Responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche
Modifica paginaNatura giuridica, costituzione di parte civile, confisca e nozione di profitto
1) Evoluzione storica
Nel diritto romano il principio “societas delinquere et puniri potest” escludeva, in modo incontrovertibile, una “responsabilità penale” in capo alle persone giuridiche. Infatti, nonostante vi fosse la presenza di soggetti ai quali era riconosciuta una capacità di diritto privato (come, ad esempio i c.d. municipia), al contempo agli stessi non si riconosceva una responsabilità di tipo penale[1], secondo l’antico brocardo: “quid enim municipes dolo facere possunt?” (Digesto – De dolo malo)
Una prima evoluzione è riscontrabile nel diritto comune, laddove gli statuti comunali dei secoli XIV e XV individuavano e reprimevano condotte penalmente rilevanti in capo ai comuni[2], ad esempio nel caso in cui questi non impiegavano la moneta comunale, oppure facevano uso di “misure” non approvate, oppure impedivano ai cittadini la coltivazione delle terre e il vettovagliamento della citta, ecc. Dunque, è possibile affermare che vigeva il principio opposto secondo cui universitas delinquere et puniri potest. Le pene previste erano di natura pecuniaria e sottrazione di privilegi e confische[3].
“poiché senza dolo né colpa (...) non possono esservi delitti, ne discende necessariamente che possono commettere delitti coloro che sono capaci di entrambi. Il che si deve affermare anche delle universitas, dei collegi e di qualunque corporazione. Poiché infatti codeste entità costituiscono una persona morale, si ritiene che delinquono per dolo o colpa i membri dei quali essi constano. Secondo la dottrina ciò non accade in un solo modo. Infatti talvolta qualche ordo civitatis, che ne costituisce una parte illustre e precipua, viene meno ai suoi doveri; talvolta i cittadini in universum vengono coinvolti nel crimine. Nel primo caso il crimine coinvolge solo quelli che sono di tale ordine, ceto, collegio, per esempio i decurioni; nell'altro caso l'intera città è ritenuta responsabile del crimine” (Elementa juris criminalis 1837).
La legislazione moderna, come è noto, ha subito la forte influenza dell’impianto ideologico derivante dall’illuminismo che poneva al centro della sua attenzione le azioni umani e la volontà degli individui. Dunque, ritornava con un’accezione ancor più amplificata una visione antropomorfica ed antropocentrica del diritto penale[4]. Secondo tale prospettiva solo l’uomo viene considerato possibile destinatario di un precetto o di un divieto, pertanto, solo rispetto alla persona fisica si è reputato prospettabile una responsabilità penale.
Da un punto di vista comparatistico, ed in particolare gli ordinamenti common law e quello americano, raccontano una storia diversa. Essi infatti, volti ad una visione pragmatica del diritto, non hanno avuto particolari difficoltà nell’inquadrare una responsabilità di tipo penale in capo alle persone giuridiche e alla c.d. corporations e alle grandi imprese[5].
Ciò è stato reso possibile attraverso la costruzione di un concetto di autonoma colpa delle persone giuridiche che si fondava su un difetto di organizzazione in capo ai medesimi; ovvero, sul fatto che gli stessi non hanno saputo o voluto porre delle regole in grado di dare un’adeguata prevenzione degli illeciti.
Tale impostazione ha avuto una rilevante applicazione soprattutto in tema di reati ambientali e in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. L’evento illecito veniva attribuito all’ente attraverso una struttura imputativa che ricorda, molto da vicino, quella delle condotte omissive e della colpa di non aver impedito l’evento non voluto dalla norma.
La Suprema Corte già nelle sue prime pronunce affermava: “Se la legge deve avere riguardo per i diritti di tutti, e per quelli delle corporations non meno per quelli dei singoli, non può chiudere gli occhi sul fatto che la grande maggioranza delle transazioni economiche nei tempi moderni sono compiute a mezzo di queste entità (...). Accordare loro l'immunità da ogni pena, nelle attuali condizioni, a causa della vecchia e superata dottrina secondo cui una corporation non può commettere un reato, comporterebbe virtualmente l'eliminazione dei soli mezzi per un controllo effettivo di questo tipo di criminalità e per la correzione degli abusi accertati”.
Nell’ordinamento anglosassone si è parlato di “colpevolezza aggregata”, con la quale di imputava il reato alla persona giuridica attraverso somma delle colpevolezze dei singoli soggetti che concorrono all’organizzazione, e di “colpevolezza d’impresa”, quale autonoma fonte di responsabilità per la corporations rinvenibile nel difetto di controllo e nella mancata organizzazione preventiva[6].
2) Il dibattito anteriore al d.lgs. n. 231/2001 e il rapporto tra l’art. 27 Cost. e il principio societas delinquere non potest.
Anteriormente al d.lgs. n. 231/2001, si riteneva che non potesse sussistere una responsabilità di tipo penale in capo a soggetti diversi dalle persone fisiche, per tali motivi:
- Art. 27 Cost. e consacrazione della natura personale della responsabilità penale.
In base a tale principio è necessario che sussista un coefficiente di partecipazione psichica in capo al soggetto autore del reato, che non sarebbe ipotizzabile in capo alla persona giuridica[7].
- Rischio di configurare una responsabilità per fatto del terzo.
Si afferma che, nell’ipotesi in cui si giungesse a punire l’ente per un reato commesso dalla persona fisica, anche se aveva come fine l’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo, in tal modo si punirebbero anche tutte quelle persone fisiche (lavoratori presso la persona giuridica, ecc.) che, pur non avendo realizzato il fatto di reato, tuttavia ne subirebbero le conseguenze negative derivanti dall’applicazione delle sanzioni in capo alla persona giuridica[8].
- Applicazione dell’art. 197 c.p.
La norma in questione prevede un’obbligazione di garanzia di tipo sussidiaria in capo alla persona giuridica, rispetto alla persona che ha commesso il fatto di reato. Da ciò ne discenderebbe che il Legislatore avrebbe, implicitamente, espresso la propria preferenza per l’irresponsabilità penale dell’ente e, comunque, l’ordinamento prevede in tal modo una chiamata in responsabilità della persona giuridica[9].
In passato, tuttavia, non è mancato chi ha criticato l’indirizzo prevalente, obiettando in tal modo:
- Non contrarietà dell’art. 27 Cost.
Rifacendosi all’esperienza anglosassone, è possibile imputare una responsabilità penale alle persone giuridiche quale summa delle colpevolezze delle persone fisiche che rappresentano ed operano per l’ente (c.d. colpa collettiva)[10].
- Rischio di configurare una responsabilità per fatto del terzo.
E’ possibile evitare le conseguenze negative per soggetti estranei al fatto di reato, attraverso l’introduzione di specifici strumenti. Ad esempio, come nell’ordinamento francese che ha approntato una disciplina di rimborsi delle quote per i soci e la corresponsione del salario dei dipendenti per un certo periodo di tempo nell’ipotesi in cui l’impresa venisse condannata e non fosse in grado di svolgere la propria attività[11].
- Inadeguatezza dell’art. 197 c.p.
L’obiezione deriva dal fatto che una sanzione derivante da una responsabilità eventuale e sussidiaria non è certamente idonea a sortire un reale effetto afflittivo e dissuasivo.
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Dunque, negli anni si è cercato di qualificare il tipo di responsabilità configurabile in capo alle persone giuridiche.
In particolare, se con il Progetto Mirone si è cercato di inquadrare siffatte responsabilità nell’ambito delle sanzioni “amministrativi” e, quindi, con sanzioni di natura esclusivamente pecuniaria.
Con il Progetto Grosso per la prima volta si è cercato di distaccarsi da una responsabilità di tipo amministrativa in capo alle persone giuridiche e giungere ad tertium genus, rispetto agli schemi del diritto penale classico.
Per le persone giuridiche è stato, infatti, proposta una responsabilità aggiuntiva e non più sostitutiva e sussidiaria rispetto a quella della persona fisica.
In particolare, la maggiore difficoltà – rappresentata dall’individuare un’imputazione soggettiva in capo all’ente senza incorrere nelle obiezioni dette prima – è stata tentata di risolvere prevedendo l’obbligo in capo alle persone giuridiche uno specifico dovere: adottare e attuare un modello organizzativo idoneo ad evitare la commissione di reati.
La mancata attuazione di tale adempimento fonderebbe, dunque, il rimprovero di colpevolezza per il reato che ne sia derivato.
E’ evidente il riferimento al modello di origine anglosassone della c.d. colpevolezza organizzata[12].
3) Il d.lgs. n. 231/2001: problema della natura della responsabilità.
La convenzione elaborata in seno all’OCSE per la repressione della corruzione nell’ambito delle transazioni economiche internazionali, ha previsto espressamente l’obbligo per gli Stati membri di “adottare le misure necessarie, secondo i propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche per la corruzione di pubblico ufficiale straniero”.
Una responsabilità diretta delle persone giuridiche, anche se non necessariamente di tipo penale, è espressamente contemplata anche dal secondo Protocollo addizionale alla Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee, che impone a ciascuno Stato membro di “adottare le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili della frode, della corruzione attiva e del riciclaggio di denaro commessi a loro beneficio da qualsiasi persona che agisca individualmente o in quanto parte di un organo della persona giuridica, che detenga un posto dominante in seno alla persona giuridica”.
E’ chiaro che ciò ha reso ancor più necessario l’intervento del legislatore italiano.
Innanzitutto, doveva affrontarsi il nodo gordiano derivante dalla scelta se inquadrare siffatte responsabilità come amministrative o di natura penale. Sul punto gli accordi internazionali non danno alcuna indicazione, lasciando margine di operatività alle legislazioni dei singoli Stati membri.
4) La scelta operata dal Legislatore italiano: il d.lgs. 231/2001 e il problema della natura della responsabilità in capo alle persone giuridiche.
Orbene, Il d. lgs. 231/2001 nel disciplinare la responsabilità dell’ente ha optato di qualificarla come “amministrativa dipendente da reato”.
Ciò ha dato vita ad un dibattitto circa la natura della responsabilità che il legislatore avrebbe configurato in capo agli enti.
4.1 La tesi della responsabilità amministrativa.
Tale tesi[13] poggia sui seguenti punti:
- Il d.lgs. qualifica la responsabilità come amministrativa. Tale motivazione si basa sull’interpretazione letterale della legge e sulle locuzioni utilizzate dal Legislatore all’interno del testo, come “illeciti amministrativi, sanzioni amministrative”.
- L’art. 34 del decreto individua una sorta di gerarchia delle fonti legislative in cui al primo posto vengono posto quelle relative all’accertamento e all’applicazioni delle sanzioni amministrative e solo in via sussidiaria si fa riferimento alle norme penali.
- Il regime prescrizionale è modulato secondo parametri differenti da quelli previsti in materia penale.
- Se si abbraccia la diversa tesi della responsabilità penale si rischia di entrare in contrasto con diverse diposizioni costituzionali: a) il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova ex art. 6 d.lgs. 231/2001 è incompatibile con il principio di non colpevolezza ex art. 27 Cost. b) Il procedimento di archiviazione ex art. 58 del decreto è incompatibile con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost. c) La previsione della permanenza della responsabilità in capo ad altri enti in occasione delle vicende modificative (trasformazione, fusione, scissione) di cui agli artt. 28-33 d.lgs. 231/2001, contrasterebbe con il principio di responsabilità penale personale ex art. 27 Cost.
4.2 La tesi della responsabilità penale.
I sostenitori di tale tesi ritengono che ci sia stata una “frode di etichette” e pertanto si è mascherata per responsabilità amministrativa una responsabilità che, invece, è di tipo penale[14].
Si tratta, dunque, di una responsabilità che, al di là della qualificazione formale, presenta profili di disciplina marcatamente di tipo penalistico.
Queste sono le argomentazioni a supporto di chi sostiene la tesi della responsabilità penale:
- La responsabilità si basa sulla commissione di reati specificatamente richiamati dal decreto, il giudizio si svolge innanzi ad un giudice penale e con tutte le garanzie tipiche del processo penale.
- La commisurazione delle pene è modellata secondo la struttura penale.
- è ammesso il tentativo, mentre il tentativo di illecito amministrativo non è ammissibile.
- E’ prevista l’applicazione delle misure cautelari.
- L’art. 8 del decreto prevede l’amnistia, tipica causa di estinzione del reato.
4.3 Critica alla tesi della responsabilità penale.
Tuttavia, la tesi della responsabilità penale è stata fortemente criticata da diversa parte della dottrina con le seguenti argomentazioni:
- Inversione dell’onus probandi ex art. 6 d. lgs. n. 231/2001.
L’art. 6 pone a carico dell’ente l’onere di provare di aver addotto ed efficacemente attuato i modelli di organizzazione e vigilanza. Nel caso in cui non dovesse fornire siffatta si ha una presunzione di responsabilità sotto il profilo soggettivo.
Tale disposizione, se si accettasse la tesi della responsabilità penale, sarebbe in contrasto con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., posto che nel procedimento penale spetta all’accusa provare i fatti addebitati al soggetto.
- Incompatibilità con l’art. 27 Cost. che vieta la responsabilità penale per fatto altrui.
Ovvero, si ribadisce che per un fatto di reato commesso dalla persona fisica, accettando la tesi della responsabilità penale, si punirebbe un soggetto diverso (l’ente), in evidente contrasto con l’art. 27 Cost.
Tuttavia, chi sostiene la teoria della responsabilità penale, supera tale critica facendo leva sulla teoria organicistica, ovvero secondo le nozioni di rapporto e di immedesimazione organica, il reato commesso dal singolo, operante all’interno dell’ente, verrebbe imputato al soggetto collettivo.
- La previsione della permanenza della responsabilità in capo ad altri enti in occasione delle vicende modificative.
Gli artt. 28-33 del decreto, disciplinando le vicende modificative (trasformazione, fusione, scissione e della cessazione d’azienda), dispongono il trasferimento della responsabilità dall’ente originario a quello risultante in seguito alle vicende modificative.
La ratio di tale disciplina si rintraccia nel fatto che il legislatore ha cercato di contemperare due contrapposte esigenze:
- Da un lato, ha voluto evitare l’intrasmissibilità della responsabilità in caso di vicende modificative, che avrebbe potuto facilmente portare a ipotesi di elusione della responsabilità da parte delle persone giuridiche.
- Dall’altro lato, ha cercato di non cadere nell’eccessivo rigorismo dell’opposta regola della trasmissibilità, che avrebbe potuto inficiare strutture organizzative sane e non viziate da ipotesi di reato[15].
- La trasformazione
Non pone alcun problema, considerando che l’ente trasformato non è qualcosa di diverso da quello originario.
- Fusione e scissione.
Pongono, invece, i maggiori problemi di compatibilità con l’art. 27 Cost. di rischio di punizione ad un soggetto differente dall’autore del reato.
Invero, a sostegno della tesi penalistica, nel diritto civile si è fatta strada una diversa corrente interpretativa, in base alla quale la scissione e la fusione non sono compatibili con la successione mortis causa che porterebbe all’estinzione della persona giuridica originaria.
In particolare, quanto alla fusione alcuni sostengono che con la stessa "non vi è la formazione di un nuovo contratto di società, ma l’unificazione di due o più contrati; non vi è trasferimento della qualità di socio, ma ciascun socio conserva la qualità di parte del contratto e dell’organizzazione così unificata; non vi è trasferimento di beni dalle società partecipanti a quelle risultanti dalla fusione, ma conservazione della proprietà di essi in capo al soggetto unificato[16].
Tale posizione dottrinale trova conferma e fa riferimento all’art. 2054 bis, co. 1, in cui si afferma che la società risultante dalla fusione assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione. E dunque, anche eventuali responsabilità di tipo penali.
In tale ottica, la prevista trasmissibilità della responsabilità penale può essere letta come ulteriore conferma legislativa di tale lettura. Ovvero, si trasferisce la responsabilità perché la fusione non è morte di una società e nascita di un’altra, ma è semplicemente un’operazione di opportunità economica e organizzativa[17].
Tali considerazioni, sono state svolte anche per la scissione.
4.4 La tesi del tertium genus di responsabilità.
Alcuni autori ritengono che trattasi di un tertiun genus di responsabilità, distinta da quella amministrativa e penale[18]. Essi prendono in considerazione la relazione di accompagnamento al d. lgs. 231, nella quale – dopo aver definito come meramente cautelativa la scelta di qualificare come amministrativa la responsabilità – si afferma: “Tale responsabilità, poiché conseguente da reato e legata alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma dell’illecito amministrativo, con la conseguenza di dar luogo alla nascita di un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amminitrativo”.
Pertanto, i sostenitori di tale tesi affermano che la formula “responsabilità amministrativa” si rileva nulla più che “un’etichetta carica di significati simboli, del tutto neutra rispetto alla disciplina degli istituti”.[19]
4.5 Tesi isolata del concorso di persone: S.C. Sez. VI, n. 19764 del 2009.
La Corte afferma che, “nell'ambito della criminalità d'impresa, v'è responsabilità cumulativa dell'individuo e dell'ente collettivo, trovando ciò riscontro, sul piano dogmatico, nello schema concorsuale: il nesso tra le due responsabilità, quella della persona fisica e quella dell'ente, pur non identificandosi con la figura tecnica del concorso, ad essa è equiparabile, in quanto da un'unica azione criminosa scaturiscono una pluralità di responsabilità. Il sistema tratteggiato dal legislatore con il D.Lgs. n. 231 del 2001, presuppone la responsabilità penale individuale, che non rimane assorbita dalla persecuzione diretta della corporate criminality.
In sostanza, l'appartenenza dell'autore individuale all'ente è imprescindibile punto di partenza della complessiva vicenda criminosa, nel senso che è proprio la condotta della persona fisica, posta in essere nell'interesse o a vantaggio dell'ente, a determinare l'estensione a questo della responsabilità per il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.
Ciò posto, nella fattispecie concreta, per quello che emerge dal provvedimento impugnato, sono ravvisabili tutti gli elementi costitutivi della responsabilità individuale e di quella dell'ente, con l'effetto che la valutazione in ordine alla legittimità della cautela reale adottata non può essere fatta nell'ottica di una sorta di "deresponsabilizzazione" delle persone fisiche, soltanto perché il profitto del reato sarebbe andato a vantaggio dell'ente societario. Il sequestro preventivo funzionale alla confisca di valore, pertanto, ben può incidere contemporaneamente sia sulle persone fisiche indagate per il reato di corruzione attiva sia sull'ente societario che ha tratto profitto dal reato, e ciò in base rispettivamente alle disposizioni di cui all'art. 321 c.p.p., comma 2 in relazione all'art. 322 ter c.p. e all'art. 53 in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19.
Data la convergenza di responsabilità della persona fisica e di quella giuridica e avuto riguardo all'unicità del reato come "fatto" riferibile a entrambe, deve trovare applicazione il principio solidaristico che informa lo schema concorsuale, con la conseguenza che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei soggetti indagati anche per l'intera entità del profitto accertato, con il limite, però, che il vincolo cautelare d'indisponibilità non deve essere esorbitante, nel senso che non deve eccedere, nel complesso, il valore del detto profitto e non deve determinare ingiustificate duplicazioni, posto che dalla unicità del reato non può che derivare l'unicità del profitto”.
5) La posizione della giurisprudenza.
Ad eccezione di tale posizione rimasta isolata, occorre prendere atto che la prevalente giurisprudenza sembra propendere per la tesi di una responsabilità di tipo amministrativa in capo agli enti., anche se spesso non sono confermate in modo chiaro e preciso.
Da ultimo, la sentenza a Sezioni Unite n. 10561/2014 conferma la non applicabilità dei principi della responsabilità concorsuale ex art. 110 ss. c.p. alla persona giuridica e ai suoi amministratori.
Infatti, le Sezioni Unite rilevano come l’ente non possa essere concorrente nel reato e che nel vigente ordinamento è prevista solo una responsabilità amministrativa, non penale delle persone giuridiche.
Probabilmente la questione circa la natura della responsabilità delle persone giuridiche non è ancora terminata, soprattutto considerando le rilevanti applicazioni pratiche che derivano se si accoglie una soluzione piuttosto che l’altra.
Nondimeno, non è possibile trascurare l’orientamento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che, in applicazione delle garanzie statuite dagli artt. 6 e 7 della Convenzione Edu, qualifica una responsabilità come penale su come sono caratterizzate le sanzioni. In particolare, i criteri di riferimento sono dati dal quantum della pena, dalla modalità di attuazione della stessa e dalle finalità preventiva oppure repressiva.
6) Costituzione di parte civile: possibilità o meno per il soggetto danneggiato di costituirsi parte civile nell’ambito del giudizio innanzi al giudice penale nei confronti dell’impresa per illecito amministrativo.
Una ricaduta applicativa della questione circa la natura giuridica della responsabilità delle persone giuridiche riguarda la possibilità per il soggetto danneggiato di costituirsi parte civile nel processo penale.
Il quadro normativo di riferimento è dato dagli:
- artt. 34 e 35 d. lgs. 231/2001 che richiamano le norme del codice penale e di procedura penale in quanto compatibili.
- Il che, in astratto, sembrerebbe rendere possibile l’estensione della disciplina codicistica prevista per la costituzione di parte civile.
- Art. 185 c.p. che obbliga al risarcimento del danno provocato dall’illecito direttamente il colpevole, mentre indirettamente l’obbligo sussiste in capo alle persone che, a norma del codice civile, sono tenute a rispondere del fatto di quest’ultimo.
A tal riguardo si sono sviluppate tre orientamenti:
A) Tesi che esclude la costituzione di parte civile ritenendo di natura amministrativa la responsabilità dell’ente.
I sostenitori di tale tesi, che qualificano la responsabilità dell’ente come amministrativa, affermano che la pretesa risarcitoria va esercitata, ai sensi dell’art. 2043 c.c., esclusivamente in sede civile[20].
B) Tesi che ammette la costituzione di parte civile pur non riconoscendo la natura di responsabilità penale dell’ente.
Secondo tali autori, pur non abbandonando l’idea che la natura della responsabilità sia di tipo amministrativa, ritengono che in ossequio del principio di concentrazione, è possibile la costituzione di parte civile ai sensi dell’art. 185 c.p. che trasferirebbe in sede penale l’accertamento di una pretesa civilistica di tipo aquiliano[21].
C) Tesi che ammette la costituzione di parte civile riconoscendo la natura di responsabilità penale dell’ente.
Tale orientamento ritiene che sussistendo una responsabilità penale in capo all’ente, questo può essere considerato un ulteriore centro di imputazione insieme alla persona fisica che ha commesso materialmente il reato, di tal ché nulla osta alla rispettiva costituzione di parte civile secondo le ordinarie regole del codice di rito[22].
La Cassazione ha affermato l’inammissibilità della costituzione di parte civile, senza tuttavia aver voluto affrontare la problematica circa la natura giuridica della responsabilità della persona giuridica, ma esclusivamente analizzando la disciplina posta dal decreto legislativo 231/2001
In particolare, la Corte ha rilevato che l’eventualità di una costituzione di parte civile nei confronti dell’ente non è in alcun modo contemplato dal decreto, e ciò non può imputarsi ad una mera dimenticanza da parte del Legislatore, ma piuttosto ad una sua precisa scelta.
Nello stesso decreto vi sarebbero dei dati specifici che confermerebbero tale assunto:
- Art. 27 che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente fa riferimento solo alle obbligazioni civili.
- Art. 54 che regolamenta il sequestro conservativo. L’omologo istituto codicistico di cui all’art. 316 c.p.p. pone questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario, sia delle obbligazioni civili derivanti dal reato, attribuendo in quest’ultimo caso alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro. Invece, l’art. 54 del decreto limita il sequestro al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria (oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute all’erario) e può essere richiesto unicamente dal pubblico ministero[23].
7) Corte di Giustizia 12 luglio 2012 c-79/11.
La Corte di Giustizia conferma quanto statuito dalla Cassazione. Essa infatti afferma che il decreto legislativo 231/2001 indica la responsabilità degli enti come “amministrativa”, “indiretta” e “sussidiaria”, distinguendosi in tal modo dalla responsabilità penale della persona fisica, autrice del reato che ha causato direttamente i danni e a cui può essere chiesto il risarcimento nell’ambito del processo penale.
Pertanto, le persone offese in conseguenza di un illecito amministrativo da reato commesso da una persona giuridica non possono essere considerate come le vittime di un reato e, conseguentemente, non hanno il diritto di ottenere che si decida, nell’ambito del processo penale, sul risarcimento da parte della persona giuridica[24].
8) La confisca
Tra le sanzioni amministrative l’art. 9 del decreto prevede espressamente la confisca.
Il successivo art. 19, co. 1 dispone che: “nei confronti dell’ente è sempre disposta, con sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato…”.
Al secondo comma è prevista la c.d. confisca per equivalente.
Uno dei maggiori problemi è quello di definire e qualificare il significato di “profitto del reato”.
A tal proposito le SS. UU. n. 26654/2008 hanno affermato che “Il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca nei confronti dell’ente è costituito dal vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”.
Trattasi di un’interpretazione in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza in merito alla c.d. tradizionale confisca di cui all’art. 240 c.p.[25]
Nondimeno, i giudici della Suprema Corte distinguono il vantaggio interamente derivante dall’attività illecita, da quello che invece non ha alcuna correlazione con il reato.
Si legge infatti, nella sentenza delle Sezioni Unite che sussiste “l’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito (profitto non confiscabile)”.
Dunque, nella fattispecie concreta trattata dalla Suprema Corte, ovvero l’esecuzione di un appalto pubblico di opere e servizi, seppur la sua aggiudicazione si è avuta attraverso una truffa; i giudici affermano che “l’appaltatore che, nel dare esecuzione agli obblighi contrattuali comunque assunti, adempie in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa lecitamente assunta interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure”[26].
Note e riferimenti bibliografici
[1] A. COSSEDDU, Responsabilità da reato degli enti collettivi: criteri di imputazione e tipologia delle sanzioni, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2005
[2] A. COSSEDDU, Responsabilità da reato degli enti collettivi, cit.
[3] G. MARINUCCI, La responsabilità penale delle persone giuridiche. Uno schizzo storico- dogmatico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007.
[4] DE SIMONE, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la “parte generale” e la “parte speciale” del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, in AA.VV.; MUSCO, Diritto penale societario, Milano, 1999.
[5] C. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi e innovazioni nel diritto penale statunitense, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995; E. GILIOLI, La responsabilità penale delle persone giuridiche negli Stati Uniti: pene pecuniarie e modelli di organizzazione e di gestione (“Compliance programs”), in Cass. pen., 2003.
[6] R. LOTTINI, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto inglese, Milano, 2005; D. PELLOSO, La responsabilità penale degli enti in Gran Bretagna. Alla ricerca di nuovi modelli di colpa.
[7] G. ALPA e R.GAROFOLI, Manuale di diritto penale parte generale, 2012
[8] FIORELLA, Responsabilità penale, Milano.
[9] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale parte generale, 2000.
[10] BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest” nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in Riv. It. Dir. e proc. pen.
[11] BRICOLA, Il costo del principio, cit.
[12] G. ALPA e R.GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit.
[13] Sostenuta da MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale parte generale, Milano.
[14] DE VERO, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato. Luci ed ombre nell’attuazione della delega legislativa, in Riv. It. Dir. proc. pen., 2001.
[15] G. ALPA e R.GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit.
[16] FRANCO DI SABATO, Manuale della società, 1999.
[17] G. ALPA e R.GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit.
[18] DE VERO, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato, cit.;
[19] PULITANÒ, La responsabilità da reato degli enti i criteri d’imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002
[20] Cfr. G.I.P. Milano, 18 gennaio 2008, cit. in G. ALPA e R.GAROFOLI, Manuale di diritto penale.
[21] GROSSO, Sulla costituzione di parte civile nei confronti degli enti collettivi chiamati a rispondere ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 davanti al giudice penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, pp. 1342-1345.
[22] Cfr. Trib. Torino, 24 luglio 2008, cit. in G. ALPA e R.GAROFOLI, Manuale di diritto penale.
[23] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 22 gennaio 2011, n. 2251.
[24] A. Valsecchi, F. Viganò, Secondo la Corte di Giustizia UE, l’inammissibilità della costituzione di parte civile contro l’ente imputato ex d.lgs. 231/01 non è in contrasto col diritto dell’Unione, in diritto penale contemporaneo, 6 settembre 2012.
[25] Cass. Pen., S.U., 24.5.2004, n. 29951: “Nella formulazione dell'art. 240, 1 comma, cod. pen. per "profitto del reato" si deve intendere il vantaggio di natura economica che deriva dall'illecito, quale beneficio aggiunto di tipo patrimoniale .... Deve essere tenuta ferma, però, in ogni caso - per evitare un'estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire da un reato - l'esigenza di una diretta derivazione causale dall'attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita”. Confermata successivamente anche da Cass. Pen., S.U., 25.10.2005 n. 41936.
[26] Orientamento confermato successivamente da Cass. Pen., S.U., 25.6.2009, n. 38691, che ha affermato che il “profitto del reato deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata dal reato”, specificando che nel concetto di vantaggio non si deve ricomprendere “l’utile netto o di reddito, bensì di beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”; in aggiunta “occorre ...una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito”