Pubbl. Mer, 16 Mar 2022
Minoranze, identità, diritti e presidi di pace
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Andrea Racca
La tutela delle minoranze storiche, culturali e linguistiche rappresenta la nuova sfida dei diritti fondamentali, implicando il superamento del concetto di minoranza nazionale, ancora legato ad un´impostazione radicata sull´esecizio dei diritti della cittadinanza. L´ordinamento italiano attua il riconoscimento delle minoranze con la L. 482/1999, mediante l´individuazione di dodici comunità nazionali ormai ampiamente integrate , segnando pertanto l´esigenza di un aggiormento normativo mediante l´estensione della tutela verso nuovi confini dell´inclusione.
Sommario: 1. L’evoluzione della concezione di minoranza e gli esiti del progetto “Sphere”; 2. La tutela delle minoranze; 3. Identità ed appartenenze; 4. Dignità e diritti; 5. Conclusioni.
1. L’evoluzione della concezione di minoranza e gli esiti del progetto “Sphere”
Nel nostro ordinamento, un ruolo fondamentale, in ordine alla protezione delle minoranze linguistiche e culturali, è rivestito dalla Legge 15 dicembre 1999, n. 482 recante “Norme a tutela delle minoranze linguistiche e storiche”[1], che pur salvaguardando il principio di unità nazionale, riconosce la pluralità delle espressioni linguistiche e culturali del nostro Paese e valorizza al contempo il ruolo delle autonomie, ponendosi nel solco del decentramento amministrativo attraverso l’attribuzione agli enti locali di ampi compiti nell’attuazione delle previsioni contenute nella norma[2].
La relazione conclusiva al Parlamento estone, presentata ormai dieci anni orsono nel progetto europeo “Sphere” [3], al fianco delle delegazioni di altre cinque delegazioni, tra cui compresa quella russa, pare riassumere particolare significato a seguito dei recenti fatti di cronaca. I Paesi dell’Europa orientale e le Repubbliche baltiche hanno, infatti, da sempre ritenuto la questione della tutela delle minoranze linguistiche e culturali, tema strategico dal punto di vista della gestione dei rapporti tra etnie e gruppi di popolazione legati etnograficamente alla Russia. In quel confronto si era infatti questionato in ordine alla protezione che i vari Stati nazionali offrivano alla tutela delle minoranze linguistiche e storiche, sul comune presupposto che la tutela differenziata rappresentasse uno dei principali modi di attuare l’eguaglianza sostanziale.
In questi ultimi dieci anni, il contesto giuridico italiano pare non aver subito mutamenti, tanto che la principale disposizione offerta dal Nostro ordinamento, risalente al 1999, racchiude in sé gran parte dello spirito legislativo degli anni Novanta, ponendo le sue basi su condizioni economiche e sociali, che nel corso di questi ultimi anni sono profondamente mutate, perpetrando un regime di tutela preferenziale a determinate minoranze o gruppi etnici a discapito di altri[4].
Il testo normativo, infatti, prevede e riconosce dodici minoranze, che godono di particolari diritti “aggiuntivi” (dall’accostamento della lingua minoritaria all’interno della scuola primaria, ad una maggiore accessibilità alla pubblica amministrazione, etc.) implicando così che lo Stato italiano, con cinquant’anni di ritardo dall’approvazione della Costituzione, potesse finalmente attuare il disposto dell’articolo 6 per cui «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche».
Il progetto “Sphere”, finanziato dalla Commissione Europea all’interno dei programmi “Youth in Action”, volti a promuovere il senso di cittadinanza europea, la solidarietà, la promozione della cultura giuridica e l’intercultura, aveva coinvolto delegazioni di giovani ricercatori, che nei giorni del summit, avevano condiviso momenti di studio, ma anche ricreativi, al fine di affermare l’esigenza di tutela dei diritti ed in particolare la libertà di espressione, affinché questa non risultasse solo il retaggio dell’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma il riscontro pratico del pluralismo e del multiculturalismo.
In queste notti di guerra, ove l’aspirazione dell’Ucraina all’appartenenza ad un gruppo di nazioni facenti parte del “gruppo Europeo” ha rappresentato per molti analisti la ragione per l’invasione e per l’affermazione di un potere totalitario, che a lungo noi europei avevamo sperato di poter dimenticare, il ricordo di chi scrive torna alle tematiche trattate proprio nel progetto “Sphere”, ove si discuteva sul fatto che nell’URSS i confini interni erano stati tracciati appositamente al fine di evitare che uno Stato costituisse un blocco unitario etnico, linguistico, religioso e distribuendo il più possibile presenze russe. Pervenuti al concetto condiviso del superamento dello Stato monista, ovvero portatore di una sola identità culturale, si era pervenuti alla conclusione che la promozione della cultura dei diritti fosse l’unico strumento per armonizzare il contesto socio-istituzionale di qualsiasi Stato moderno.
La tutela delle minoranze rappresenta, in tal guisa, il principale strumento con cui alcuni Paesi est-europei hanno cercato (sin dagli anni Novanta) di armonizzare le forti tensioni sociali e le diversità etnografiche interne, al fine di ricercare coesione sociale in un tessuto fortemente provato da decenni di regime totalitario comunista.
In quel contesto, il contributo che l’esperienza italiana offriva, era principalmente fondato sulla descrizione di un impianto normativo, che già nel 2012 risultava ampiamente desueto, posto che le minoranze riconosciute in Italia rappresentavano già gruppi di popolazione ampiamente integrati, ma offriva comunque le basi per la qualificazione di uno Stato pluralista, laico e solidale.
Come giustamente afferma la Corte costituzionale in una nota sentenza del 2017 [5], il riconoscimento linguistico, ai fini istituzionali, rappresenta l’elemento fondamentale di identità culturale e mezzo primario di trasmissione dei relativi valori, ovvero un elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare. Per l’effetto l’affermazione della lingua italiana quale idioma ufficiale del sistema costituzionale, ricavabile per implicito dall’art. 6 Cost. ed espressamente ribadita nell’art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999 (in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche), oltre che nell’art. 99 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale, teso a evitare che altre lingue possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da porre quest’ultima in posizione marginale [6].
Il riconoscimento delle minoranze storico e linguistiche permette, pertanto, di affermare che la lingua nazionale, nella sua ufficialità e primazia, costituisce il vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 Cost. La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione non la costringono infatti in una posizione di marginalità: al contrario, e anzi proprio in virtù dell’emersione di tali fenomeni, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì lungi dall’essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità, diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé.
La centralità costituzionalmente necessaria della lingua italiana si coglie particolarmente nella scuola e nelle università, quali luoghi istituzionalmente deputati alla trasmissione della conoscenza nei vari rami del sapere e alla formazione della persona e del cittadino, e in tale contesto si incontra - combinandosi e, ove necessario, bilanciandosi - con altri principi costituzionali: ossia, con il principio d’eguaglianza, anche sotto il profilo della parità nell’accesso all'istruzione; con la libertà d'insegnamento, garantita ai docenti dall’art. 33, primo comma, Cost.; e con l’autonomia universitaria, riconosciuta e tutelata dall’art. 33, sesto comma, Cost [7].
Orbene, ammettere la tutela delle minoranze quale cardine della tutela dei diritti fondamentali è sicuramente una sfida del costituzionalismo europeo dei prossimi anni, dovendo prediligere forme di tutela ampia volte all’ampiamento delle frontiere dell’inclusione soprattutto nella gestione dei flussi migratori, in funzione di parametri speciali e derogatori rispetto al modello che disciplina gli assetti istituzionali, predisposti per la generalità dei cittadini, in conformità con il modello della colour-blind Constitution: ovvero prediligere modelli di tutela maggiormente legate all’eguaglianza sostanziale, al di fuori delle ipotesi strettamente riconducibili a forme di discriminazione indiretta.
Da questo punto di vista, la scelta dello scrivente di recuperare a distanza di circa un decennio il tema di relazione relativo al progetto “Sphere” deriva da un duplice aspetto: da un lato, poiché proprio durante i convegni la delegazione russa aveva ampiamente sostenuto la necessità di una valida tutela delle minoranze, quale esigenza di rivendicare libertà democratiche, che tuttavia in questi anni l’establishment russo ha via via fortemente limitato. D’altro canto, si ritiene che radicare una valida tutela dei diritti delle minoranze non può escludere una prospettiva storica e filologica entro la quale la cultura dei diritti ha radicato il proprio fondamento, ovvero rivendicare la tutela integrale della persona umana, in un processo dinamico di bilanciamento di strumenti di inclusione ed esclusione [8].
Ed infatti se si ritiene che in Unione europea vivano circa cinquanta milioni di individui che appartengono ad una minoranza linguistica o storica, questo fenomeno sociale e culturale pare, tuttavia, non avere una significativa previsione normativa e rivendica specifici strumenti di tutela e forme di promozione ad hoc. In definitiva, il riconoscimento, la tutela e la promozione dei diritti delle minoranze linguistiche e nazionali dimostrano come l’artt. 22 [9] della Carta Europea dei diritti fondamentali, sia la naturale estensione delle previsioni di cui all’art. 2 TUE, il quale conferisce un ruolo fondamentale ai “valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”, implicando logiche procedurali fondate su concezioni individuali dei diritti fondamentali [10], che a parere di chi scrive scardinano il concetto di minoranza nazionale.
2. La tutela delle minoranze
Ormai inconfutabile risulta la concezione che la diversità culturale, nonché la pluralità di lingue, culture, identità, siano un patrimonio da non perdere, una fonte di arricchimento per lo Stato e la comunità di appartenenza.
Il panorama delle situazioni minoritarie si presenta tuttavia estremamente vario e, di conseguenza, molteplici sono le interpretazioni e gli approcci alle esigenze di tutela in varie forme reclamate. La stessa nozione di minoranza pare, infatti, avere subito un profondo mutamento: se con il termine in oggetto si intendeva originariamente un gruppo di individui, tendenzialmente stanziale, normalmente localizzato in una parte specifica di un territorio, che gode del riconoscimento del diritto di cittadinanza[11], pare oggi scollegarsi al riconoscimento dei diritti di cittadinanza ritrovando la propria autonomia normativa direttamente dalle carte dei diritti fondamentali.
La tutela delle minoranze, adottata dagli Stati moderni, e soprattutto da quelli europei, rivendica la propria autonomia a partire da una duplice strategia: l’utilizzo della coppia libertà-uguaglianza, quali cardini dell’intero sistema giuridico, configurando il riconoscimento della pienezza dei diritti di libertà ad ogni uomo, indipendentemente al status di cittadino [12]. D’altro canto, il principio di non discriminazione rende necessaria l’introduzione di specifici diritti culturali, spingendo ad affrontare i profili dell’educazione e degli usi pubblici delle lingue minoritarie. Da questo punto di vista la nozione stessa di minoranza si colloca, pertanto, al crocevia tra i fenomeni di esclusione ed inclusione: «adopting a word cultur lens, one could easily describe a increased committment to the logic of Human capital (from the professionalization of learning to the contemporary focus on the “global knowledge economy”) and Huma Rights (in terms of processe of democratization, individualization, and concern for social justice»[13]. Questa impostazione respinge la teoria classica che contrapponeva l’universalismo nazionale all’identificazione della minoranza quale centro autonomo d’identità culturale caratterizzato da propri diritti, in vista di una prospettiva fondata sul divieto di limitare le illimitate opportunità di una persona nel perseguire il proprio progetto di vita.
Sotto questo profilo, la Legge n. 482/1999 è caratterizzata, invece, dallo spirito di offrire maggiori autonomie ad alcune comunità minoritarie tradizionalmente collocate in tre diverse aree geografiche: i) regioni di confine, ii) regioni insulari; iii) aree locali a specifico insediamento. Lo spirito del Legislatore era infatti integrare maggiormente le comunità locali contrassegnate da identità caratteristiche, al fine di perseguire maggiore coesione sociale e preservare queste tradizioni culturali, integrandole pienamente patrimonio nazionale. Tuttavia, la norma si limita a qualificare il concetto di minoranza nazionale quale presupposto per integrare comunità locali già riconosciute ai fini dei diritti di cittadinanza, non integrando presupposti di tutela a nuovi nuclei di insediamento extranazionali.
Il concetto di minoranza ha subito nella storia una trasformazione, la cui primaria eredità è il legame diretto con l’esercizio dei diritti del singolo alla comunità di appartenenza, ovvero allo Stato che ne garantisce il riconoscimento, secondo la stessa prospettiva che regge la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.
Un passaggio importante nel processo di evoluzione della nozione stessa di minoranza viene poi assunto dalla concezione liberale del cittadino e dalla libertà di culto, con il conseguente minor interesse per la nozione di minoranza religiosa, che pone le basi per il passaggio alla nuova nozione di minoranza nazionale [14]. La riduzione alla nozione di minoranza nazionale si pone, dunque, sull’esigenza di garantire alle minoranze maggiore autonomia, in modo da salvaguardarne l’identità antropologica-culturale del gruppo, pur mantenendo lo Stato come unico soggetto competente in materia di tutela [15].
Con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la stessa tutela delle minoranze viene, però, posta in relazione alla più generale affermazione dei diritti fondamentali, creando un forte tensione tra l’esigenza di tutela puntualistica della minoranza e la protezione generale dei diritti dell’uomo. Dal momento in cui nell’ordinamento internazionale gli Stati nazionali sono tenuti a rispettare i diritti umani, che competono a tutti gli individui indipendentemente dalla nazionalità, l’affermazione degli human rights sembra già di per sé costituire un’adeguata e valida base indefettibile per rivendicare una maggiore tutela ai diritti degli appartenenti alle c.d. minoranze storiche e culturali.
Nel febbraio 1995 con la “Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali”, firmata a Strasburgo, si sancisce poi la completa evoluzione del trattamento giuridico dei gruppi minoritari a livello di diritto internazionale, riconoscendo il principio pluralistico quale fondamento della protezione delle minoranze nazionali come parte integrante della garanzia stessa dei diritti dell’uomo. La Convenzione-quadro adotta, infatti, alcune disposizioni programmatiche, che si attuano attraverso legislazioni nazionali, radicando per l’effetto la tutela dei diritti degli appartenenti dei gruppi minoritari direttamente ai diritti fondamentali, consolidati nelle fonti internazionali e nazionali, consolidando pertanto il dovere degli stati di riconoscere particolari diritti di autonomia ai gruppi minoritari, sul presupposto di effettività della tutela della persona [16].
Orbene, il riconoscimento di una tutela alla minoranza, significa riconoscere l’appartenenza di un gruppo di persone ad una determinata comunità e per l’effetto modulare l’attribuzione di alcuni diritti civili agli stessi appartenenti. Non significa, tuttavia, prevedere una tutela differenziata, ma forme differenziate della medesima protezione. Come abbiamo potuto analizzare la tutela delle minoranze si risolve, sul piano applicativo, ad un bilanciamento tra una logica inclusiva ed una esclusiva, contemperamento che si trova in bilico tra due diversi piani: quello dell’identità e quello dell’uguaglianza. Questa trasposizione sul piano teorico risulta quanto mai necessaria proprio per comprendere come il complesso equilibrio che regola i processi di integrazione, operanti sia sul piano sociale, civile, politico, storico e culturale vadano colti in una prospettiva “dinamica” [17]. Ritengo, pertanto, che l’esigenza garantista in esame si inserisca tra due assi: su quello verticale e quindi il piano del riconoscimento delle identità culturali e delle appartenenze sociali; su quello orizzontale e quindi il piano dell’uguaglianza caratterizzato dall’effettività dei diritti e della partecipazione politica e civile.
L’equilibrio risulta quanto mai delicato, poiché offrire maggiore autonomia alle minoranze significa creare squilibri all’interno della trama sociale della popolazione, mentre negarla a particolari gruppi etnici (e non soltanto linguistici), significa disconoscere esigenze specifiche, anche con il rischio di tensioni sociali. Indubbiamente la medesima logica di inclusione ed esclusione riguarda non solo il processo di riconoscimento della cittadinanza, ma di tutti i diritti civili, che implicano logiche di bilanciamento [18].
Gli stessi processi di globalizzazione, universalismo e di virtualizzazione della cultura operano sullo stesso piano dell’uguaglianza, caratterizzando un appiattimento del patrimonio delle tradizioni storiche, linguistiche e culturali di cui sono depositari gruppi sociali minoritari nell’ambito di determinate comunità nazionali.
3. Identità ed appartenenze
Da un punto di vista teorico, il concetto di identità caratterizza pari modo la nozione di minoranza, quale gruppo collettivo ove il singolo esponente persegue il proprio sviluppo della personalità, il rapporto con gli altri, la comprensione dell’ambiente esterno e di sé stesso.
Tuttavia, il medesimo concetto riveste anche un ruolo importante in ambito sociale, in quanto integra l’appartenenza pubblica del singolo ad alla comunità (sia locale, sia nazionale), le relazioni tra soggetti mediante il giudizio di sé e quello dato dagli altri, la formazione di procedure sociali di riconoscimento [19]. Come osserva Jean-Claude Kaufmann, la questione dell’identità emerge ed acquista fondamento dall’enfasi sulla soggettività posta dagli sviluppi più recenti della modernità, e cioè dalla cultura del disincanto, dello sradicamento, della molteplicità. Il processo di creazione identitaria si lega, infatti, al fenomeno dell’individualismo, al potere del soggetto e al suo diritto/dovere di dare senso alla propria vita[20].
Quello che occorre rilevare ai fini della nostra indagine, è lo stesso processo di formazione dell’identità, che si compone duplicemente di una domanda di identificazione ed un bisogno di differenziazione. L’identità si configura, pertanto, come una sintesi dinamica tra sé e l’esterno, come elaborazione del patrimonio di acquisizioni, anche inconsce, che si sviluppano nel corso della vita attraverso il confronto con l’alterità.
Come afferma lo storico del diritto Pierre Legendre «l’identità dell’umano risulta da una composizione, da un assemblaggio» [21], in quanto pur essendo il risultato di un processo interiore, assume inevitabilmente anche un profilo storico-sociale, poiché si connette al modo in cui i soggetti recepiscono e rielaborano valori, ideali e tradizioni del gruppo sociale cui appartengono.
Anche il filosofo Paul Ricoeur, nella sua critica al Cogito cartesiano, predilige una prospettiva identitaria di tipo esplicitamente storico, forgiando quella che lui chiama identità narrativa, incentrata sul racconto temporale della vicenda umana. L’autore di Sé come un altro [22] scompone, infatti, l’identità in medesimezza e ipseità, rappresentando il rapporto di ciò che di sé resta immutabile ed inalterabile e ciò che, invece, subisce i cambiamenti del tempo, analizzando la possibilità di come mantenere il proprio sé, malgrado il mutare delle situazioni e dei contesti: la «permanenza del proprio sé nel tempo» nell’intreccio con l’alterità.
Il pregio di una prospettiva di tal genere consiste, pertanto, nel fatto di offrire ottimi spunti per attribuire al processo di formazione dell’identità una espressa valenza relazionale. Essa si costruisce in base a norme di appartenenza, spesso per opposizione, magari di tipo simbolico, all’interno delle relazioni sociali.
Il senso di identità, infatti, senza arrivare a dissolverlo nella relazione, si sviluppa nella fiducia ed in una coscienza storica della propria appartenenza ad un gruppo, da cui si eredita un patrimonio di tradizioni e di valori; allo stesso tempo, però, l’identità si sviluppa anche attraverso il rapporto con altri, che non si collocano all’interno di tale appartenenza “primaria”, maturando così una serie molteplice di appartenenze.
Proprio da questo complesso impianto, si desume l’importanza di un’educazione pluralista, che passa in primo luogo per il mantenimento e l’insegnamento linguistico, storico e culturale. La normativa italiana recepisce a pieno questo principio, prevedendo l’insegnamento e l’integrazione della lingua nazionale con quelle minoritarie fin dalle scuole primarie. In tal modo, si contribuisce a far evolvere il senso di identità chiuso nei legami “di sangue” e nei miti fondatori di una comunità etnico-culturale, verso un “territorio umano” più largo, che è quello della città in cui si vive, della regione territoriale, dello Stato nazionale, dell’appartenenza culturale e dell’umanità.
Possiamo, pertanto affermare, che un’identità troppo sostanziale equivale ad un modello di appartenenza “effettiva” che enfatizza il passato e le radici comuni; all’inverso, sul piano dell’effettività dei diritti, una cittadinanza disincarnata rischia di consistere solo nell’adesione a norme procedurali.
In quest’ottica, la tematica dell’appartenenza tocca lo stesso concetto di identità sociale, ovvero il comune senso di appartenenza ad un gruppo, ad una comunità, alla propria specie, che significa radicare il concetto di identità alla cultura giuridica, all’educazione di una cittadinanza globale. Questo significa rivendicare gli elementi "tradizionali" del vivere insieme, quali fondamenti del rapporto interculturale: quali conoscenza della cultura civica, accettazione delle norme costituzionali ed istituzionali del Paese, lingua, religione e tradizioni quali elementi di un patrimonio culturale collettivo.
L’esigenza della tutela delle minoranze non deve, pertanto, percepirsi come un’esigenza ristretta, di nicchia, a cui si offre attuazione soprattutto per mettersi “in regola” con un retaggio del Costituente (art. 6 Cost.), oppure per recepire una Convenzione quadro troppe volte sottovalutata. Il difficile equilibrio di contemperare esigenze puntuali di tutela e garantire adeguati livelli di eguaglianza sostanziale è ad avviso dello scrivente minacciato non tanto dalle richieste di riconoscimento provenienti dagli immigrati o dai tradizionalismi locali, quanto dalla carenza di una comprensione multiculturale ed incentrata su logiche dell’accoglienza interindividuale.
Come sostiene lo storico del diritto Jean Marc Ferry «anziché rimpiangere una mitica comunità di origine, capace di garantire automaticamente una indistruttibile coesione sociale, si tratta piuttosto di sviluppare, ove possibile, i vincoli di identità simbolica, come la lingua e la storia» [23], proiettando anche nel futuro un senso di identità, come acquisizione dinamica e partecipativa ad una costruzione istituzionale collettiva. La globalizzazione stessa, infatti, esige non di rinunciare alle identità particolari, ma di vivere un’identità più larga capace di affrontare il pluralismo delle appartenenze superando la paura dell’altro.
Lo stesso tema della tutela delle minoranze diviene, dunque, indispensabile per una reinterpretazione del giuridico in quanto fenomeno socio-regolativo: al centro delle osservazioni si pone infatti l’individuo nella sua peculiare appartenenza ad una collettività, più o meno grande, e la volontà di quest’ultima di rappresentare culturalmente un gruppo, che vuole mantenersi distinto o rappresentare l’espressione tipica di un patrimonio culturale locale (ovvero legato ad un particolare territorio o ad una determinata identità).
La tensione positiva e dinamica tra le esigenze del particolarismo - con la tendenza alla chiusura difensiva della propria identità culturale - e l’apertura all’universale, con il rischio di globalità indifferenziata, risulta chiara, ma per questo ampiamente percorribile. L’educazione alla cittadinanza, come appartenenza ad un progetto (di vita) comune e la promozione della coesione sociale divengono, pertanto, nella società attuale un obiettivo associato e complementare dell’autonomia e dell’emancipazione, superando così sia l’individualismo, sia i particolarismi ideologici. Le nuove frontiere della cittadinanza chiedono, pertanto, un lavoro dinamico di memoria e di integrazione storica, comportando un progetto di inclusione dei nuovi arrivati e di emancipazione dei tradizionalismi, fondando il riconoscimento degli altri in un’interdipendenza reciproca.
4. Dignità e diritti
La questione delle minoranze porta con sé molteplici ed articolate questioni che riguardano una pluralità indistinta di soggetti: dall’appartenente ad una comunità minoritaria o storica, all’immigrato, al profugo, al rifugiato, all’apolide. Tutte queste figure sono contraddistinte dalla medesima esigenza di riconoscimento socio-giuridico.
La tensione tra particolarismo e universalismo induce inevitabilmente pertanto il Legislatore (e non solo quello nazionale) a scelte di priorità. Nell’ultimo decennio il monitoraggio da parte del Comitato consultivo sulla convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali (ACFC) e del comitato di esperti della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (comitato ECRML), ha sicuramente portato ad un livello di tutela delle minoranze più ampio e diffuso in Europa, sebbene la mancanza di sanzioni nei casi di mancata adozione di strumenti di protezione abbiano ridotto la tutela principalmente sul piano volontario.
Da questo punto di vista, il monitoraggio dell’ACFC ha permesso di ricostruire le principali fonti normative volte a creare degli standard per i diritti delle minoranze a livello europeo. Dal punto di vista pratico, occorre tuttavia sempre comprendere il modello a cui tendere, se ad un tipo di uomo astratto a cui sono attribuiti diritti generali e la cui modulazione avviene per il tramite dei diritti civili, oppure ad un uomo concreto, i cui diritti fondamentali si declinano in generazioni e livelli, sin tanto a diventare previsioni direttamente rivendicabili.
Per svincolarsi da questo sostanziale aut aut, occorre ammettere l’espansione stessa dei diritti fondamentali e la loro pratica commistione con i diritti civili e politici avvenuta negli ultimi vent'anni [24]. La configurazione interpretativa della pluralità delle situazioni delinea, infatti, una vera e propria antropologia situazionale [25], che attribuisce ai soggetti alcuni diritti aggiuntivi proprio in base alla loro appartenenza a determinate situazioni giuridiche. La riconduzione ad unità mediante criteri unificatori, quali le formulazioni auliche degli human rights e della dignità umana, che assumono una principale funzione programmatica e fondativa degli ordinamenti giuridici, deve essere arricchita da elementi attributivi specifici e concreti, che ne integrino il significato e ne puntualizzino l’ambito di applicazione, in adesione ad una esigenza di stratificazione e di frammentazione fenomenologica, tipica delle società plurali e complesse.
Il risultato di questo processo sarà, dunque, una strutturazione della società politica come un insieme di comunità riunite, all’insegna di un unico criterio unificatore (la persona umana), ma anche in base a specifici interessi di categoria [26]. All’interno di questa settorializzazione, il soggetto potrà maggiormente rivendicare la propria identità, mediante il riconoscimento ad una comunità, ad un gruppo, che maggiormente sente vicino, in vista di un criterio unificante del tutto, l’appartenenza alla stessa sostanza.
L’idea stessa di dignità formulata dai classici, in bilico fra qualità naturale e riconoscimento pubblico, si è da sempre tramandata subendo flessioni di significato ed attribuzioni proprie di un valore: declinandosi in Hobbes come valore sociale, valida non solo in assoluto, ma in relazione agli altri uomini. Diversamente, se in Scheler rappresentata il tentativo di risposta alle domande esistenziali dell’uomo, legittimando per l’effetto il fondamento giuridico del diritto internazionale [27], mentre in Dworkin [28] rappresenta il criterio interpretativo ed argomentativo per la risoluzione delle controversie ideologiche.
Tutto ciò, presuppone non solo di dare senso e significato alle norme “relative” alle culture che le hanno espresse, ma anche di rendere legittimo un giudizio morale sulle culture, quale indispensabile condizione per realizzare il dialogo e la convivenza tra pari. Infatti, il confronto critico ed aperto tra le culture, permette il superamento dei loro limiti sotto il profilo del riconoscimento dei diritti umani, contribuendo alla ricerca di principi e norme che rispettano integralmente l’uomo, qualunque sia la sua appartenenza o provenienza culturale.
La diversità di visioni e di culture rende particolarmente complesso il riconoscimento unitario di che cosa si intenda per uomo, umanità e dignità, specie nei campi delle scienze, della bioetica, nonché della politica e dell’economia. La cultura dei diritti, quindi, per essere promossa e realizzata, necessita di un quotidiano esercizio alla cittadinanza globale e di un dialogo continuo sul significato della convivenza, sull’interpretazione dei valori comuni e sul rispetto dei diritti altrui.
In questo senso, la difesa della dignità inviolabile della persona si associa all’approccio interculturale, che offre un modello di gestione delle diversità culturali, proponendo una concezione basata sulla dignità umana di ogni persona, quale criterio unificante. Ad esempio, si è recentemente tornati a discutere della differenza tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, sottolineando la diversità di compiti che impegnano i cittadini nell’uno e nell’altro caso, e soprattutto, nell’ottica che qui maggiormente interessa, le diverse finalità dell’educazione alla cittadinanza che ne conseguono. Più in generale, nelle moderne forme di convivenza su base pluriculturale, plurinazionale e plurireligiosa, l’educazione alla democrazia significa soprattutto educazione al rapporto con l’altro e l’abitudine alla discussione pubblica sulla base di valori espressivi di tradizioni diverse.
L’educazione alla cittadinanza, in una società complessa, deve pertanto misurarsi anche con la presenza, in tale società, di opzioni diverse sul piano morale, culturale, economico. In questo senso, è necessario operare una traduzione in termini simbolici e culturali delle diverse visioni della vita. Ciò permette di interpretare e comporre le diverse opzioni che spesso si riflettono nel quotidiano e nelle istituzioni, nel rapporto tra gruppi, sessi o nella politica propriamente detta. In questo modo, si aumentano le competenze e ciò significa entrare nel campo dell’educazione allo spirito critico, alla cooperazione, allo scambio e alla discussione sostenuta dalla capacità argomentativa. Risulta evidente che la necessità di tali competenze non deve far dimenticare che l’autonomia e il pensiero critico sono il risultato di un’educazione democratica e non diventeranno patrimonio di tutti se il diritto, la politica, la scuola e le altre istituzioni formative non conseguono un vero progetto di inclusione sociale. La logica del riconoscimento e dell’inclusione, se adeguatamente sviluppata, potrà sì creare quelle capacità di partecipazione necessarie alla società complessa, permettendo l’apertura alla solidarietà, senza cui l’autonomia diviene pretesto di soggiogazione.
Ricomprendere il concetto di minoranza, non più strettamente collegato ad uno Stato, ma alla comunità globale, significa rivendicare una protezione dei diritti della persona, garanzia che non significa l’acquisizione di un diritto o di un catalogo di diritti, per la cui affermazione è strettamente legata alla loro azionabilità giurisdizionale, ma deve consistere nell’acquisizione da parte di tutti i membri degli strumenti e delle abilità argomentative ed interpretative per discutere e sostenere i propri punti di vista particolari, in regime di parità ideologica e culturale.
La globalizzazione di questi fattori, ovvero l’estensione a tutte le nazioni dei diritti di dialogo, discussione, partecipazione ed impegno sociale, rappresenta pertanto a parere di chi scrive la principale arma contro i totalitarismi e le loro nuove evoluzioni. Questa competenza interiorizzata e trasferita in azione potrà così restituire interesse nei confronti della gestione della cosa pubblica, vincendo così il senso di distanza e di scarsa coscienza nei confronti dell’impegno comune.
5. Conclusioni
La questione del trattamento delle minoranze, d’altro canto, ha rappresentato negli ultimi vent’anni un rilevante problema politico all’interno degli Stati ex sovietici, quali le Repubbliche baltiche, l’Ucraina, la Georgia, in quanto l’influenza della minoranza russa ha sempre cercato di destabilizzare la situazione di tali paesi e di influire negativamente sullo sviluppo delle relazioni con la NATO, l’Unione europea e la Russia.
Il dibattito in materia, già nel gennaio 2012 (periodo di svolgimento dei convegni Sphere) risultava ampiamente sentito; forse a livello euro-istituzionale si pensava di svilupparne maggiormente la portata a tutto l’est-europeo, ma il tentativo barcollò con la rivoluzione di Maidan, due anni successiva, quando nel febbraio 2014, le proteste in Ucraina portarono alla caduta del presidente eletto Viktor Janukovyc e del governo di Azarov.
Questa rivolta dimostrò che il tema della tutela delle minoranze e dell’affermazioni di diritti su base egualitaria risultava di difficile contemperamento ai confini euro-orientali, in particolare nell’Ucraina, ove il riconoscimento del russo come lingua regionale ufficiale divideva il Paese. Certamente, già nel 2014 il problema sociopolitico ucraino si collegava direttamente alle sorti di questo Stato di frontiera, diviso tra la volontà di apertura verso l’Occidente, ed in particolare al mercato europeo, e dall’altra la paura di perdere la storica influenza russa, a cui proprio Janukovyč nel 2014 aveva ceduto, innescando le proteste filoeuropeiste.
Il recupero di questa breve riflessione a distanza di circa dieci anni dalla sua redazione dimostra, da un lato, l’attualità del tema e del dibattito, posto che per quanto si affermano e proclamano i diritti fondamentali permangono aree e ambiti di loro costante violazione o compressione, mentre dall’altro, che l’Europa in quest’ultimi dieci anni non ha fatto abbastanza nella politica dell’inclusione, prediligendo forse troppo le logiche di bilancio e di controllo del mercato, disinteressandosi o tralasciando le questioni dell’inclusione, che ai propri confini richiedevano priorità, a partire dalla gestione dei flussi immigratori, alla coesione interculturale, alla politica energetica e sociale.
La questione ucraina, che nelle ultime settimane abbiamo maggiormente compreso, presenta infatti profili di problematicità ormai sin dal 1994, quando questo Stato sancì il primo partenariato con la NATO e la sua promessa neutralità garantiva un difficoltoso cuscinetto tra il blocco occidentale e quello russo.
Probabilmente la richiesta che quei giovani studiosi provenienti da buona parte dell’Europa, Russia compresa, interessati a comprendersi e condividere la stessa passione per la libertà, a cui anche lo scrivente aveva partecipato, sostanzialmente affermando che l’Italia, al pari di moltissime altre nazioni offriva una tutela più formale, che sostanziale alle minoranze, rappresentava forse un monito per tutti i Legislatori europei di coltivare quella politica della Korenizzazione dei diritti fondamentali.
Tale termine (Korenizacija) - che deriva dalla politica dell’Unione sovietica per l’integrazione delle nazionalità non russe all’interno dei governi delle repubbliche sovietiche, mediante un eufemismo, associata ai diritti fondamentali - significa promuovere costantemente la cultura dei diritti e dello Stato di diritto in tutti quei Paesi ai confini dell’Europa, al fine di implementare le logiche del dialogo e del confronto avverso le affermazioni unilaterali d’identità, che sono alla base di ogni conflitto.
In tal guisa, affermare la portata fondativa degli human rights alla base della costruzione istituzionale, significa ripristinare il dibattito politico su termini differenti, ove autonomia ed uguaglianza non sono termini di per sé confliggenti, ma i poli entro i quali orientare politiche di cooperazione internazionale di stampo solidaristico, che esulino dai termini dei ricatti o dei giochi-forza economici-commerciali.
[1] Legge 482/1999 “Norme a tutela delle minoranze linguistiche storiche” pubblicata in Gazzetta Ufficiale n.297 del 20 dicembre 1999. La legge è stata emanata a seguito della ratifica da parte dell’Italia della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, con L. n. 302/1998.
[2] MINISTERO DELL’INTERNO, “Terzo rapporto dell’Italia sull’attuazione della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali” (ex. Art.25 paragrafo 2), Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Direzione centrale per i Diritti Civili, la Cittadinanza e le Minoranze, anno 2009.
[3] Relazione Workshop Scuola di dottorato in Scienze Umane e sociali- 30 marzo 2012 A seguito della partecipazione al Progetto Europeo “Sphere”, svoltosi a Tallinn (Estonia) nel mese di gennaio 2012, ove giovani delegazioni di ricercatori e studenti di cinque nazioni (Italia, Russia, Inghilterra, Georgia ed Estonia) hanno potuto analizzare e interrogarsi sui diversi gradi di tutela offerti alle minoranze linguistiche e culturali nei vari stati nazionali. Progetto EU “Youth in Action” Programme – Education and Culture DG- organizzato da NGO Sphere, “Is There One or Several European Spheres, Tallinn (Estonia), 6-13 gennaio 2012
[4] Per quanto riguarda il concetto di comunità storiche, che risiedono stabilmente sul territorio nazionale, e per lo più in territori stanziati, oppure in relazione ad alcuni forti regionalismi, che mantengo una propria identità culturale, ad es. la Sardegna o il Friuli-Venezia-Giulia, si rimanda a AMIRANTE-PEPE, Stato democratico e società multiculturale, Dalla tutela delle minoranze al riconoscimento delle diversità culturali, Giappichelli, Torino 2011.
[5] Corte Cost. sent. n. 42 del 24/02/2017.
[6] In tal senso: Corte Cost. sent. n. 88 del 2011, sulla tutela delle minoranze linguistiche come “principio fondamentale”; Corte Cost. sent. n. 62 del 1992 e sent. n. 15 del 1996, sul valore identitario della lingua; Cost. sent. n. 28 del 1982, sull’italiano come “unica lingua ufficiale del sistema costituzionale”; Corte Cost. sent. n. 159 del 2009, sul primato della lingua italiana e sul rapporto con essa delle lingue minoritarie protette.
[7] Da questo punto di vista: Corte Cost. sent. n. 383 del 1998, sull’ordinamento unitario della pubblica istruzione e sull’autonomia universitaria; Corte Cost. sent. n. 240 del 1974, sulla libertà d'insegnamento; Corte Cost. sent. n. 7 del 1967, sulla funzione della scuola e delle università.
[8] Risulta necessario osservare come la stessa immigrazione in Italia e in Europa sia profondamente mutata nel corso di questi ultimi dieci anni. I vari flussi immigratori, infatti, hanno contribuito fortemente, nell’attuale contesto sociale e politico, alla co-presenza di culture e stili di vita che formano universi multiculturali. La presenza di migranti, che risiedono solo temporalmente sul territorio di una nazione, la stessa struttura dell’immigrazione e della profuganza, ci obbligano pertanto a riflettere, inevitabilmente, sulle nostre organizzazioni istituzionali e sui cambiamenti delle possibili inclusioni da attuare, per gestire gli incontri fra individui di appartenenze differenti. M. DELLE DONNE, U. MELOTTI, Immigrazione in Europa. Strategie di inclusione-esclusione, Ediesse, Roma 2004.
[9] Rubricato “Diversità culturale, religiosa e linguistica”, l’art. 22 prescrive che “L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica”. In argomento cfr. C. PICIOCCHI, L’identità culturale e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in R. TONIATTI (a cura di), Diritto, diritti, giurisdizione. La Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, Cedam, Padova, 2002, cfr. 119.
[10] Si richiama la precisazione offerta dalla Corte costituzionale nella decisione n. 81 del 2018 secondo la quale “la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali […] contiene principalmente un elenco di diritti di natura individuale, ma non configura diritti collettivi dei gruppi minoritari”.
[11] E. PALICI DI SUNI PRAT, Intorno alle minoranze, Giappichelli, Torino 2002, «Ciò che lega una minoranza è infatti la conoscenza di un comune senso di appartenenza ad una collettività, che si caratterizza per motivi geografici, culturali, storici, linguistici o religiosi e che si trova in una posizione minoritaria», cit., pag. 7.
[12] P. BARRERA, I diritti delle minoranze nel crepuscolo degli stati nazionali, in “Democrazia e diritto” Trimestrale dell’Associazione CRS (Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato) anno 1992, n.1, cit., pag.72.
[13] STEPHEN CARNEY, JEREMY RAPPLEYE AND IVETA SILOVA, Between Faith and Science:World Culture Theory and Comparative Education, Comparative Education Review Vol. 56, No. 3 (August 2012), pp. 366-393, The University of Chicago Press.
[14] C. ZANGHI, Le minoranze. Storia semantica di un'idea, in "Rivista internazionale dei diritti dell'uomo", vol.1 1992, Milano, cfr. pag. 4.
[15] Op. cfr., pag 49.
[16] Sulla disciplina giuridica delle minoranze: R. TONIATTI, Minoranze e minoranze protette: modelli costituzionali comparati, In T. BONAZZI e M. DUNNE (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, Il mulino, Bologna 1994, cfr., pag. 273 ss.
[17] Sul piano sociale e politico, ritengo, non si possa vedere questi elementi in modo statico ma in tensione dinamica interna tra loro, nel corso della dissertazione spiegherò meglio da dove deriva la dinamicità di tale impostazione.
[18] In questi termini si inserisce lo stesso problema della cittadinanza, la quale, da una prospettiva di inclusione/esclusione, si scompone in due lati: il lato interno, non riguardando i criteri di distinzione tra cittadini e non cittadini, ha come argomento esclusivo il rapporto – e le sue concrete articolazioni – tra chi è cittadino, a prescindere dalle specifiche modalità con cui egli è divenuto tale, e l’ordine politico che gli ha attribuito questo status. Per questo l’attenzione è totalmente rivolta nei confronti dei modi di esercizio della cittadinanza. Il lato esterno, invece, ha come argomento i criteri giuridici secondo i quali alcuni soggetti, e non altri, sono considerati cittadini. Per questo l’attenzione è totalmente rivolta verso le modalità di attribuzione, e non di esercizio, della cittadinanza. Se il lato interno rappresenta la cittadinanza come una categoria inclusiva, il lato esterno la rappresenta invece come una categoria esclusiva. Parlando della cittadinanza come di uno strumento di inclusione si enfatizza perciò la dimensione relativa all’appartenenza e alla partecipazione: attraverso un forte sentimento di appartenenza e una partecipazione attiva alla vita pubblica si ritiene possibile costruire un legame solido tra cittadini e Stato, una cittadinanza effettiva e non solamente formale. Parlando della cittadinanza come di uno strumento di esclusione, invece, l’enfasi si sposta sulla dimensione relativa ai diritti: attraverso lo status giuridico di cittadino e i diritti associati a tale status, chi è incluso è separato da chi è escluso. Vd. D. ZOLO, La Cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza Editore, Bari 1999.
[19] Per quanto riguarda le procedure sociali di riconoscimento vd. M. HÉNAFF, On the Norm of Reciprocity, prima publicazione come Sur la norme de réciprocité, In Maesschack M. (dir.), Éthique et governance. Le enjeux actuels d’une philosophie des normes, New York, Olms, Hildesheim, 2009, pp.113-128; riprensentato in TCRS, quaderno 2010.
[20] Vd J.-C. Kaufmann, L’invention de soi. Une théorie de l’identité, Armand Colin, Paris 2004.
[21] Per un esame del processo identitario in una complessa ottica storico-sociale: P. LEGENDRE, Lo Sfregio. Alla gioventù desiderosa… Discorso a giovani studenti sulla scienza e l’ignoranza., Giappichelli Editore,Torino 2009, cit., pag. 24.
[22] P. RICOEUR, Sé come un altro, JacaBook, Milano 1993.
[23] L’insegnamento della storia, a sua volta, non va messo al servizio di un'operazione mitica o ideologica, che può produrre conseguenze pericolose, ma è mezzo di formazione di una coscienza critica, cioè via privilegiata per favorire la capacità di comprendere gli uomini e i fatti del proprio tempo alla luce del passato comune e di una prospettiva di convivenza civile che è sempre frutto di una faticosa costruzione unitaria.
[24] N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, «dalla considerazione dell’uomo in astratto a quella dell’uomo nelle sue diverse fasi della vita e nei suoi diversi stati», cit., pagg. 62-72.
[25] F. VIOLA, Diritti umani tra cittadinanza e comunità internazionale, in Orientamenti sociali, n. 1/96, Roma 1996, cfr. pag. 36.
[26] Per la dignità umana è avvenuto del corso della seconda metà del secolo scorso qualcosa di simile a quello che si sta verificando ora in tema di cittadinanza. Se da principio essa riguardava l’uomo in astratto, come ente generico, indipendentemente da qualsiasi determinazione concreta (sesso, colore, lingua, etc.) riservando a ciascun uomo il diritto ad essere trattato come qualsiasi altro uomo, in seguito si è passati a considerare l’uomo in concreto nella specificità dei suoi diversi status, differenziati a seconda del sesso, dell’età, delle condizioni fisiche o sociali.
[27] P. CAPPS, Human Dignity and the foundations of international law, Studies in international law, Oxford 2009.
[28] R. DWORKIN, La Democrazia possibile, Principi per un nuovo dibattito politico, Milano 2007.