico, in quanto non è sufficiente che il soggetto agente sia consapevole di essere debitore dell’Erario – per una somma il cui ammontare sia superiore a cinquantamila euro – e intenda commettere, sui propri o su altri beni, atti simulati o fraudolenti, ma è necessario, altresì, che la condotta criminosa sia specificamente finalizzata ad ostacolare la procedura di riscossione coattiva a favore dell’Erario.
Ai fini della configurazione del reato, poi, la norma sancisce che siano superate due distinte soglie di punibilità riferite all’importo complessivo di imposte, interessi e sanzioni al cui pagamento il contribuente cerchi di sottrarsi: quella per l’ipotesi base, fissata in euro cinquantamila e, l’altra, per l’ipotesi aggravata, quantificata in euro duecentomila. In entrambi i casi il superamento della soglia – che è un elemento costitutivo del reato – deve formare oggetto di rappresentazione e volizione[43].
Infine, per quanto riguarda la consumazione e la prescrizione del reato, va detto che, con riferimento alla prima, il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte è un reato a consumazione “istantanea”, quindi si consuma nel momento in cui viene posta in essere la condotta di alienazione simulata o gli altri atti fraudolenti. Tuttavia, nel caso in cui gli atti simulati o fraudolenti siano plurimi e successivi, e quindi ci troviamo di fronte ad un reato permanente, il delitto si perfeziona nel momento in cui viene realizzato l’ultimo atto dispositivo. A tal proposito, merita di essere menzionata una pronuncia della cassazione con la quale gli ermellini hanno stabilito che: “il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte è reato di pericolo eventualmente permanente, la cui consumazione si protrae per tutto il tempo in cui vengono posti in essere atti idonei a mettere in pericolo l’adempimento dell’obbligazione tributaria”[44].
Con riferimento alla prescrizione, invece, occorre premettere che nel 2011 è stata introdotta una disciplina ad hoc nel d.lgs. 74/2000, in base alla quale i termini di prescrizione per alcune fattispecie criminose tributarie sono stati elevati di un terzo.
Tuttavia, il delitto previsto dall’art. 11 della legge dei reati tributari non rientra tra questi, per cui al delitto di sottrazione fraudolenta va applicata la disciplina generale prevista dall’art. 157 c.p. e quindi la prescrizione dopo sei anni, che possono diventare sette anni e mezzo per effetto di un evento interruttivo, più eventuali sospensioni dei termini di prescrizione tra il primo e il secondo grado di giudizio, sempreché i fatti siano stati commessi in epoca successiva all’entrata in vigore della riforma Orlando nel 2017. Ciò premesso, a parere di chi scrive, le maggiori perplessità emergono con riferimento alla condotta – effettivamente – rilevante ai fini della configurazione del delitto di sottrazione fraudolenta.
Ebbene, la norma di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000 fa riferimento a due tipi di condotte: “l’alienazione simulata” ed il compimento di “altri atti fraudolenti” sui propri o su altrui beni. Della natura che – necessariamente - deve connotare gli atti posti in essere dal contribuente-debitore affinché si configuri il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – anche alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità -, nonché degli elementi dai quali desumere che una vendita-alienazione è “simulata” e degli atti che possono essere considerati “fraudolenti”, ne tratteremo in maniera complessiva di qui a breve.
Ciò che interessa, almeno in questa sede, è mettere in risalto una evidente ambiguità della definizione normativa della condotta, rispetto non già alla mancata definizione di “azione simulata” o “atto fraudolento”, bensì con riferimento alla parte in cui la norma – art. 11 d.lgs. 74/2000 – sancisce che, ai fini della configurazione del reato, gli atti posti in essere devono essere idonei a rendere in tutto o “in parte” inefficace la procedura di riscossione. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, in una recente pronuncia ha stabilito che: “Integra il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, una diminuzione, anche non totale, della garanzia patrimoniale generica offerta dal patrimonio del debitore fiscale”[45].
Ebbene, a parere di chi scrive, una simile previsione normativa – peraltro condivisa anche dai giudici della cassazione – appare ampiamente criticabile sotto il profilo della non sufficiente determinatezza della norma, in quanto la stessa non specifica, ai fini della configurazione del reato, quanta parte – con riferimento ai beni propri del contribuente o altrui – debba essere oggetto di alienazione simulata o fraudolentemente distratta affinché il contribuente possa essere chiamato a rispondere del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, con l’evidente contrasto con i principi cardini del diritto penale e, quindi, del diritto penale-tributario che ne è specificazione.
Infine, è appena il caso di evidenziare, per quello che ci occupa in questa sede, che l’eventuale successivo venir meno del debito nei confronti dell’Erario non ha alcuna efficacia esimente. Occorre rammentare, a tal riguardo, una recente pronuncia del Giudice di legittimità la quale ha stabilito che: “la rilevanza penale del fatto è da valutarsi al momento della consumazione, a nulla rilevando i successivi eventi estintivi dell’obbligazione tributaria”[46].
Tuttavia, però, potrà applicarsi l’art. 13 bis del d.lgs. n. 74 del 2000 a tenore del quale, al di furori dei casi di non punibilità, le pene per i delitti previsti dal medesimo decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’art. 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, siano stati estinti mediante l’integrale pagamento degli importi dovuti all’Erario. A parere di chi scrive, la previsione dell’art. 13 bis, d.lgs. 74/2000, è illuminante rispetto all’effettiva finalità perseguita dal legislatore del 2000 attraverso la legge dei delitti in materia tributaria.
6. La natura degli atti posti in essere ai fini della configurazione del reato ex art. 11 d.lgs. 74/2000 – alla luce delle Sezioni Unite 12213/18
Come si anticipava in sede di approfondimento della struttura del reato in oggetto, la condotta rilevante ai fini della configurazione del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, cristallizzata nell’art. 11, d.lgs. 74/2000, consiste nell’ “alienare simulatamente” o nel compiere “altri atti fraudolenti” sui propri o altrui beni idonei a rendere – in tutto o in parte – inefficace la procedura di riscossione coattiva[47].
Ebbene, prima di passare alla disamina dettagliata delle due condotte rilevanti ai fini dell’integrazione della fattispecie tributaria de quo appare opportuno, a parere di chi scrive, fare alcune precisazioni relativamente ad alcuni aspetti peculiari della stessa: in primis, occorre precisare che il giudizio di idoneità degli atti posti in essere ha ad oggetto la capacità degli stessi di ostacolare[48] l’azione recuperatoria a vantaggio dell’Erario, e deve essere formulato attraverso una valutazione ex ante basata sulla situazione e sulle conoscenze del contribuente nel momento in cui ha posto in essere la condotta incriminata.
In secondo luogo, va sottolineato che il delitto tributario della sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è configurabile quando la condotta penalmente sanzionata (simulazione o attività fraudolenta) sia finalizzata a sottrarsi al pagamento di debiti “diversi da quelli relativi alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto o ad interessi o sanzioni relativi a dette imposte”[49].
Inoltre, dal portato letterale della norma si evince chiaramente che la condotta rilevante è solo commissiva, pertanto, dovrebbe escludersi che la fattispecie tributaria di cui trattasi possa configurarsi nei casi di condotta omissiva, che si concretizza nella mancata conservazione del proprio patrimonio in modo tale da provocarne una riduzione totale o parziale idonea a rendere impossibile, o quantomeno più difficoltoso, il recupero da parte dell’Erario.
Sempre con riferimento alla condotta rilevante appare, altresì, opportuno – in questa sede – rammentare che, in base all’ultima modifica apportata alla norma[50], la condotta costituente il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte può essere posta alla base dell’ulteriore contestazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ex art. 216, comma 1, n.1 della legge fallimentare, con evidente dispregio del principio del né bis in idem, come sovente si verifica tra reati tributari-societari-fallimentari che sono accomunati da aspetti che spesso tendono a collidere.
Tuttavia, a tal riguardo, appare condivisibile un orientamento giurisprudenziale[51] secondo il quale il delitto tributario di sottrazione fraudolenta e quello fallimentare di bancarotta fraudolenta non sempre concorrono ma, il primo resta assorbito nel secondo più grave, quando – in ossequio al principio di specialità ex art. 15 c.p. – le condotte di distrazione, occultamento, distruzione, dissipazione sono comprensive delle condotte di simulazione o integranti gli atti fraudolenti ex art. 11. della legge dei reati tributari. Ciò premesso, occorre, ora, porgere l’attenzione sull’aspetto peculiare, nonché il fulcrum dell’approfondimento de quo, relativo alla natura che – necessariamente - deve connotare gli atti posti in essere dal contribuente-debitore affinché questi possa essere chiamato a rispondere del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.
Ebbene, per quanto riguarda la prima condotta rilevante – ex art. 11, d.lgs. 74/2000 – non si riscontrano particolari problematiche interpretative, in quanto la stessa può essere definita come “negozio caratterizzato da una preordinata divergenza tra la volontà dichiarata e quella reale, ovverosia allorquando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) alla effettiva volontà dei contraenti”[52].
Più precisamente, in ossequio al principio di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale, deve trattarsi di alienazione “simulata” intendendosi, per tale, ogni transazione, avente ad oggetto i beni del contribuente, diretta ad offrire la falsa rappresentazione che lo stesso se ne sia spogliato quando, invece, essi restano comunque sotto la sua signoria. In chiave difensiva, un elemento significativo per sostenere – nel processo – l’insussistenza della natura “fittizia” della cessione è rappresentato non solo dalla prova della vendita, intendendosi, per tale, la produzione documentale dei pagamenti effettuati in ragione della transazione, ma, soprattutto, dal prezzo della vendita, il quale, se giudicato congruo rispetto ai prezzi di mercato, consente di escludere l’ipotesi di vendita simulata. In conclusione, ove il trasferimento sia effettivo la relativa condotta di alienazione non può essere considerata alla stregua di un atto simulato ma deve essere valutata esclusivamente quale “possibile atto fraudolento”[53].
Ebbene, a tal riguardo, occorre precisare che per “atto fraudolento” si intende qualsiasi condotta connotata da una finalità di frode, intendendosi, per tale, ogni comportamento contrassegnato dall’inganno o dal raggiro che, almeno nella fattispecie che ci occupa, tenda di trarre in inganno l’Amministrazione finanziaria. Appare evidente, dunque, che la definizione di atti fraudolenti, così come formulata, oltre ad essere eccessivamente vaga – in quanto non specifica quali sono gli atti fraudolenti ma fa riferimento a “qualsiasi atto” che abbia una finalità di frode – non chiarisce nemmeno quali siano gli elementi “indicativi” dai quali desumere la natura fraudolenta degli atti che, di volta in volta, devono essere valutati al fine di attribuire rilevanza penale alla condotta del contribuente-debitore. Insufficienti, a dir poco, si sono mostrati i tentativi di una prima giurisprudenza[54] che, fin da subito, ha cercato di delimitarne i margini di applicazione senza ottenere, tuttavia, risultati importanti con il conseguente sorgere di non pochi dubbi di conformità della disposizione in oggetto con i principi cardini del diritto penale[55].
Occorre specificare, innanzitutto, che la definizione di “atti” fraudolenti non può coincidere con quella di “mezzi” fraudolenti. A tal riguardo, occorre rammentare che, secondo un orientamento giurisprudenziale, per mezzo fraudolento – con riferimento al reato di turbata libertà degli incanti – deve intendersi “qualsiasi artificio, inganno o menzogna concretamente idoneo a conseguire l’evento del reato”[56].
Tuttavia, con specifico riguardo al settore penale tributario, soltanto recentemente – con il D.lgs. n. 158 del 2015 – il legislatore è intervenuto per dare una definizione di “mezzi fraudolenti” mediante l’aggiunta, all’art. 1 del D.lgs. 74/2000, della lettera g-ter in base alla quale devono intendersi per mezzi fraudolenti le condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà.
Appare evidente, dunque, che l’elemento differenziale tra i “mezzi” e gli “atti” fraudolenti sia da rinvenire, in primo luogo, nel fatto che i primi consistono in condotte che possono essere sia attive che omissive, mentre i secondi – a prescindere dalla definizione che ne sarà data – possono essere solamente commissivi.
Nella sostanza, poi, la condotta artificiosa consiste in operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, mentre l’atto fraudolento potrebbe consistere anche in operazioni reali, purché connotate dalla finalità di frode. Rispetto alla definizione di atti fraudolenti, la giurisprudenza di legittimità è intervenuta più volte cercando di definirne i contorni applicativi. Si è sostenuto, infatti, che per atto fraudolento debba intendersi “ogni comportamento che, formalmente lecito, sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno”[57] e, ancora, che è tale “ogni atto che sia idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero e qualunque stratagemma artificioso tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali alla riscossione”[58].
A ben vedere, nessuna di queste definizioni sembra veramente esaustiva rispetto alla previsione di elementi concreti mediante i quali sia possibile identificare un atto come fraudolento, anzi, a parere di chi scrive, dalla lettura di alcune delle pronunce sopra menzionate emergerebbe, in alcuni casi, l’elaborazione di una definizione di “atto fraudolento” perfettamente sovrapponibile a quella di “alienazione simulata”.
Un simile approccio interpretativo risulterebbe – oltre che irrazionale dal punto di vista logico-giuridico – sotto l’aspetto della condotta incriminata meramente ripetitivo, in quanto si prevedono – astrattamente – due diverse condotte idonee ad integrare la fattispecie criminosa in oggetto, ma, nel concreto, queste finiscono per punire la medesima condotta che sarà alternativamente contestata quale alienazione simulata o come atto fraudolento[59]. Con la conseguenza, inoltre, che ogni qual volta venga meno l’ipotesi di natura fittizia o simulata della vendita/alienazione posta in essere dal contribuente-debitore non potrebbe, la medesima condotta, essere vagliata quale possibile atto fraudolento in quanto le due definizioni finirebbero per coincidere e dunque l’esclusione di una comporterebbe – in concreto – l’esclusione anche dell’altra.
Sul punto, considerato il vuoto normativo e riscontrata la mancanza di pronunce giurisprudenziali dalle quali poter attingere – con specifico riguardo al delitto tributario di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000 – una definizione chiara di “atti fraudolenti” o, quantomeno, l’indicazione di specifici elementi dai quali desumere la fraudolenza degli atti posti in essere dal contribuente-debitore, risulta rilevante, a tal riguardo, una pronuncia – piuttosto recente – della Suprema Corte di cassazione a Sezioni Unite, la quale, investita dalla sesta sezione penale per dirimere il contrasto insorto in giurisprudenza in relazione alla questione: “se il sostituto processuale del procuratore speciale di parte civile sia legittimato o meno a costituirsi parte civile nel processo penale in forza di delega espressamente prevista nella procura speciale” ha, altresì, deciso se nel caso sottopostogli gli atti posti in essere dall’imputato del delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, ex art. 388 c.p., fossero o meno connotati dalla natura fraudolenta richiesta dalla norma.
Stabilendo, così, la caratteristica che “necessariamente” deve connotare gli atti posti in essere – tanto nel delitto di cui all’art. 388 c.p. quanto nella fattispecie tributaria ex art. 11, d.lgs. 74 del 2000 – affinché gli stessi possano essere definiti come “fraudolenti”. Ebbene, le Sezioni Unite[60], della Suprema Corte di cassazione, hanno stabilito che: “al fine di colorare di illiceità penale la condotta dell’imputato, non è sufficiente che gli atti siano oggettivamente finalizzati a consentire al loro autore di sottrarsi agli adempimenti indicati, ma è necessario che gli stessi si caratterizzino altresì per la loro natura simulatoria o fraudolenta. Una lettura della norma che facesse coincidere, per quanto riguarda la natura fraudolenta, tale requisito con la semplice idoneità dell’atto alla sottrazione dell’adempimento di legge si profilerebbe in contrasto con il principio di legalità”. Pertanto – continuano gli ermellini – aderendo a tale chiave interpretativa, è dunque indispensabile: “che l’atto si qualifichi per un “quid pluris” rispetto alla idoneità a rendere inefficaci gli obblighi nascenti dal provvedimento giudiziario, tanto più in quanto solo così potrebbe giungersi, in un’ottica improntata al principio di offensività, a differenziare una condotta solo civilmente illecita (e passibile, nel concorso degli ulteriori requisiti, di azione revocatoria) da una condotta connotata da disvalore penalmente rilevante”. Nel caso di specie, la Suprema Corte di cassazione riteneva l’insussistenza degli elementi costitutivi del reato, in quanto, a nessuno degli atti – di disposizione del patrimonio – posti in essere dall’imputato poteva essere attribuita la natura “fraudolenta” – in mancanza di quel quid pluris che li caratterizzasse come tali – sul “solo” presupposto “dell’idoneità degli stessi a mettere in discussione la possibilità di recupero del credito da parte dell’Erario”. Inoltre, sottolineano gli ermellini, nel caso di specie, il prezzo delle singole alienazioni non risulta inadeguato o sproporzionato rispetto al prezzo di mercato, pertanto, quest’ultimo, non può ritenersi idoneo a provare il carattere fraudolento delle operazioni di alienazione poste in essere dall’imputato.
7. Conclusioni in prospettiva “de jure condendo”
L’analisi fin qui svolta ha perseguito l’obiettivo di approfondire – senza alcuna pretesa di completezza – la fattispecie criminosa della sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte specificando, in primo luogo, quello che è il contesto normativo in cui è incluso il delitto ex art. 11 d.lgs. 74/2000; in secondo luogo, le peculiarità strutturali della fattispecie tributaria qui oggetto di approfondimento; ed infine, la soluzione offerta dalla Corte di cassazione, con una recente pronuncia delle Sezioni Unite, rispetto a quella che è la natura che – necessariamente – deve connotare gli atti posti in essere dal contribuente-debitore affinché agli stessi possa attribuirsi la fraudolenza richiesta dalla norma.
Nonostante l’intervento delle Sezioni Unite, a parere di chi scrive, residuano ancora alcune perplessità attorno alla definizione di atti fraudolenti – rilevanti ai fini della configurazione del delitto ex art. 11 d.lgs. 74/2000 – nonché rispetto ad alcune tematiche che riguardano non solo il delitto de quo bensì l’intero sistema penale tributario e sulle quali anche l’ultimo legislatore[61] si è mostrato cieco.
A ben vedere, la definizione di atti fraudolenti enucleata dal Giudice di Legittimità nel suo massimo consesso, non appare “sufficiente” a risolvere la vexata quaestio relativa alla necessità di circoscrivere – in maniera chiara e netta – il campo del penalmente rilevante con riferimento al reato oggetto di approfondimento.
Più precisamente, dal dettato letterale della pronuncia si evince ictu oculi la centralità e/o la rilevanza che le Sezioni Unite hanno riconosciuto – al fine di attribuire la natura fraudolenta agli atti posti in essere – alla capacità degli atti di ledere o porre in pericolo il bene tutelato dalla norma attraverso il chiaro richiamo ad un principio cardine del diritto penale, ovvero il principio di offensività.
Ebbene, a parere di chi scrive, una definizione che àncora la fraudolenza alla sussistenza di un quid pluris finalizzato a sottrarsi alle pretese erariali, seppur astrattamente idonea a restringere il campo degli atti fraudolenti, in concreto, però, non appare idonea ad escludere dal novero dei possibili atti fraudolenti quelle condotte che – seppur idonee a consentire al soggetto agente di sottrarsi agli adempimenti dovuti – sono il risultato del legittimo esercizio del diritto di proprietà, ancorché perseguito mediante più azioni.
Le problematiche che si aggirano attorno alla fattispecie delittuosa della sottrazione fraudolenta non sono poche, e se da un lato si auspica l’intervento del legislatore affinché siano tipizzate le condotte che possono essere qualificate come atti fraudolenti, dall’altro si ricorda – con rammarico – l’ultima modifica legislativa[62] che ha riguardato l’art. 11 D.lgs. 74/2000 la quale, anziché ricercare le possibili soluzioni definitorie atte a limitare il novero dei possibili atti fraudolenti, alle problematiche già esistenti[63] ne ha aggiunte altre nuove che, ben presto, hanno trovato conferma anche in alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità che ne hanno ben definito i contorni.
Tra queste, merita di essere menzionata una in particolare la quale ha stabilito che tra il delitto di sottrazione fraudolenta e quello di bancarotta fraudolenta può esservi concorso formale, in quanto: “la fattispecie fiscale è preposta a sanzionare condotte che pregiudichino l’interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, quella fallimentare l’interesse del ceto creditorio di massa al soddisfacimento dei propri singoli diritti”[64].
A parere di chi scrive, i punti dolenti della fattispecie in oggetto sono principalmente due: l’indeterminatezza del concetto di atti fraudolenti, il quale, nonostante il quid pluris richiesto dalle recenti Sezioni Unite, non appare idoneo a consentire di prevedere anticipatamente quali sono le condotte che possono essere colorate di illiceità penale perché fraudolente, né tantomeno a distinguere da queste quelle legittime; e il fatto che per il superamento delle soglie di punibilità vanno presi in considerazione anche gli interessi, i relativi accessori e, soprattutto, le sanzioni amministrative che, come noto, sono applicate discrezionalmente tra un minimo e un massimo con l’evidente pregiudizio, nonché la disparità di trattamento, per coloro che vengano raggiunti da sanzioni amministrative applicate nel massimo a differenza di chi, invece, pur trovandosi nella stessa situazione, si è visto destinatario di un sanzione più contenuta che gli ha consentito di mantenersi al di sotto della soglia di punibilità.
Dunque, l’intervento legislativo risulta necessario e – a parere di chi scrive – dovrà avere il fine precipuo di fare chiarezza, una volta per tutte, sull’effettiva portata della norma di cui all’art. 11 della legge dei reati tributari, in modo tale da evitare eventuali letture estensive che facciano rientrare tra gli atti fraudolenti anche quelle condotte figlie del legittimo esercizio del diritto di proprietà; ed inoltre, dovrà mirare a modifica il dettato letterale della norma in commento, nel senso che nel calcolo finalizzato a verificare se sia stata o meno superata la soglia di punibilità dovrà essere preso in considerazione solo l’effettivo debito tributario, senza sanzioni amministrative, interessi e relativi accessori.
[1] Si fa riferimento alla legge c.d. “pregiudiziale tributaria”, la quale aveva come scopo primario quello di evitare che nell’ordinamento vi fossero due giudicati in contrasto tra di loro. Sotto la vigenza di questa legge, il processo penale iniziava soltanto dopo che fosse stata emessa una sanzione tributaria – a seguito di un processo tributario che avesse accertato una condotta non corretta sotto il punto di vista fiscale – pertanto, considerata la spada di damocle rappresentata dalla prescrizione del reato, nella maggior parte dei casi il processo penale si concludeva sul nascere;
[2] Anche se, nella realtà, nelle aule giudiziarie non capita raramente che l’organo giudicante, in sede penale, chieda al difensore quale sia stato l’esito del procedimento in sede tributaria. Palesando, in questo modo, a parere di chi scrive, una chiara influenza, se non già ingerenza, del diritto tributario nel diritto penale tributario;
[3] Per queste ragioni, la L. 516/82 veniva amaramente definita anche come la legge “manette agli evasori”;
[4] Cfr. D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[5] Con il termine operazione si fa riferimento a tutti i rapporti aventi contenuto economico e che sono rilevanti per la determinazione delle imposte. A sostegno della suddivisione delle categorie di operazione, si rammenta, tra le altre, la recente pronuncia con la quale la Corte di cassazione, con la sentenza n. 13747/2018, ha sostenuto che il primo delitto in materia di dichiarazione, ex art. 2 della legge dei reati tributari, sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, ovvero quando la stessa nella realtà non è mai stata posta in essere; sia quando l’inesistenza è solo relativa, e cioè quando l’operazione è stata realmente posta in essere ma per un quantitativo inferiore a quello indicato in fattura; sia nel caso di sovrafatturazione “qualitativa” e cioè quando la fattura attesti la cessione di beni per un prezzo maggiore di quello fornito.
[6] Cfr. art. 2, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[7] Cfr. art. 3, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[8] I delitti tributari di cui agli art. 2 e 3 del D.lgs. 74/2000 destano particolare allarme sociale perché, per la configurazione degli stessi, la dichiarazione oggetto del delitto non solo non corrisponde al vero, ma risulta, altresì, artefatta con ingegno, in quanto la stessa è supportata da una base documentale i cui contenuti sono idonei a sviare, l’attività di accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria, o comunque a modificare i dati contenuti in dichiarazione. Il legislatore, pertanto, ha differenziato la sanzione in base al grado di fraudolenza, ovvero, a seconda che la condotta del contribuente si realizzi con strumenti fraudolenti ovvero si riduca ad una mera indicazione mendace.
[9] Cfr. Cass. Pen., n. 6105 del 15.2.2016, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it la quale ha stabilito che: “la soglia di punibilità rientra tra gli elementi costitutivi del reato e non tra le condizioni obiettive di punibilità”;
[10] Cfr. art. 4, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[11] Cfr. art. 5, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[12] Si veda, sul punto, senza alcuna pretesa di completezza, R. BRICHETTI, Dichiarazione omessa e infedele: la fattispecie a condotta monofasica, in Il Fisco, 2001, p. 7068.
[13] Sez. III°, n. 12680 del 19/03/2020, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it ;
[14] Cfr. art. 8, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[15] Si veda, sul punto, senza alcuna pretesa di completezza, Giuseppe Melis, Manuale di diritto tributario, pag. 509;
[16] Cfr. art. 10, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[17] Sez. III°, n. 39322 del 25/09/2019, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it ;
[18] Cfr. art. 10 bis, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[19] Sez. III°, n. 10084/2020, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it ;
[20] Si veda, sul punto G.V. De Francesco, La proporzione, cit. 230 ss.; Padovani, Invasione di edificio, cit. 431 ss.;
[21] Cfr. art. 10-ter, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[22] Inoltre, in dottrina si è formato un orientamento secondo il quale è ammissibile, nel reato di omesso versamento IVA, il concorso dell’extraneus che, all’insaputa dell’intraneus non adempia – si veda, in proposito, senza alcuna pretesa di completezza, A. MARTINI, op. cit., p. 607;
[23] Cfr. art. 10-quater, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[24] Sezione III, n. 5934 del 12/09/2018, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[25] Cfr. art. 11, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, entrato in vigore il 15 aprile 2000, in def.finanze.it;
[26] Cfr. art. 53, comma I, costituzione della Repubblica Italiana;
[27] Sez. 3, n. 28488 del 10.09.20 – sent. D’Angela in Riv. 280014;
[28] Cassazione Penale, Sent. n. 9355 del 9.03.2021, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[29] Cass. Pen., n. 29533 del 8.7.2019, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[30] Cass. Pen., n. 14766 del 26.2.2020, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[31] Cfr. ordinanza n. 31209/2020 della I sez. penale, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[32] Cfr. la decisione delle sezioni unite sui limiti temporali della confisca allargata disposta in fase esecutiva (informazione provvisoria) in Sistema Penale del 26 febbraio 2021;
[33] A. Lanzi – P. Aldrovandi, “Diritto Penale Tributario”, CEDAM, 2014, pag. 2 e 3;
[34] F. Bricola, “Teoria generale del reato”, Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, pag. 15;
[35]Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, cit., 463 e ss., Demuro, ultima ratio: alla ricerca di limiti all’espansione del diritto penale, 2013, cit., 89 e ss.;
[36] G.L. Gatta, “I profili di responsabilità penale nell’esercizio della corporate tax governance”, in Dir. pen. cont., 4 giugno 2018, p. 5;
[37] Si veda, sull’origine della Procura europea, A BERNARDI, Note telegrafiche su genesi, evoluzione e prospettive future della Procura europea, 2021, f. 11, p. 23;
[38] Sezioni Unite, n. 10561 del 5.3.2014 (Gubert), Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[39] Come, invece, sostiene P. ALDROVANDI, in AA.VV., Diritto e procedura penale tributaria, cit., p. 355 ritiene che il bene giuridico tutelato sia rappresentato dal corretto funzionamento della procedura di riscossione coattiva, con la conseguenza di considerare la fattispecie in commento come reato di danno.
[40] Sez. III°, n. 36290 del 18.5.2011, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it ;
[41] Cass. Pen., Sez. III°, n. 36290 del 18.5.2011, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[42] Cass. Pen., Sez. V°, n. 32018 del 14.3.2019, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[43] Secondo certa dottrina si tratterebbe di condizione obiettiva di punibilità e, in quanto tale, esterna alla struttura del reato e, quindi, anche al dolo, cfr. G. PAPPA, Il sistema sanzionatorio penale nella fase della riscossione delle imposte: il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in Fisco, 2004, p.4431;
[44] Cass. Pen., n. 37415 del 25.6.2012, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[45] Cass. Pen., n. 6798 del 16.12.2015, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[46] Cass. Pen., n. 30497 del 2016, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[47] Si considera rilevante qualsiasi riduzione patrimoniale, più precisamente: “riduzione da ritenersi, con giudizio ex ante, idonea, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, a vanificare in tutto o in parte, o comunque rendere più difficile una eventuale procedura esecutiva” (Cfr. Cass. Pen., n. 36378/2015, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it);
[48] Si è sostenuto in giurisprudenza che anche in caso di alienazione simulata - assoggettabile ad azione revocatoria -, possa configurarsi il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in quanto, è sufficiente che la capacità di recupero da parte dell’Erario sia anche solo ostacolata o rallentata (ex multis, Sez. III°, n. 39162/2014 Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[49] Cass. Pen., n. 37389 del 16.5.2013, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[50] Si fa riferimento, più precisamente, al D.L. 31 maggio del 2010, n. 78 convertito in L. 30 luglio del 2010, n. 122 che ha modificato la disposizione normativa dell’art. 11 del D.lgs. n. 74 del 2000, eliminando, la clausola di salvezza “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Con la conseguenza che il delitto tributario di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte può, ora, configurarsi anche nei casi in cui la medesima condotta (il fatto fraudolento) fosse stata riconducibile nell’alveo di un delitto fallimentare e più grave, come la bancarotta fraudolenta patrimoniale.
[51] Cass. Pen., n. 42156 del 29.9.2011, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[52] Sez. III°, n. 3011 del 5.7.2016, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[53] Cass . Pen., n. 3011/2017, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[54] Si fa riferimento, nello specifico, alla sentenza della terza sezione penale, n. 15449 del 15 aprile 2015 (Cfr. Sentenze Web su www.cortedicassazione.it) con la quale i Giudici della cassazione hanno stabilito che: “il carattere fraudolento è da intendersi come comportamento che, sebbene formalmente lecito come peraltro è l’alienazione di un bene, sia però caratterizzato da una componente di artificio o di inganno”;
[55] Ci si riferisce, in particolare, al principio di tassatività e sufficiente determinatezza della fattispecie penale – Si veda, in argomento, Visconti, Determinatezza della fattispecie e bilanciamento degli interessi, in Foro it., 1995, I, cit. 2773 ss.; Palazzo, il principio di determinatezza, cit., 171 ss.; Zanotti, principio di determinatezza e tassatività, in Aa. Vv., Introduzione al sistema penale, cit., 135 ss.; si veda, altresì, Ronco, il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979;
[56] Sez. VI, n. 26809 del 7.4.2011, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[57] Sez. III, n. 25677 del 16.5.2012, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[58] Sez. III, n. 3011 del 5.7.2016, Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[59] In tal senso, si veda G. Gambogi, Diritto penale d’impresa, Giuffrè, 2018, p. 456 ss.
[60] Cfr. Sezioni Unite, n. 12213 del 2018, pag. 15, punto n. 8.2 cpv., Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;
[61] Ci si riferisce, in particolare, alla eccessiva genericità non solo della norma di cui all’art. 11, d.lgs. 74/2000, ma anche delle altre fattispecie di reato previste e punite dalla legge dei reati tributari. Tali problematiche avrebbero dovuto sollecitare l’intervento del legislatore – in occasione della revisione del sistema penale tributario attuata con il D.lgs. 158/2015 – per porvi rimedio;
[62] Si fa riferimento al D.L. n. 78 del 2010, il quale ha espulso dal portato letterale del testo originario dell’art. 11, D.lgs. 74/2000 la clausola “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, la quale era stata prevista proprio con lo scopo di evitare indesiderati cumuli con il delitto di bancarotta fraudolenta;
[63] Tra le altre, quella della configurabilità del delitto di riciclaggio e di auto-riciclaggio in relazione al profitto del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte;
[64] Si veda, ex multis, Sez. III, n. 3539/2016 Sentenze Web su www.cortedicassazione.it;