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Pubbl. Lun, 21 Mar 2022

Divorzio: ripartizione del TFR tra divorziato e coniuge superstite

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Francesca Carpinelli



Il presente lavoro intende commentare la pronuncia della Cassazione civile, sez. I, 23 luglio 2021, n. 21247 partendo da quanto disposto dagli artt. 9 e 12bis della L. 898/1970. Tale norma prevede, infatti, che l´ex coniuge divorziato abbia diritto, in assenza di nuove nozze, ad una percentuale dell´indennità di fine rapporto percepita dall´altro coniuge all´atto della cessazione del rapporto di lavoro nonché ad una quota della pensione di reversibilità.


ENG This work intends to comment on the ruling of the Civil Cassation, section I, 23 July 2021, n. 21247 starting from articles 9 and 12 bis of Law 898/1970. This rule provides, in fact, that the divorced ex spouse is entitled, in the absence of a new marriage, to a percentage of the severance indemnity received by the other spouse upon termination of the employment relationship as well as to a portion of the pension. of reversibility.

Sommario: 1. Introduzione; 2. L'assegno divorzile e l'indennità di fine rapporto; 3. Pensione di reversibilità e divorzio; 4. Profili interpretativi della Corte di Cassazione; 5. Conclusioni. 

1. Introduzione

Il divorzio è l’istituto giuridico mediante il quale l’ordinamento prevede lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio nel caso in cui tra i coniugi sia venuta meno la comunione spirituale e materiale di vita. Per ragioni religiose, morali e politiche l’ordinamento italiano ha dovuto attendere a lungo per ottenere una disciplina che finalmente consentisse lo scioglimento definitivo dell’unione matrimoniale; gli storici raccontano del susseguirsi di circa undici proposte di legge sul divorzio che, però, non vennero mai approvate per precisa scelta politica o  per la caduta delle legislature che ne erano promotrici.

Fu l’onorevole Gregorio Fontana a sostenere la proposta di legge per i “casi di scioglimento di matrimonio” che, unita alla successiva proposta dell’onorevole Antonio Baslini, è sopravvissuta nel tempo ed è stata approvata il 1° dicembre 1970 con la Legge n. 898/1970. Tale normativa aveva il merito di rappresentare i mutamenti profondi che erano avvenuti nel costume e nella morale del Paese tanto che anche in seguito, quando la legge sul divorzio venne messa in discussione e sottoposta a referendum abrogativo, furono 19.930.929 i cittadini a votare “NO” all’abrogazione della Legge.

La normativa in oggetto, soggetta al trascorrere del tempo ed alla modifica delle esigenze cui è sottesa, sopravvive negli anni grazie alle modifiche ed alle interpretazioni che la seguono e che danno importanti spunti di riflessione ed approfondimento. Uno di questi è sicuramente quello che riguarda la disciplina del TFR in relazione al quale, secondo quanto specificato recentemente dalla Corte di Cassazione[1], una percentuale deve essere riconosciuta a favore del coniuge divorziato entro alcuni limiti e seguendo alcuni parametri.

2. L'assegno divorzile e l'indennità di fine rapporto

Secondo quanto previsto dall’art. 5 della L. 898/1970 il Tribunale che si pronunci sullo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio deve tener conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune nonchè del reddito di entrambi. Il giudice deve valutare tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. 

Alla luce di tanto, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile non si limita a prendere in esame le condizioni economiche del coniuge che ne richiede il beneficio; ciò che conta è il confronto tra le rispettive potenzialità economiche dei coniugi e la loro attitudine a procurare introiti futuri. L’assegno di divorzio vuole consentire all’ex coniuge di fruire di un tenore di vita dignitoso ed agiato che possa quanto più avvicinarsi agli standard di vita di cui si è goduto in costanza di matrimonio.

La sentenza n. 11504/2017 della Corte di Cassazione[2] ha però precisato che il riferimento al tenore di vita in sede di valutazione del diritto all’assegno divorzile deve essere rivisto perché non più attuale; la Suprema Corte sottolinea quanto il divorzio, avendo come effetto l’estinzione del rapporto patrimoniale sul piano personale ed economico-patrimoniale, non debba consentire che mediante l’assegno si possa ripristinare un rapporto «in una indebita prospettiva, per così dire, di ultrattività del vincolo matrimoniale».

Partendo da siffatte considerazioni, la Corte ha stabilito che deve essere definitivamente cancellato il parametro del tenore di vita – da tener presente solo in una fase successiva ed eventuale, quella del quantum debeatur - e sostituito con il parametro del raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente. In breve, qualora il richiedente sia economicamente indipendente o in grado di esserlo non potrà essergli riconosciuto il diritto all’assegno divorzile.

Quando all’ex coniuge sia stata riconosciuta la corresponsione dell’assegno divorzile, l’art. 12 bis della Legge sul divorzio prevede che «il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto titolare dell’assegno di cui all’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene maturata dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio». Già il Codice civile all’art. 2122 prevede, infatti, che in caso di morte del prestatore di lavoro le indennità dovute per recesso dal contratto a tempo indeterminato o per trattamento di fine rapporto debbano essere corrisposte al coniuge, ai figli ed ai parenti entro il 3° o affini entro il 2° che vivano a carico del prestatore di lavoro.

Alla base della disposizione di legge si rinvengono chiaramente sia fini assistenzialistici sia, in pari misura,  perequativi e compensativi, che devono necessariamente sopravvivere alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Quanto detto risponde all'esigenza di rispettare il principio di solidarietà post coniugale racchiuso negli artt. 2 e 29 della Costituzione. E' a tal riguardo la stessa Corte di Cassazione a chiarire che il riconoscimento dell'assegno divorzile presuppone l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive; parametri alla base della citata valutazione devono essere la comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, il contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune, la durata del matrimonio e l'età dell'avente diritto[3]. Accanto a questo, occorre tener presente però che i principi di autodeterminazione e di responsabilità devono intendersi alla base della scelta matrimoniale e della impostazione scelta durante il matrimonio: i coniugi al momento delle nozze decidono come impostare la propria vita coniugale fissando e definendo il contributo di ciascuno nella realizzazione della vita familiare. Per tali motivi, al momento del divorzio appare fondamentale compensare e riequilibrare le distinte posizioni dei coniugi, tenendo conto dell'apporto che ciascuno di loro ha dato allo svolgimento della vita matrimoniale e familiare[4]

Il diritto ad una quota dell’indennità percepita dall’ex coniuge all’atto della cessazione del proprio rapporto di lavoro, come anticipato, deve però essere subordinato alla sussistenza di due fondamentali requisiti: la qualità di coniuge divorziato e la titolarità dell’assegno divorzile.

Tuttavia, va sottolineato che l’indennità è riconosciuta all’ex coniuge nel solo in caso in cui essa sia stata percepita dal beneficiario contestualmente o successivamente al deposito della domanda di divorzio in quanto, secondo quanto sottolineato dalla Suprema Corte, «la ratio dell’art. 12 bis è quella di correlare il diritto alla quota di indennità ancora non percepita dal coniuge al quale essa spetti al diritto all’assegno divorzile, il quale in astratto sorge, ove spettante, contestualmente alla domanda di divorzio, allorché – di regola – esso venga costituito in concreto e divenga esigibile solo dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che lo liquidi»[5].

3. Pensione di reversibilità e divorzio

La pensione di reversibilità è un trattamento pensionistico che viene riconosciuto ai superstiti del pensionato deceduto o del soggetto che, pur non avendo maturato ancora il diritto alla pensione, avesse preventivamente stipulato un’assicurazione. Perché venga riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità, è necessario che il soggetto fosse “a carico” e convivente del pensionato al momento della morte, perchè non economicamente autonomo o comunque non in grado di mantenersi da solo. Tale diritto previdenziale sorge in capo ai beneficiari con decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificata la morte del pensionato e trova la sua giustificazione nel principio di solidarietà personale.

Il coniuge rientra tra i soggetti che hanno diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità, sia nel caso in cui alla morte fossero ancora stabilmente coniugati e conviventi e sia nel caso in cui, invece, fosse separato o divorziato dal pensionato defunto. La ratio di tanto sta nel fatto che - come già detto con riferimento all’assegno divorzile - la solidarietà deve permanere anche nel momento post-coniugale e non può venir meno con la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Perché al coniuge divorziato possa essere riconosciuta la pensione di reversibilità, è necessario che questo non sia passato a nuove nozze, sia titolare dell’assegno divorzile così come disciplinato dall’art. 5 della L. 898/1970 e che il rapporto lavorativo da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio.

Secondo quanto previsto dall’art. 9 della L. 898/1970, infatti, «In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza». Come facilmente deducibile dalla disposizione di legge, per l’attribuzione dell’azione di reversibilità in capo al coniuge divorziato è condizione imprescindibile il riconoscimento giudiziale della titolarità dell’assegno divorzile e la Suprema Corte specifica che «resta irrilevante la modalità solutoria del debito, pattuita fra le parti – come nella specie – in forma una tantum, come espressamente consentito dall’art. 5, ottavo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in via alternativa all’ordinaria corresponsione periodica»[6].

La Giurisprudenza si è spesso trovata, però, di fronte alla necessità di regolamentare i casi in cui risultassero esistenti più coniugi in possesso dei requisiti stabiliti dal predetto articolo; la disposizione di legge, infatti, non si riferisce ad aliquote di pensione spettanti ai coniugi divorziati, così lasciando la regolamentazione di tali fattispecie nelle mani degli interpreti del diritto.

Il comma terzo dell'art. 9 si limita a fornire alcune linee guida stabilendo che «qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli assegni, nonchè a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze». 

Le pronunce susseguitesi nel tempo hanno chiarito che il trattamento di reversibilità, qualora dovesse essere ripartito tra ex coniuge e coniuge superstite, dovrebbe essere assegnato tenendo conto da un lato la durata del rapporto e dall'altra altri elementi di carattere equitativo che possono essere applicati con discrezionalità. Fra tali correttivi è possibile includere la durata dell'eventuale convivenza prematrimoniale del coniuge superstite nonchè l'entità dell'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge[7]

4. Profili interpretativi della Corte di Cassazione

La questione è stata spesso affrontata dalla Giurisprudenza, tanto che nel 2021 la stessa Corte di Cassazione con ordinanza n. 21247 è ritornata sul punto chiarendo quanto necessario in tema di divorzio, pensione, reversibilità e TFR. 

Il ricorso n. 17796 era proposto da soggetto che, in proprio ed in qualità di genitore esercente la potestà sulla figlia minore, chiedeva fosse cassato il decreto n. 33/2017 depositato dalla Corte di Appello di Potenza in data 27 aprile 2017. La causa vedeva contrapposte le posizioni di un ex coniuge, un coniuge superstite e due figli che – a seguito di morte del lavoratore – chiedevano il riconoscimento di una giusta quota del trattamento di fine rapporto.

La Corte d’Appello aveva affermato che dovesse essere assegnato il 40% dell’intero al coniuge divorziato e che tale proporzione dovesse essere determinata con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro era coinciso con il matrimonio. La somma restante doveva poi essere suddivisa tra il coniuge superstite e i figli secondo comune accordo o, in mancanza, considerando lo stato di bisogno di ciascuno. Nello specifico i Giudici, mediante consulenza tecnica d’ufficio, disponevano che il bisogno di ciascuno potesse essere sostanzialmente sovrapponibile così da rendere equa una suddivisione paritaria tra gli aventi diritto. La presente decisione era impugnata dal coniuge superstite che proponeva ricorso per Cassazione contestando il decreto della Corte d’Appello con atto affidato a sei motivi.

Innanzitutto, il ricorrente impugnava la decisione della Corte d’Appello asserendo che questa contenesse una contraddittoria e insufficiente motivazione con riguardo all’attribuzione al coniuge divorziato della quota della pensione di reversibilità pari a € 100,00. Egli sosteneva che la Corte, non avendo motivato adeguatamente la propria decisione di lasciare lo stesso importo dell’assegno di divorzio anche per la pensione di reversibilità, consentiva di proporre ricorso per Cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per i giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»[8].

La Corte di Cassazione riteneva tale motivo inammissibile in virtù di quanto previsto in tema di insufficiente, omessa o contraddittoria motivazione; tuttavia, secondo quanto già chiarito dagli Ermellini, il vizio di motivazione può essere portato in Cassazione solamente per violazione di legge processuale costituzionalmente rilevante e quando, cioè, il difetto denunciato attiene alla stessa esistenza della motivazione[9].  L’omessa motivazione riferita ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio o ad una precisa circostanza in senso storico/naturalistico non è assimilabile a questioni o argomentazioni che risultano irrilevanti ed inammissibili[10]. Il “fatto” deve coincidere con un preciso accadimento ovvero con una precisa circostanza in senso storico/naturalistico, deve essere decisivo per potersi configurare il vizio ed è necessario che se non fosse stato omesso la decisione avrebbe preso probabilmente una direzione diversa.

Nel caso di specie, la carenza di motivazione era dedotta con riferimento alla determinazione della quota della pensione di reversibilità con riferimento allo stesso importo dell’assegno di divorzio benché la reversibilità ammontasse alla metà dello stipendio; il ricorrente, quindi, contrapponendosi alle decisioni della Corte d’Appello non si era reso conto che quest’ultima aveva da un lato tenuto conto del minore importo della pensione rispetto a quello della retribuzione percepita in vita e, dall’altro, aveva ritenuto che indicare un importo inferiore sarebbe stato irrispettoso della funzione solidaristica attribuita alla quota stessa.

Il secondo motivo dedotto dal ricorrente riguardava, invece, la violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ai sensi dell’art. 112 del Codice di procedura civile; egli accusava il Giudice di secondo grado di non essersi pronunciato sulla richiesta di determinazione della quota della pensione di reversibilità. In questo caso, la Corte di Cassazione riteneva il motivo inammissibile per difetto di autosufficienza. Nell’eccepire tale motivo, infatti, il ricorrente non aveva fatto alcun riferimento agli atti processuali, non consentendo  di conseguenza alla Corte di effettuare una verifica prima facie sulla fondatezza della doglianza.

L’art. 112 del Codice di procedura civile sancisce, infatti, che il giudice debba pronunciarsi su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; perché possa dedursi utilmente in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia è necessario, però, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali la pronuncia si sia resa necessaria ed ineludibile. Inoltre, affinché la Giurisprudenza di legittimità possa validamente pronunciarsi su una siffatta violazione, è necessario che le istanze vengano riportate puntualmente nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del loro contenuto. Per poter validamente pronunciarsi anche sul “fatto processuale”, il Giudice avrebbe dovuto esaminare direttamente gli atti processuali così come puntualmente indicati dalla parte; alla luce di questo, sarebbe stato onere del ricorrente indicare compiutamente gli atti processuali, non consentendo il ricorso per cassazione rinvio per relationem agli atti della fase di merito[11]. Quanto detto non è stato fatto dal ricorrente.

Il terzo motivo dedotto dal ricorrente riguardava la presunta violazione dell’art. 2122 del Codice civile in base al quale: «In caso di morte del prestatore di lavoro le indennità degli artt. 2118 e 2120 devono corrispondersi al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il 3° grado e agli affini entro il 2°. La ripartizione, se non vi è accordo, deve avvenire secondo il bisogno di ciascuno». Il ricorrente nello specifico asseriva che nel calcolare la quota del trattamento di fine rapporto da attribuire agli eredi, i Giudici di secondo grado avrebbero dovuto tener conto del fatto che il lavoratore deceduto aveva lasciato una bambina di 10 anni che – dovendo arrivare alla maturità ed alla indipendenza economica senza il sostegno del padre – avrebbe dovuto avere una quota maggiore rispetto agli altri figli. Anche questo terzo motivo veniva dichiarato inammissibile.

La Corte di Cassazione chiariva che la valutazione del giudice rispetto al bisogno di ciascuno dei figli è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito dovendo, per questo, essere sottratta alla valutazione di legittimità. Non può quindi farsi valere in questo caso il vizio perché la decisione di merito avrebbe potuto essere impugnata se presa in violazione o falsa applicazione di norme di diritto[12]. Al contrario, la Corte d’Appello aveva delegato ad una consulenza tecnica d’ufficio il compito di precisare il bisogno di ciascun figlio; da quest’ultima era evincibile che i figli avessero un bisogno sostanzialmente sovrapponibile così da ritenere equa una suddivisione paritaria tra i medesimi della quota di trattamento di fine rapporto maturata dal padre. Infatti, se una delle due figlie era minorenne e non autosufficiente, l’altra seppur maggiorenne aveva a proprio carico un marito e due figli.

Se fino a questo punto i motivi dedotti dal ricorrente sono stati interamente rigettati dalla Corte di Cassazione, la situazione cambia con riferimento agli ultimi tre motivi che, riguardando l’attribuzione al coniuge superstite ed al coniuge divorziato del trattamento di fine rapporto, sono stati trattati in modo unitario.

Innanzitutto, il ricorrente lamentava che il decreto d’appello avesse violato l’art. 360 co 1 n. 3[13] e l’art. 2122 del Codice civile[14] attribuendo al coniuge divorziato una quota del trattamento di fine rapporto determinata in base agli anni di matrimonio e non considerando gli anni di convivenza. In violazione di quanto disposto dall’art. 360 co 1 n. 5[15] la Corte non aveva tenuto conto del periodo di matrimonio del coniuge superstite e, infine, del periodo che andava dalla separazione al divorzio durante il quale gli ex coniugi avevano già cessato la convivenza.

A tal riguardo, la Corte di Cassazione sottolineava l'orientamento ormai pacifico della Giurisprudenza nel determinare la quota-parte della indennità di fine rapporto spettante "a più coniugi" suddividendo la quota di spettanza del coniuge superstite e facendo incidere su di essa il parallelo diritto del coniuge divorziato[16]. L'art. 2122 del Codice civile, infatti, disciplina l'indennità di fine rapporto prevedendo che in caso di morte del lavoratore, ai fini della determinazione della quota spettante al coniuge superstite, debba tenersi conto - in mancanza di un accordo tra gli aventi diritto - della regola aurea del bisogno di ciascuno.

favore dei soggetti indicati dal citato articolo opera una "riserva legale di destinazione" che fa perdere qualsiasi rilevanza alla funzione previdenziale dell'indennità di fine rapporto; in questo modo, la natura retributiva dell'indennità di fine rapporto fa sì che al caso di specie possano essere applicate non solo le regole della successione legittima ma anche quelle della successione testamentaria[17]. Questa convinzione portava la Corte di Cassazione a ribadire il principio secondo cui nel caso di scioglimento del rapporto di lavoro a causa di morte del dipendente, ai fini della ripartizione della indennità di fine rapporto tra il coniuge divorziato ed il coniuge superstite del defunto, dovesse essere applicato il criterio della durata dei rispettivi matrimoni[18].

Diritto del coniuge superstite e diritto del coniuge divorziato hanno, quindi, natura previdenziale identica concorrendo fra loro in pari grado e iure proprio in ragione dei rispettivi rapporti di coniugio. Secondo quanto previsto dalla Legge n. 898/1970 e succ. mod., infatti, il coniuge divorziato ha diritto ad ottenere una quota dell'indennità di fine rapporto  maturata dall'ex coniuge lavoratore in quanto egli stesso ha contribuito indirettamente all'accantonamento della indennità nel periodo di vigenza del matrimonio. L'art. 12 bis della L. 898/1970 a tal riguardo sancisce che «il coniuge divorziato ha diritto , se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, ad una percentuale dell'indennità pari al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio».

Alla stregua di tanto, dunque, la Cassazione chiariva che al coniuge divorziato, nel caso di concorso di plurimi aventi diritto, dovesse essere attribuita una quota della quota: tra i due o più coniugi doveva dividersi la quota di spettanza del coniuge superstite, come preventivamente determinata in ragione del concorso di questi con gli altri superstiti aventi diritto. La Giurisprudenza chiariva che la ripartizione del trattamento di reversibilità doveva essere effettuata non solo guardando alla durata del matrimonio, bensì ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell'istituto, quali ad esempio la durata della convivenza prematrimoniale quale stabile ed effettiva comunione di vita prematrimoniale[19]

La pronuncia della cassazione n. 21247/2021, quindi, sottolineava come la Corte d'Appello di Potenza non avesse tenuto conto dei principi finora enunciati; essa si era limitata ad assegnare il 40% dell'intero al coniuge divorziato con riferimento agli anni in cui la prestazione di lavoro era coincisa con il matrimonio, suddividendo la somma restante tra il coniuge superstite ed i figli a seconda dello stato di bisogno di ciascuno. Ulteriore criticità era rinvenuta nel fatto che la Corte avesse tenuto conto della sola durata del matrimonio, non accennando minimamente nè al periodo di convivenza precedente alle nozze nè al periodo di separazione di fatto precedente alla pronuncia di separazione effettiva. 

Alla luce di tanto, il provvedimento impugnato era cassato con rinvio alla Corte di appello di Potenza che, con composizione diversa, avrebbe dovuto rideterminare la quota dell'indennità di buonuscita spettante al ricorrente. 

5. Conclusioni 

L'ordinanza in esame ha permesso di fare luce su una questione che più di una volta ha diviso ed interrogato la giurisprudenza di merito. Si è finalmente chiarito che in tema di regolamentazione della crisi coniugale l'art. 12 bis della L. 898/1970 si inserisce nella regolamentazione dei rapporti tra coniugi divorziati prevedendo che il coniuge divorziato, quando non sia passato a nuove nozze e sia titolare di assegno divorzile, ha diritto ad una percentuale della indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cassazione del rapporto di lavoro.

Il calcolo di tale percentuale deve ritenersi pari al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio. Passaggio ulteriore deve essere poi quello individuato dall'art. 9 della L. 898/1970 che regola, invece, il caso in cui vi sia concorso tra un coniuge superstite e coniuge divorziato; in questo caso, quando abbiano entrambi i requisiti per ottenere l'indennità, la quota spettante al coniuge superstite dovrà essere divisa tra i due tenendo conto della durata del matrimonio nonchè della durata della convivenza che si provi sia stata stabile ed effettiva comunione di vita.

Pertanto, se da un lato il Giudice deve tener conto dell'elemento temporale relativo alla durata dei relativi matrimoni, considerato imprescindibile nella valutazione, non può far sì che esso divenga criterio esclusivo nell'apprezzamento giudiziale.  


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cassazione civile, sez. I, 23 luglio 2021, ordinanza n. 21247 in "Divorzio: ripartizione del TFR tra divorziato e coniuge superstite" (2021), Il Quotidiano Giuridico, Famiglia e Successioni, Wolters Kluwer secondo cui «in relazione alla determinazione della quota-parte della indennità di fine rapporto da ripartire tra i coniugi - nell'ipotesi in cui oltre a questi esistano, come nella specie, anche figli del lavoratore defunto aventi diritto alla predetta indennità ai sensi dell'art. 2122 co 1 Codice civile - il principio di diritto secondo cui, dal coordinamento dell'art. 9 co 3 della L. 898/1970 con l'art. 2122 co 2 Codice civile al coniuge va attribuita una quota della quota: per cui tra i due coniugi dovrà in pratica suddividersi la quota di spettanza del coniuge superstite, come preventivamente determinata in ragione del concorso di questi con gli altri aventi diritto ex art. 2122 co 1 del Codice civile»

[2] Cassazione civile, sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 in  "Corte di Cassazione, Sentenza n. 11504/2017, relativa alla disciplina dell’assegno di divorzio: il criterio è l'autosufficienza e non il tenore di vita", Federalismi - Rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo, n. 10/2017 secondo cui: «Sull'attuale rilevanza del tenore di vita matrimoniale come parametro condizionante e decisivo del giudizio sul riconoscimento del diritto all'assegno, non incide - come risulterà chiaramente alla luce delle successive osservazioni - la mera possibilità di operarne in concreto un bilanciamento con altri criteri, intesi come fattori di moderazione e diminuzione di una somma predeterminata in astratto sulla base di quel parametro. A distanza di quasi ventisette anni, il Collegio ritiene tale orientamento, per molteplici ragioni che seguono, non più attuale, e ciò esime dall'osservanza dell'art. 374 co 3 cod. proc. civ. Il parametro del tenore di vita - se applicato anche nella fase dell'an debeatur - collide radicalmente con la stessa natura dell'istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti con la sentenza di divorzio il rapporto patrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale, a differenza di quanto avviene per la separazione personale che lascia in vigore, seppur in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all'art. 143 cod. civ».

[3] Cassazione civile, Sez. II, ordinanza n. 26682 del 1 ottobre 2021 in CED Cass. secondo cui: «l'età avanzata della moglie e le sue scarse competenze professionali legittimano la richiesta dell'assegno divorzile quali fattori impeditivi all'inserimento nel mondo del lavoro, a nulla rilevando la convivenza prolungata con un altro uomo poichè questa non presenta le caratteristiche di un progetto di vita comune capace di portare alla creazione di una vera famiglia di fatto. Nella fattispecie, la donna aveva provato in giudizio di aver sacrificato un potenziale percorso lavorativo per dedicarsi alla completa cura della famiglia».

[4] Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza n. 18287 del 11 luglio 2018, in CED Cass. secondo cui «Il giudizio di adeguatezza impone una valutazione composita e comparativa che trova nella prima parte della norma i parametri certi sui quali ancorarsi. La situazione economico-patrimoniale del richiedente costituisce il fondamento della valutazione di adeguatezza che, tuttavia, non va assunta come una premessa meramente fenomenica ed oggettiva, svincolata dalle cause che l'hanno prodotta, dovendo accertarsi se tali cause siano riconducibili agli indicatori delle caratteristiche della unione matrimoniale così come descritti nella prima parte dell'art. 5 co 6, i quali, infine, assumono rilevo direttamente proporzionale alla durata del matrimonio. Solo mediante una puntuale ricomposizione del profilo soggettivo del richiedente che non trascuri l'incidenza della relazione matrimoniale sulla condizione attuale, la valutazione di adeguatezza può ritenersi effettivamente fondata sul principio di solidarietà che, come illustrato, poggia sul cardine costituzionale fondato dalla pari dignità dei coniugi (artt. 2,3,29 Cost.). Il parametro dell'adeguatezza contiene in sè una funzione equilibratrice e non solo assistenziale-alimentare».

[5] Cassazione civile, Sez. I, 6 giugno 2011, n. 12175 dep. 06/06/2011 in CED Cass, op. cit.

[6] Cassazione civile, Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16744 in CED Cass. secondo cui «In tema di trattamento economico in favore del coniuge divorziato, il riconoscimento giudiziale della titolarità dell'assegno divorzile è condizione per l'attribuzione di una quota della pensione di reversibilità, mentre resta irrilevante la modalità solutoria del debito, pattuita fra le parti – come nella specie – in forma una tantum, come espressamente consentito dall’art. 5, ottavo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in via alternativa all’ordinaria corresponsione periodica». 

[7] Cassazione civile, Sez. I, 21 giugno 2012, n. 10391 in Rivista Familia, n. 2/2022 secondo cui: «la ripartizione del trattamento di reversibilità, in cado di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, deve essere effettuata ponderando, con prudente apprezzamento, in armonia con la finalità solidaristica dell'istituto, il criterio principale della durata dei rispettivi matrimoni, con quelli correttivi, eventualmente presenti, della durata della convivenza prematrimoniale, delle condizioni economiche e delle entità dell'assegno divorzile. Più in particolare, la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alle finalità solidaristica dell'istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza more uxorio non una semplice valenza correttiva dei risultati derivanti dall'applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale». 

[8] Art. 360 del Codice di Procedura Civile, comma 1, n. 5.

[9] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 8053/2014 in "Sezioni Unite e vizi ex art. 360 c.p.c.: requisiti e prova del fatto storico non esaminato dal giudice", in Studio Cataldi, 14 aprile 2014. 

[10] Corte di Cassazione, sentenza n. 24035 del 3 ottobre 2018 in CED Cass. secondo cui:  «Invero, è pacifico che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per un'erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, eventualità, quelle in discorso, che nulla hanno a che vedere con la fattispecie considerata».

[11] Corte di Cassazione n. 11738 dell’8 giugno 2016; Corte di Cassazione n. 15367 del 4 luglio 2014; Corte di Cassazione n. 5344 del 4 marzo 2013 in CED Cass.

[12] Art. 360 del Codice di procedura civile, comma 1, n. 3.

[13] Art. 360 co 1 n. 3 del Codice di procedura civile «Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro».

[14] Art. 2122 del Codice civile «In caso di morte del prestatore di lavoro le indennità degli artt. 2118 e 2120 devono corrispondersi al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il 3° grado e agli affini entro il 2°. La ripartizione, se non vi è accordo, deve avvenire secondo il bisogno di ciascuno».

[15] Art. 360 co 1 n. 5 del Codice di procedura civile «Le sentenze pronunziate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

[16] Corte di Cassazione, sentenza del 4 febbraio 2000, n. 1222 in Brocardi, art. 9 L. sul Divorzio, secondo cui:  «Ove, oltre al coniuge divorziato ed al coniuge superstite, esistano anche figli del lavoratore defunto (e/o altri parenti od affini a suo carico) aventi diritto alla indennità di buonuscita ai sensi dell'art. 2122 c.c., dal coordinamento di tale disposizione con l'art. 9 della legge 898/70 si estrae complessivamente la regola che al coniuge divorziato, nella fattispecie considerata (di concorso di plurimi aventi diritto), va attribuita una quota della quota del coniuge superstite; per cui, tra i due (od eventualmente più) coniugi, dovrà in pratica, suddividersi la quota di spettanza del coniuge superstite, come previamente determinata in ragione del concorso di questi con gli altri superstiti aventi diritto ex art. 2122, comma primo, c.c. Devesi, per altro, precisare, ai fini di tale preventiva determinazione, che dei due criteri all'uopo indicati dal predetto art. 2122 c.c. — secondo il quale la ripartizione della indennità se non vi è accordo tra gli aventi diritto (primo), deve farsi secondo il bisogno di ciascuno (secondo) —non risulta applicabile, giacché incompatibile, il primo, e rileva quindi unicamente il successivo (ripartizione secondo il bisogno)».

[17] Corte Costituzionale, sentenza n. 8 del 19 gennaio 1972; Corte Costituzionale sentenza n. 106 del 4 aprile 1996; Corte Costituzionale sentenza n. 458 del 23 dicembre 2005 in CED Cass. 

[18] Corte di Cassassazione, I Sezione Civile, 23 luglio 2021, n. 21247, op. cit. 

[19] Corte di Cassazione, sentenza n. 16093 del 21 settembre 2012; Corte di Cassazione, sentenza n. 10391 del 21 giugno 2012 in CED Cass.