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Pubbl. Mar, 27 Gen 2015

Il nuovo Codice deontologico forense del 2014

Antonio Coppola


La deontologia rappresenta un insieme di regole, nate all´interno di una matrice etica, per coloro i quali esercitano l´attività professionale di riferimento. L´origine di tali norme, tuttavia, non deve far dimenticare che quelle contenute dal nuovo Codice deontologico forense (così come deliberato dal Consiglio Nazionale Forense il 31 gennaio 2014) sono norme giuridiche a tutti gli effetti, la cui violazione è sanzionabile giuridicamente[1].


L’articolo 3, comma 3, della legge professionale forense[2] dispone che: “Il codice deontologico stabilisce le modalità di comportamento che l’avvocato è tenuto a osservare in via generale e, specificamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Il codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare”. Il C.N.F., in effetti, ha fatto proprio questo compito, tentando di raggiungere una tipizzazione, per quanto possibile completa, degli illeciti disciplinari previsti.

L’articolo 3, comma 3, della legge professionale forense[2] dispone che: “Il codice deontologico stabilisce le modalità di comportamento che l’avvocato è tenuto a osservare in via generale e, specificamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Il codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare”. Il C.N.F., in effetti, ha fatto proprio questo compito, tentando di raggiungere una tipizzazione, per quanto possibile completa, degli illeciti disciplinari previsti.

L'articolo 25 del Codice, nell'ottica del particolare rapporto fiduciario che si instaura tra l'avvocato e la parte assistita, stabilisce che l'accordo di pattuizione dei compensi è libero. Purtuttavia, sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa (c.d. divieto del patto di quota lite). Questo rapporto tra regola ed eccezione, comunque, trova una ulteriore contro-eccezione all'articolo 31, per quanto concerne le somme di denaro. Esso, infatti, stabilisce che “L'avvocato ha diritto di trattenere le somme da chiunque ricevute imputandole a titolo di compenso: a) quando vi sia il consenso del cliente e della parte assistita; b) quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l'avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita; c) quando abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio compenso espressamente accettata dal cliente”.

Il fermo e costante rispetto delle regole deontologiche (delle quali si è appena dato esempio), costituisce uno strumento formidabile tanto per ripristinare una corretta immagine forense, quanto per la formazione dell'Avvocatura, allo scopo di metterne in rilievo le originarie funzioni di difesa della legalità.

(Antonio Coppola)


[1] Cfr. Cass., Sez. Un., 20 dicembre 2007, n. 27810; Cass., Sez. Un., 30 aprile 2008, n. 10875.

[2] Legge 31 dicembre 2012, n. 247, pubblicata in G.U. 18 gennaio 2013, in vigore dal 2 febbraio 2013.