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Pubbl. Mar, 15 Feb 2022

L´Adunanza Plenaria sulla natura della responsabilità della Pubblica Amministrazione per il danno da ritardo

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Alessandra Mozzi



Con il presente lavoro, si intende offrire un quadro normativo e giurisprudenziale sull´attuale rapporto tra i termini di durata del procedimento amministrativo e le conseguenze del loro mancato rispetto, focalizzando in particolare la ricostruzione del ”danno da ritardo” data dalla pronuncia n. 7/2021 dell´Adunanza Plenaria.


ENG The present paper is aimed to give a frame-work, based partly on the regulations and on the case-law about the connexions between the lenght of the administrative procedures and the consequences deriving from the lack of its respect, especially due to the last pronouncement of the Adunanza Pleanaria about the restorations of the delay-damages.

Sommario: 1. Il tempo nella disciplina del procedimento amministrativo; 2. Il danno da ritardo procedimentale, tra ricostruzioni normative e giurisprudenziali; 3. Il profilo extracontrattuale della responsabilità da ritardo; 4. L’Adunanza Plenaria n. 7/2021; 5. Quantum risarcitorio ed il ruolo centrale della liquidazione equitativa; 6. Ritardo della Pubblica Amministrazione e oneri di attivazione del privato; 7. Il comportamento del danneggiato. Rimedi procedurali e processuali; Ritardo procedimentale e danni non-patrimoniali. Risarcibilità della “mera attesa”; 9. Conclusioni.

1. Il tempo nella disciplina del procedimento amministrativo

L’attività amministrativa può definirsi un tipo di attività funzionalizzata, doverosa e formale. Tali caratteri, implicitamente ricavabili dall’art. 1 della l. 241/1990, a loro volta derivano dai principi di legalità, buon andamento e imparzialità della PA fissati dalla Costituzione (art. 97 Cost.), e sono esplicitati dai numerosi “criteri”[1], di sicura valenza precettiva, tale che il loro mancato rispetto può determinare l’illegittimità del singolo atto amministrativo.

A differenza di quanto accade nei rapporti fra privati, guidati dalla libertà di iniziativa contrattuale, nonché di decidere quale contenuto conferire ai propri rapporti, nei procedimenti ad istanza di parte, la PA è tenuta a provvedere (an), rispettando le modalità prescritte dalla legge (quomodo), nonché, specie nel caso si tratti di poteri vincolati, dotando l’atto terminale del procedimento di un determinato contenuto (quid), ed infine adottandolo entro tempi certi (quando).

In quanto direttamente espressivi del principio di legalità e tesi a creare una situazione di interesse legittimo o quantomeno di aspettativa legittima nel soggetto privato destinatario del provvedimento, in sede di valutazione della responsabilità amministrativa assumono particolare rilevanza i profili inerenti alla “certezza” dell’agere amministrativo.

Attinenti a tale profilo sono le norme che disciplinano il tempo dell’attività amministrativa, che risulta in molte ipotesi scandito entro termini volti a disciplinarne l’impulso, l’iter di svolgimento, nonché la fine. Il legislatore ha recentemente apprestato particolare attenzione a quest’ultimo aspetto, in sé è volto a racchiudere le garanzie di svolgimento dell’attività amministrativa secondo canoni di efficienza, economicità ed efficacia e lo sviluppo del rapporto giuridico tra amministrazione e privato secondo quelli di correttezza e buona fede, al fine di evitare che il potere autoritativo possa venire esercitato sine die.

Con due recenti decreti-legge adottati a brevissima distanza temporale 76/2020 e 77/2021 (“Decreto Semplificazioni” e “Decreto Semplificazioni-bis”) ci si è preoccupati di ri-definire il rapporto tra tempo ed attività amministrativa, promuovendone un più efficace coordinamento nell’ottica della riduzione e accelerazione per quelle funzioni amministrative aventi maggiore impatto su cittadini ed imprese[2].

Già previsto dall’ art. 2 della legge sul procedimento amministrativo, (Legge n. 241/1990) il dies ad quem entro cui la Pubblica Amministrazione incaricata di provvedere deve emettere l’atto terminale nei confronti del privato costituisce un carattere distintivo tra l’attività amministrativa e l’autonomia contrattuale privata, in quanto quest’ultima è di regola ammessa ad auto-determinarsi circa i termini per l’adempimento e/o di condizionare gli effetti dei propri rapporti a taluni eventi[3], sebbene poi il mancato rispetto dei limiti temporali produca conseguenze divergenti nell’uno e nell’altro campo.

Se all’inosservanza dei termini stabiliti dalle parti può corrispondere una responsabilità di tipo contrattuale in capo al debitore che non adempie o adempie con ritardo[4], per contro, il carattere di inesauribilità in astratto[5] del potere amministrativo comporta che il mancato rispetto degli stessi termini per provvedere non conduca né alla decadenza dell’obbligo di provvedere, né potrebbe portare alla pronuncia di illegittimità dell’eventuale provvedimento tardivo.

Ciò si rende particolarmente rilevante nei procedimenti ad istanza di parte, ove sulla Pubblica Amministrazione grava l’obbligo di pronunziarsi (an), e dunque di emanare l’atto terminale, sebbene la sua tardività non generi effetti preclusivi sul potere di emanare l’atto, né sulla sua legittimità. Purché infatti sia adottato in presenza della norma attributiva del relativo potere, l’atto amministrativo tardivo rimane legittimo, ovverosia non affetto da alcun vizio formale e/o sostanziale, mentre una valutazione potrà assumere l’atteggiamento di inerzia mantenuto dalla Pubblica Amministrazione, in quanto nel lasso temporale tra lo scadere del termine e l’eventuale provvedimento la stessa si è astenuta dall’esercizio del potere.

Quanto detto comporta che in ogni ipotesi rimane preclusa al privato la possibilità di impugnare in annullamento l’atto intempestivo, mentre costui non potrà che esperire le azioni avverso il silenzio ex artt. 31 e 117 cod. proc. amm., che, come si dirà in prosieguo, sollecitano Pubblica Amministrazione ad emanare il provvedimento richiesto.

Al soggetto privato destinatario del provvedimento (tardivo) in questione non rimarrà che intentare la strada della tutela risarcitoria ex art. 30 cod. proc. amm., i cui presupposti però risultano ancorati a quelli dell’illecito civilistico extracontrattuale (condotta antigiuridica; colpa o dolo della Pubblica Amministrazione; danno ingiusto e nesso eziologico tra condotta e danno).

Posta quindi la riconosciuta natura “ordinatoria” dei termini finali relativi a provvedimenti da emettere su istanza di parte, si avverte che nell’ambito di taluni poteri esercitabili dalla Pubblica Amministrazione di propria iniziativa, i termini sono qualificati invece “perentori”, datane le espresse previsioni di legge[6], con la conseguenza che l’atto tardivamente adottato sarà considerato come inesistente, poiché emanato in carenza di potere.

La ratio che giustifica in queste ipotesi la decadenza dal potere di adottare “atti tardivi” va rintracciata alla luce dell’incidenza negativa che i provvedimenti all’uopo adottabili provocano rispetto a situazioni qualificate come diritti soggettivi dei privati, in ordine ai quali è manifesta la necessità di non esporli ad un potere autoritativo illimitato. Pertanto, in tali casi dovrà parlarsi non già ad atti illegittimi, bensì di ipotesi di decadenza dal potere di adottarli, ovvero come più recentemente stabilito, di “inefficacia”[7], così che al privato resta comunque preclusa ogni azione di impugnazione, compresa quella da risarcimento del danno.

2. Il danno da ritardo procedimentale, tra ricostruzioni normative e giurisprudenziali

Una volta qualificata la situazione come da ritardo procedimentale, il legislatore si è preoccupato di definirne portata ed incidenza sul piano delle conseguenze, introducendone l’apposita disciplina nell’art. 2-bis inserito alla l. n. 241/90 con la legge n. 69/2009.

Trattando in generale delle conseguenze da ritardo avvenuto rispetto alla “conclusione del procedimento”, in origine l’articolo in questione si fermava alla sussunzione di queste entro una fattispecie da illecito civile, in quanto richiamatene nella rispettiva formulazione tutti gli aspetti, quali l’obbligo da risarcimento del danno; l’ingiustizia dello stesso nonché il dolo o colpa del soggetto procedente.

Dalla stessa formulazione della norma, si evidenzia il fatto che il legislatore ha voluto escludere la possibilità di riferire siffatta responsabilità della Pubblica Amministrazione ad altre tipologie pur utilizzate in dottrina e in giurisprudenza per ricostruire l’obbligo risarcitorio in capo alla parte pubblica. Viene così escluso in particolare il riferimento alla tesi del “contatto sociale qualificato”[8], in base alla quale il titolo di responsabilità per il ritardo del provvedimento discenderebbe dal pregresso rapporto instauratosi con il destinatario dell’atto, per cui la parte pubblica sarebbe chiamata a rispondere in quanto già obbligatasi verso lo stesso, e non già in quanto “passante”.

In realtà, la tesi, che la giurisprudenza ha sostenuto con l’effetto di alleggerire l’onere probatorio gravante sul privato,[9] è figlia di una certa dottrina che non ritiene di condividere la qualificazione della Pubblica Amministrazione alla pari del quisque de populo, tanto più nei casi in cui sia adita dai privati e chiamata a concludere il procedimento con un atto espresso[10]. Vista tuttavia la chiara presa d’atto del legislatore del 2009, ad oggi l’opinione da condividersi è quella della responsabilità extracontrattuale, in ordine alla quale grava sul ricorrente l’onere di provarne tutti i fatti costitutivi ex art. 2697 cod.civ., non potendo questi contare sull’esistenza di alcuna obbligazione in capo alla PA, neanche in relazione alla mancata osservanza di termini che di per sé non sarebbero perentori.

Il dato normativo che vincola il risarcimento del danno da ritardo alla figura dell’illecito aquiliano ha condotto le indagini interpretative circa la portata degli elementi che lo compongono, in particolare riguardo alla natura della condotta attiva produttrice dell’evento, nonché rispetto al tipo di evento ristorabile ed alle regole applicabili quanto all’onere probatorio e alla quantificazione dei danni.

Riguardo al primo aspetto, si è detto che la Pubblica Amministrazione rimane vincolata all’istanza di parte al solo obbligo di iniziare il procedimento amministrativo, e di concluderlo con provvedimento espresso, o anche tacitamente, laddove possibile; mentre non può dirsi sussistere il medesimo obbligo giuridico al rispetto dei termini di conclusione, imposti al solo scopo di orientare l’azione amministrativa secondo i canoni di economicità ed efficienza, ed inoltre a guidare la valutazione della performance individuale e della responsabilità dirigenziale negli apparati amministrativi[11].

Invero, il rispetto dei termini di conclusione del procedimento deve essere incluso secondo una certa giurisprudenza nell’ottica dei comportamenti amministrativi, non potendosene ricollegare la mancata osservanza ad una illegittimità procedimentale che invece si riflette in altre ipotesi, in cui il ritardato rilascio sia dovuto ad altre cause[12]. Tale conclusione, che ha ricadute sulla portata della situazione soggettiva violata in relazione al ritardo, può essere fatta discendere dalla stessa riserva di giurisdizione espressa per tale materia dall’art. 133 comma1 lettera a) del D.lgs. n. 104/2010.

Quanto alle norme sulla base delle quali ritenere sussistente il dovere di comportamento concretamente imposto alla Pubblica Amministrazione, questi è stato implicitamente ricavato dal principio di buon andamento (art. 97) e dal divieto di aggravamento ingiustificato del procedimento (art.1 l. n. 241/1990), mentre appare agevolmente riferibile agli obblighi civilistici di correttezza e buona fede per tutti quegli atti adottati dalla Pubblica Amministrazione in condizioni di parità con i soggetti privati, visto l’esplicito richiamo in queste ipotesi alla normativa del Codice Civile (art. 1 comma 1-bis l. n. 241/1990)[13].

Ad ogni modo, l’accoglimento della qualifica del “danno da ritardo” come danno da comportamento, e non già da atto illegittimo ha condotto a qualificare la situazione soggettiva lesa dal mancato rispetto del termine come “diritto soggettivo” e non già come “interesse legittimo”, in quanto si voglia ammettere che il tempo dell’azione amministrativa corrisponda ad un bene giuridico autonomamente tutelato[14].

La tesi conduce quindi ad affermare che in base all’art. 2-bis comma 1 sia risarcibile il “mero ritardo” amministrativo, e si pone in esatta contrapposizione al più risalente orientamento dell’Adunanza Plenaria in materia[15], secondo cui, in assenza di previsioni espresse circa l’autonomia di tale bene giuridico, il diritto al risarcimento da ritardato o mancato esercizio del potere spetterebbe al singolo soltanto in seguito all’esito positivo di un accertamento prognostico condotto ex-post, valutativo della concreta spettanza dell’interesse pretensivo alla base del provvedimento ritardato o non emesso[16].

Invero, va segnalato pure come la giurisprudenza più recente sia pervenuta alla conclusione per cui l’adesione all’una o all’altra tesi non muterebbe la ricostruzione giuridica del titolo di responsabilità amministrativa, che resta di natura extracontrattuale, e più precisamente generata da un “comportamento” illecito, né occorre ad alleggerire l’onere probatorio del privato richiedente il risarcimento, in tutti i casi tenuto a dimostrare sia il “danno evento” sia il “danno conseguenza”[17].

Le tesi che propendono per l’inquadramento più restrittivo, conforme all’Adunanza Plenaria del 2005, sembrano tuttavia doversi preferire, alla luce del successivo comma 1-bis introdotto dal Dlgs n. 69/2013 nel testo dell’art. 2-bis, e rivolto specificamente ai procedimenti su istanza di parte, in ordine ai quali il semplice fatto di ritardato provvedimento implica il diritto a ricevere un indennizzo, eventualmente non cumulabile con il risarcimento richiesto ai sensi del comma 1.

L’introduzione dell’obbligo indennitario che, a differenza di quello risarcitorio, non necessita di alcuna prova in capo al soggetto leso da un atto lecito, porta alla conclusione secondo cui l’indagine sulla spettanza del risarcimento di cui all’art. 2-bis comma 1 non potrà attestarsi sulla base del mero superamento dei termini di conclusione, dovendosi invece innestare su di un giudizio prognostico che accerti le possibilità in concreto che il privato istante aveva di ottenere nei tempi e nei modi stabiliti dalla legge il provvedimento positivo da parte della Pubblica Amministrazione.

3. Il profilo extracontrattuale della responsabilità da ritardo

Appurata la natura riguardante la condotta e l’evento deducibili in forza del ritardo occorso, dovrà passarsi a rintracciare gli altri due elementi, quali l’esistenza di conseguenze dannose e del nesso di causalità tra queste ed il ritardo. In ordine ai criteri normativi in base ai quali tale ulteriore indagine andrà condotta, essi si rifanno nuovamente al Codice civile, rinvio operato in forza della qualifica da illecito (extracontrattuale) data alla responsabilità amministrativa, anche in materia di ritardo procedimentale, e sintetizzano nel disposto dell’art. 2056 c.c., che richiama alcuni dei criteri utilizzati dall’interprete in materia di responsabilità da inadempimento: trattasi degli artt. 1223, 1226, 1227 Codice civile.

Il primo, rivolgendosi all’inadempimento o al ritardo nell’adempimento, stabilisce che il risarcimento che ne consegue comprenda sia la perdita subita dal creditore (danno emergente), sia il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto siano «conseguenza immediata e diretta». Tale regola, espressiva del più generale principio di integralità del risarcimento, è riconosciuta quale norma portante della c.d. “causalità giuridica”, attinente all’illecito civile, da tenere distinta dalla “causalità materiale”, cui fanno riferimento gli artt. 40 e 41 del Codice penale, riguardante invece il nesso tra condotta ed evento lesivo.

Nel campo dell’illecito extracontrattuale si avverte l’utilizzo di entrambe le regole causali, poste in sequenza temporale, per cui dopo aver accertato il nesso di causalità materiale, deve passarsi ad appurare il grado di consequenzialità necessaria e non occasionale richiesta tra conseguenze dannose ed evento.

Se dunque non si pongono particolari difficoltà nella ricostruzione del suddetto rapporto con il “danno emergente”, esse si presentano allorché si passi al secondo elemento che può comporre la richiesta di risarcimento, ossia il “lucro cessante”. In tema di illecito civile, infatti, il lucro cessante è dato dai mancati vantaggi patrimoniali derivanti alla parte lesa in seguito al fatto ingiusto subito, la prova dei quali può essere desunta solo in via ipotetica: essa è fatta derivare dalla ragionevole probabilità che il soggetto avrebbe ottenuto quel guadagno patrimoniale perduto se non vi fosse stato il fatto ingiusto.

Quanto all’onere probatorio richiesto, si evidenzia che a differenza di quanto accade per l’inadempimento contrattuale, nel quale entrambe le voci di danno (emergente e lucro cessante) sono risarcite per il solo fatto dell’inadempimento, in caso di illecito extracontrattuale, tale prova può essere particolarmente difficoltosa per il creditore-danneggiato, al che alcuna parte della giurisprudenza ha individuato nel concetto di “chance” favorevole un bene giuridico autonomo[18], riuscendo così a ricollegare il lucro cessante alla perdita di un beneficio non ottenuto per via del comportamento illecito. Ad ogni modo, quale clausola di salvezza, l’art. 2056 cod. civ. fa salvo il potere del Giudice di valutare equitativamente il danno in questione utilizzando l’equo apprezzamento secondo le circostanze del caso di specie.

Sempre nel contesto del nesso di causalità in materia di illecito, assume poi un valore determinante il richiamo all’art. 1227 cod. civ., il cui disposto, al primo comma, stabilisce che al soggetto leso dalla condotta antigiuridica e colposa del responsabile, è riconosciuto il diritto al risarcimento per l’evento dannoso «diminuito secondo l’entità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate» se, insieme al danneggiante, abbia contribuito egli stesso a cagionarlo; al secondo comma è invece stabilito che : «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza».

Quanto disposto dal primo comma va ascritto al nesso di causalità materiale (attinente alla condotta-evento); mentre il secondo comma riguarda l’accertamento della causalità giuridica attinente all’entità delle conseguenze risarcibili, in quanto anch’esse appaiono ridotte per quei danni che il creditore avrebbe potuto evitare utilizzando la normale diligenza. Inutile dire che il disposto, specie nel secondo comma, risulta confermare il criterio di derivazione “diretta ed immediata” delle conseguenze dannose da evento espresso dal 1223 cod.civ.

4. L’Adunanza Plenaria n. 7/2021

Ciò posto in merito all’inquadramento delle norme civilistiche sulla disciplina del danno-conseguenza in materia di illecito aquiliano, va ora posta l’attenzione sulla loro applicazione alle ipotesi di responsabilità della Pubblica Amministrazione (anch’essa da illecito), e più in particolare di quella da “ritardo procedimentale”, alla luce delle norme del cod.proc.amm., così come da una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria (sentenza n. 7/2021) che ne ha ricostruito i parametri applicativi.

La sentenza si apre con un rilevante excursus che ribadisce la natura extracontrattuale della responsabilità amministrativa, dando per assimilate le «ragioni storiche, sistematiche e normative»[19] che non permettono di assimilare la Pubblica Amministrazione ad un “debitore” obbligato contrattualmente ad adempiere nei confronti del privato. Dopodiché, la Plenaria passa in rassegna l’esame delle regole che orientano la ricostruzione della specifica responsabilità da “ritardo”.

In primo luogo, assume rilevante portata il combinato disposto degli artt. 1223 e 1227 comma 2 c.c., entrambi riferiti al suesposto legame tra conseguenze dannose ed evento, in questo caso consistente nell’avere la Pubblica Amministrazione colposamente violato il termine previsto per l’emanazione del provvedimento in relazione ad un interesse (necessariamente) pretensivo del soggetto privato. Posto dunque il nesso tra comportamento imputabile al soggetto pubblico ed il ritardo, le conseguenze dannose eventualmente provate dal danneggiato-ricorrente potranno essere risarcite solo in quanto poste in relazione di immediatezza con l’inattività della Pubblica Amministrazione, e potranno consistere sia del danno emergente che del lucro cessante.

Quanto all’entità di questo primo aspetto, nel caso di specie l’Adunanza veniva chiamata a valutare se, in rapporto al mancato ottenimento di alcune agevolazioni fiscali da parte dei ricorrenti, il fatto che tale evento fosse stato dovuto ad una normativa sopravvenuta rispetto al ritardato rilascio di autorizzazioni per la realizzazione degli impianti per cui i finanziamenti dovevano essere concessi, potesse considerarsi evento autonomamente produttivo delle conseguenze dannose (cioè della perdita dei benefici fiscali), ovvero recidente il suddetto nesso di conseguenzialità diretta ed immediata con il mancato esercizio del potere autorizzativo[20].

Sul punto, il Supremo Consesso dopo aver brevemente ripercorso la genesi della tutela risarcitoria attivabile contro la Pubblica Amministrazione, si sofferma sulla questione della riconducibilità del mancato accesso alle agevolazioni fiscali al ritardato rilascio delle autorizzazioni da parte della Regione inquadrandola come attinente alla causalità giuridica[21].

Riguardo alla concreta entità delle conseguenze da valutare, queste corrispondono alle perdite realizzatasi nel patrimonio dei privati ricorrenti in conseguenza del ritardo, il che implica il ricorso a giudizi ipotetici, o comunque supportati da elevata probabilità circa la possibilità che le imprese avrebbero effettivamente conseguito l’accesso ad un vantaggio patrimoniale, impedito proprio dalla condotta omissiva della Pubblica Amministrazione. Tale valutazione, nell’ottica della tesi accolta dalla pronuncia, pone un problema di chance risarcibile[22], in riferimento a quella posta attiva ed attuale concretamente venuta meno in conseguenza del fatto illecito commesso.

Come si evince dall’excursus ampliamente argomentato dalla pronuncia, anche il danno da c.d. perdita di chance deve inserirsi perfettamente in quella sequenza causale diretta ed immediata indicata dall’art. 1223 cod.civ., e potrà essere quantificato, nel caso in cui ne rimanga in dubbio il relativo accertamento, secondo il parametro equitativo di cui agli artt. 2056- 1226 cod.civ.

Giungendo a conclusioni sul primo aspetto, l’Adunanza ritiene innanzitutto di dover escludere, in ogni caso, l’applicabilità dell’art. 1225 cod.civ. che avrebbe riguardo all’indagine sulla eventuale prevedibilità/imprevedibilità della sopravvenienza normativa da parte della Pubblica Amministrazione, e ciò sulla base della già chiarita natura da illecito e non da “inadempimento contrattuale” della responsabilità ex art. 2-bis comma 1 l. 241/1990.

Lo stesso evento sopravvenuto sarebbe invece autonomamente valutabile soltanto qualora s’imponga quale factum principis produttivo del danno-conseguenza, tale da interrompere il nesso di causalità immediata e diretta tra colposo ritardo e lucro cessante. Ravvisata la funzione precipua dei termini del procedimento nella definizione «di un quadro certo relativo ai tempi in cui il potere pubblico deve essere esercitato e dunque è ragionevole per il privato prevedere che sia esercitato»[23], e ciò posto in correlazione con il regime stabilito per il rilascio delle autorizzazioni in questione, il primo aspetto viene a qualificarsi come funzionale alla tutela dell’interesse privato connesso all’investimento da effettuare.

La diretta concatenazione tra la mancanza dei titoli autorizzativi e il non avvenuto investimento rimane allora intatta e non già posta in discussione dalla sopravvenienza normativa, rispetto alla quale vale la considerazione ritenuta decisiva, per cui «è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante»[24]. Impostato in tali termini il rapporto di causalità diretta ed immediata, la sentenza si sofferma sui criteri di risarcibilità della chance perduta, della cui sussistenza in astratto non si dubita, almeno per ciò che concerne il tempo anteriore alla sopravvenuta norma impeditiva.

5. Quantum risarcitorio ed il ruolo centrale della liquidazione equitativa

Valutata l’entità probabilistica dell’accertamento da operare su tale voce di danni, l’Adunanza si dimostra innovativa anche sul punto relativo ai criteri utilizzabili per la quantificazione degli stessi, richiamando il combinato degli artt. 2056 - 1226 cod.civ. La pronuncia, infatti, si pone in termini contrastanti con i precedenti orientamenti, contrari alla relativa applicazione nell’ambito della giustizia amministrativa, considerandone invece essenziale il ricorso allorché non sia possibile addivenire ad una soluzione certa riguardo il danno da lucro cessante subito dal privato in conseguenza del ritardo procedimentale della Pubblica Amministrazione.

In base ad un’impostazione precedente della stessa Adunanza Plenaria[25], essendo sempre richiesta al privato ricorrente la prova rigorosa dell’esistenza del danno da perdita di chance, non poteva darsi ingresso nel processo amministrativo alla valutazione equitativa ex art. 1226 cod.civ., (negato in altre occasioni anche attraverso il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, il cui utilizzo non è dato eventualmente a «supplire il mancato assolvimento dell’onere probatorio»[26]) se non in caso di assoluta impossibilità di fornirne prova.

Per contro, l’Adunanza Plenaria del 2021 ne ha riconosciuto la centralità nell’ambito della valutazione del danno da lucro cessante, che nel caso di specie consisteva nel mancato accesso al regime di agevolazioni tariffarie, già dovuto in base alla normativa esistente al tempo della richiesta del rilascio dei titoli autorizzativi.

Posto però che i mancati benefici non sono determinabili con la certezza propria di un fatto storico, che concretamente non è mai avvenuto, la soluzione al ricorso alla valutazione equitativa di cui all’art. 1226 cod. civ. si impone come la migliore scelta possibile, purché non ancorata a giudizi ipotetici e/o a fatti mai accaduti, bensì basata sul principio di equa ripartizione dei rischi, il quale vuole che le conseguenze economiche sfavorevoli, anche quando provenienti da attività di fatto lecita, siano comunque accollate alla medesima.

Può notarsi dunque come la strada intentata dall’interprete sia rivolta a sganciare progressivamente la responsabilità amministrativa dallo schema della responsabilità del c.d. “passante”, andando invece incontro ad una concezione dei rapporti tra amministrazione e privato improntati alla reciproca lealtà e collaborazione, più aderente all’assetto normativo sui restanti caratteri dell’azione di condanna, come tra breve si dirà.

6. Ritardo della Pubblica Amministrazione e oneri di attivazione del privato

Altrettanto rilevanti sono apparsi i punti della decisione che hanno ribadito le indicazioni relative all’applicazione dell’art. 1227 cod.civ., sebbene non formanti oggetto delle questioni deferitele.

Il primo comma dell’articolo, come già accennato, applica alla causalità materiale civilistica lo schema delle c.d. “concause” di cui all’art. 41 cod.pen. manifestantesi in concomitanza con una condotta di reato e da sole valutabili in quanto sufficienti a determinare l’evento di danno o di pericolo; mentre il secondo comma riferendosi al rapporto di causalità giuridica tra evento e conseguenze dannose risarcibili, implica che nel computo di queste ultime sia compresa altresì la valutazione del comportamento diligente del creditore, con il risultato di escludere quelle che lo stesso avrebbe evitato, tramite un giudizio di carattere ipotetico.

La norma, richiamata dall’art. 2056 cod.civ., cala il principio di solidarietà ex art. 2 Cost. ed il canone di buona fede all’interno dei rapporti generati da fatto illecito altrui, la cui indiscussa di portata precettiva nei confronti del danneggiato fa sì che lo stesso sia tenuto in conseguenza del comportamento illecito altrui al rispetto sia di obblighi di carattere “negativo” che “positivo”.

Il Codice del Processo Amministrativo menziona espressamente l’art. 1227 cod. civ. all’art. 124, in materia di evidenza pubblica, a norma del quale è valutato il comportamento del concorrente che, a fronte della dichiarazione di invalidità del contratto stipulato dalla Pubblica Amministrazione con altro concorrente, abbia richiesto il solo risarcimento dei danni, senza subordinare quest’ultima all’ottenimento alla tutela in forma specifica (conseguimento dell’aggiudicazione ovvero “dichiarazione di disponibilità” a subentrare nel contratto), e ciò «senza giustificato motivo».

La norma, pur non ponendo espressamente la questione della “pregiudizialità” della domanda da risarcimento in forma specifica rispetto al ristoro per equivalente in denaro ex art. 30 cod.proc.amm., presuppone che la relativa valutazione sia operata dal giudice in concomitanza con la ricostruzione del nesso di causalità giuridica tra evento e danni, riportando dunque la ratio sottesa al comma 2 dell’art. 1227 cod.civ. nell’ambito della valutazione del danno da perdita di chance legittima subita dal privato in seguito alla mancata aggiudicazione in suo favore.

Nonostante manchi il richiamo espresso, la stessa ratio è ravvisabile altresì nel disposto di cui all’art. 30 comma 3, ultima parte del cod. proc. amm. (questa volta riferita a qualsivoglia rapporto tra privato e Pubblica Amministrazione), in quanto ivi è ritenuta valutabile dal giudice chiamato a pronunziarsi sul quantum della dei danni risarcibili l’«ordinaria diligenza» del ricorrente, escludendone dal computo quelli che si sarebbero potuti evitare «anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti».

Ritenuta pacificamente dalla giurisprudenza amministrativa quale norma direttamente ricollegata all’analoga disposizione del Codice Civile, (della quale richiama proprio testualmente il canone di “ordinaria diligenza”), la stessa ha valutato con esito positivo l’inserimento di tale comma non connettendolo ad una sorta di riproposizione fittizia della regola della pregiudizialità interna dell’azione di annullamento del provvedimento rispetto a quella da risarcimento dei danni, bensì orientandolo a contemperarne il valore in corrispondenza del minore sacrificio che il patrimonio del privato avrebbe subito se questa fosse stata esperita[27].

Chiarito ciò, l’organo giudicante dovrà fornire la prova per cui il giudizio di legittimità si sarebbe concluso con esito positivo per il privato, dovendo dare altresì contezza dei vizi del provvedimento che, se tempestivamente impugnato, sarebbe stato annullato e ciò avrebbe effettivamente anticipato la tutela del ricorrente.

Il collegamento della norma con l’azione rivolta al ristoro dei danni subiti in conseguenza dell’inerzia della PA, presuppone che in tale ambito siano valutate quali specifiche azioni alternative alla suddetta domanda garantiscono al privato forme di tutela differenti in caso di ritardo procedimentale. Data infatti la preclusione delle azioni di annullamento del provvedimento tardivo, i rimedi che concretamente il singolo può mettere in campo nei casi di ritardo prima ancora che di questi si valutino le conseguenze dannose possono suddividersi in procedimentali e processuali, gli uni attivati nel “dialogo” con la Pubblica Amministrazione inerte, gli altri tesi ad ottenere una pronuncia dichiarativa dello stato di inerzia, ovvero restitutoria del dovere di provvedere in capo alla Pubblica Amministrazione.

7. Il comportamento del danneggiato. Rimedi procedurali e processuali

Soffermandosi sull’individuazione di tali strumenti, la pronuncia n. 7/2021 sussume i primi nel contesto dell’art. 2 comma 9-bis l. 241/1990 [28], nel cui seguente comma 9-ter intravede prevede un vero e proprio onere di cooperazione in capo al privato, non ancora oggettivamente “leso” dal fatto dell’avvenuta decorrenza dei termini per provvedere, poiché allo stesso è consentito rivolgersi al responsabile del potere “sostitutivo” dell’Amministrazione inerte, innescando così una sorta di sub-procedimento volto ad ottenere il provvedimento favorevole.

Ciò, secondo l’Adunanza Plenaria n. 7/2021, starebbe a dimostrazione della serietà ed effettività dell’interesse legittimo al provvedimento espresso, la cui attivazione è favorita dagli obblighi di trasparenza stabiliti a carico della PA competente, per cui il privato non potrebbe in ogni caso giustificarsi sulla base della mancata conoscenza dell’organo sostitutivo. Sicché, in caso di omessa attivazione, prosegue l’Adunanza, potrebbe presumersi che l’ulteriore decorso del tempo sia stato sostanzialmente indifferente per il privato, nell’ambito delle proprie autonome determinazioni.

Risultano invece afferenti alla seconda categoria di tutele i rimedi dell’azione avverso il silenzio (art. 31 cod.proc.amm.) e del ricorso avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione, (art. 117 cod.proc.amm.), con la quale proposizione il privato dà invece dimostrazione del periculum insito nell’ulteriore decorrere del tempo rispetto alla posizione soggettiva vantata.

Rispetto a tali ultime forme di tutele processuali si pone necessario ravvisarne i presupposti nell’obbligo di provvedere stabilito in capo alla PA e nell’avvenuto superamento dei termini stabiliti per l’emanazione del provvedimento senza che questi sia intervenuto, ricorrendone l’interesse anche qualora il mancato provvedimento si riferisca a quello richiesto in via sostitutiva; ciò comporta che nel caso poi in cui il provvedimento sia rilasciato nel corso del giudizio, al privato non sarà più consentito andare avanti nell’azione proposta in quanto ne viene a cadere l’interesse ad agire.

Per contro, anche quest’ultimo provvedimento adottato (di fatto, tardivo, ma formalmente legittimo) può non soddisfare l’interesse del privato, sicché allo stesso soggetto non sarà precluso impugnarlo nell’ambito dello stesso processo, eventualmente con la proposizione di motivi aggiunti, la cui mancanza potrà allora pacificamente essere inserita tra le valutazioni che il giudice effettuerà a norma dell’art. 30 comma 3 cod.proc.amm.

Resta fermo che quanto finora detto va escluso nel caso in cui il privato avanzi non già l’azione da risarcimento dei danni da ritardo ex art. 2-bis comma 1 bis della l. n. 241/1990, bensì quella relativa alla corresponsione dell’indennizzo da mero ritardo contemplata dal D.l. n. 69/2013 ed inserita al comma 2-bis di tale norma, nonostante il Decreto del 2013 abbia previsto anche per questi casi un obbligo di cooperazione procedimentale da parte del privato, tendente all’attivazione del potere sostitutivo di cui all’art. 2 comma 9-bis della Legge n. 241/1990[29], in assenza della quale però qui dovrà ravvisarsi una vera e propria preclusione al diritto di ottenere l’ indennizzo automatico eventualmente richiesto[30].

8. Ritardo procedimentale e danni non-patrimoniali. Risarcibilità della “mera attesa”

Un ultimo aspetto ricollegato alla struttura dell’illecito aquiliano della Pubblica Amministrazione, sebbene non affrontato dalla pronuncia n. 7/2021, riguarda l’entità delle conseguenze risarcibili, in quanto, a differenza che nel sistema della responsabilità da illecito civile, nell’ambito del codice del processo amministrativo manca una norma di chiusura analoga all’art. 2059 cod.civ., che fa salvo, benché nei soli casi previsti dalla legge, il diritto a richiedere i danni “non patrimoniali” subiti dal in seguito al fatto illecito altrui.

Orbene, l’assenza di analoga norma in materia di responsabilità amministrativa non ha impedito la giurisprudenza amministrativa dal riconoscere che anche in conseguenza di attività illegittima o di comportamenti illeciti della Pubblica Amministrazione le violazioni direttamente riferite alla persona del danneggiato debbano essere risarcite in maniera integrale, qualora ne sia accertata la derivazione “immediata e diretta” dalla condotta del soggetto pubblico.

Aderendo all’impostazione data dalle ben note pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione[31], le quali hanno esteso la risarcibilità del danno non patrimoniale civilistico oltre alle ipotesi espressamente previste dalla legge ed anche nel caso in cui non derivi da condotte integranti un reato, anche il comportamento da “mero ritardo” amministrativo può in concreto aver leso la sfera non-patrimoniale dei soggetti privati, essendo peraltro tale condotta già qualificata come illecita.

Da ciò ne deriva che accanto al danno emergente e al lucro cessante, quali voci di danno afferenti alla sfera strettamente patrimoniale del soggetto passivo, potranno prendersi in considerazione eventuali conseguenze ulteriori che il ritardo ha provocato sulla sua sfera soggettiva, significativamente intraviste nella inutile ed «attesa»[32] che il privato abbia patito a seguito della sua inevasa istanza, sicché saranno in concreto risarcibili tutte quelle conseguenze lesive che nel protrarsi dell’inerzia della Pubblica Amministrazione si siano riversate sulla sua sfera psico-fisica, emotiva e/o relazionale, dovendosi queste ricomprendere in un’unica voce di danno ed essere adeguatamente provate.

9. Conclusioni

In ordine a quanto finora illustrato, possono trarsi alcune brevi conclusioni sull’assetto del rapporto tra Pubblica Amministrazione e “tempo” dell’attività amministrativa, e su come questo va a correlarsi con la posizione giuridica del privato in attesa di risposte dal soggetto pubblico. Innanzitutto, va ribadita come la natura “ordinatoria” e non già “perentoria” dei termini procedimentali posti a salvaguardia di interessi pretensivi del privato, segnala che la durata del procedimento amministrativo non sia ancora intesa quale espressione diretta della relativa legalità, ed il dato non è sconfessato dalla recente novella legislativa che sanziona con l’inefficacia (n.b. non già con la nullità) i provvedimenti tardivamente adottati.

In secondo luogo, una volta constatato che anche il ritardo della Pubblica Amministrazione può rientrare nel concetto di illecito aquiliano determinato dal mancato esercizio di poteri, sul privato cittadino che si ritenga colpito da tale comportamento illecito e che desideri ricevere piena tutela, gravano una serie di oneri e obblighi.

Egli, infatti, sarà tenuto ad attivare gli appositi rimedi procedurali (se ancora possibili) e processuali, prima ed al fine di invocare una tutela risarcitoria pienamente soddisfacente.  Quanto alla successiva azione da risarcimento del danno, questa potrà ricevere seguito soltanto se all’accertamento della spettanza dell’interesse legittimo sotteso alla originaria pretesa si dia risposta positiva, mancando, in caso contrario, l’effettività della situazione giuridica lesa.

Si evidenzia così la funzione rimediale e non sanzionatoria del danno da ritardo, in quanto teso a tutelare sebbene in via sostitutiva, il mancato ottenimento del provvedimento favorevole, e non già a ristorare il bene-tempo perduto in occasione dell’inerzia del soggetto pubblico.

Peraltro, come si evince dalla recente sentenza dell’Adunanza Plenaria, il rapporto di causalità giuridica che deve sussistere tra il fatto antigiuridico e le conseguenze dannose cagionate implica che siano prese in considerazione i soli danni derivanti in modo diretto ed immediato dall’inerzia, senza alcuna soluzione di continuità.

Per contro, nell’ottica del contemperamento delle conseguenze concretamente risarcibili, dovranno essere prese in considerazione quelle iniziative intraprese dal privato prima di addivenire al giudizio risarcitorio, che testimonino la serietà e l’effettività del proprio interesse all’accoglimento dell’istanza, senza tuttavia ancorare ulteriormente il diritto al risarcimento al criterio della prevedibilità, applicabile solo alla responsabilità contrattuale. 

Dunque, può affermarsi che la valorizzazione del comportamento del soggetto leso dal ritardo, insieme alla centralità conferita alla liquidazione equitativa del lucro cessante, si sia accolta anche nel processo amministrativo una visione del rapporto tra Pubblica amministrazione e privato orientato ai criteri di correttezza e buona fede, tali da imporre una costante e reciproca collaborazione, nel perseguimento dei corrispettivi interessi (pubblici e privati).

Giova a tal fine notare come il contemplato aspetto non patrimoniale del ritardo, corrispondente alla patita condizione di trascuratezza subita dal privato in virtù del comportamento antigiuridico del soggetto pubblico, conduca alla progressiva definizione del ritardo della Pubblica Amministrazione come un vero e proprio fatto illecito a carattere “permanente”[33], foriero di notevoli conseguenze negative sulla sfera soggettiva privata.


Note e riferimenti bibliografici

[1] I criteri che reggono l’attività amministrativa in generale sono quelli di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza, la cui cogenza è ravvisabile in tutte le tipologie di procedimenti normativamente regolati.

[2] Rispettivamente, il Dl. 10 luglio 2020 n. 76, conv. in l. n. 120/2020, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”; ed il Dl. N. 77/2021, dedicato al coordinamento del PNRR; nonché al rafforzamento e allo snellimento delle procedure amministrative”, sulle cui modifiche si tratterà amplius in prosieguo.

[3] Il termine e la condizione, il primo caratterizzato dalla certezza; la seconda dall’incertezza, in quanto clausole “accidentali” del contratto possono essere anche non apposte dalle parti, intendendosi in tal caso la prestazione immediatamente esigibile (art. 1183 c.c.). Tuttavia, eccezionalmente, il termine può essere necessario laddove gli usi o la natura della prestazione siano tali da richiederne la fissazione: trattasi di ipotesi in cui il protrarsi del rapporto contrattuale senza che questo giunga ad una conclusione vincolerebbe eccessivamente la libertà di scelta dei contraenti, gravando sull’economia e la speditezza dei traffici commerciali.

[4] Art. 1218 c.c.: Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione [..]”, laddove l’equiparazione tra inadempimento e ritardo nell’adempimento è valorizzata dalla ricomprensione della seconda fattispecie nell’ “inesatto adempimento”.

[5] M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, 1995, Giappichelli, 54-55.

[6] Trattasi, ad esempio, del potere di emanare il decreto di espropriazione, che sussiste per un tempo definito dalla dichiarazione di pubblica utilità, o comunque può essere emanato entro e non oltre cinque anni da questa (art. 13 DPR n. 327/2001); ma altresì è perentorio il termine stabilito in materia di prelazione esercitabile dallo Stato sui beni culturali che il privato ha intenzione di vendere (art. 61 DLGS n. 42/2004); o quello entro cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato può vietare un’operazione di concentrazione tra imprese (art. 16, comma 4,  l. n. 287/1990).

[7] Per effetto dell’intervenuta legge di “Semplificazione” (l. 120/2020), l’inserimento del comma 8-bis all’art. 2 espressamente stabilisce la sanzione dell’inefficacia di tutte le determinazioni relative a provvedimenti, autorizzazioni, pareri, nulla osta e atti di assenso, adottati dopo la scadenza dei termini relativi; nonché dei provvedimenti che vietino la prosecuzione e la rimozione di attività già avviate. La previsione di “inefficacia” anziché di decadenza/inesistenza è spiegata dalla conservazione del potere di intervento in autotutela della Pubblica Amministrazione che abbia adottato tali atti (ex art. 21-nonies), il quale lascia tuttavia aperti seri dubbi circa la portata davvero semplificatrice della norma. Sul punto, v. fra tutti, M. D'Alberti, Lezioni di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2021, 299.

[8] Ai sensi dell’art. 1173 c.c., il contatto sociale qualificato è inteso quale fonte di produzione di obbligazioni giuridiche parificata al contratto e al fatto illecito, consistente “in ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità all’ordinamento giuridico”, il cui inadempimento comporta responsabilità contrattuale in capo al soggetto debitore. Spiega meglio la struttura del contatto sociale qualificato nei rapporti amministrativi E. Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, Giuffrè, 2016, 676 : «La sussistenza di un contatto (in primo luogo in forza del procedimento) tra amministrazione e privato comporta, […] il sorgere di alcuni obblighi ‹ senza prestazione › in capo all’amministrazione, la cui violazione determina una responsabilità per alcuni versi assoggettata al regime di cui all’art. 1218 c.c. quanto al termine di prescrizione (decennale e non quinquennale) e al riparto dell’onere della prova relativo all’elemento psicologico».

[9] Così, ex multis, Cons. Stato, sez. 5, n. 4461/2005.

[10] Ricostruisce in tal senso la genesi della tesi S. Faillace, La responsabilità da contatto sociale, CEDAM, Padova, 2004, 152 ss.

[11] Art. 2 comma 9 l. n. 241/1990

[12] Trattasi della diversa ipotesi in cui ad esempio, la Pubblica Amministrazione abbia emanato, nel termine, un provvedimento di diniego ad un’istanza ampliativa del privato, e che, solo in seguito all’impugnazione proposta dal soggetto interessato, questi abbia ottenuto il provvedimento favorevole, rilasciato in esecuzione della sentenza di annullamento: in questo caso infatti il danno da ritardo è dovuto all’illegittimità del (primo) provvedimento emanato, e non quindi ad un comportamento “mero” della Pubblica Amministrazione, v. F. Liguori, Manuale di Diritto Amministrativo, Terza ed., Il Mulino, 300 ss. .

[13] Invero, a ciò va aggiunto che il Legislatore del 2020, intervenendo sulla legge 241/1990, ha esteso tali obblighi comportamentali di “collaborazione e buona fede” a tutti i “rapporti” tra la Pubblica Amminstrazione e il cittadino, (art. 1 comma 2-bis l. 241/1990), non senza rischiare tuttavia di confondere il piano degli obblighi procedimentali con quello dei meri comportamenti, mettendo in questione anche le sorti della qualifica del danno da ritardo

[14] Così, il Consiglio di Stato, ad.plen., nella sentenza n. 5/2018, § 42.

[15] Il riferimento è alla sentenza resa dal Consiglio di Stato,  ad. plen. n. 7/2005.

[16] Cons. St. ad.plen., n. 7/2005, § 3 : «può affermarsi che il sistema di tutela degli interessi pretensivi […] consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l'interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l'atto, in congiunzione con l'interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l'interessato (suscettibile di appagare un "bene della vita")»

[17] Nello stesso pronunciamento in cui afferma la risarcibilità del “mero ritardo”, (Cons. st. ad. plen. sent. n. 5/2018, §42,) nel successivo § 51 l’Adunanza Plenaria richiama il carattere “colposo o doloso” che secondo l’art. 2-bis deve caratterizzare il comportamento illecito (da ritardo) della Pubblica Amministrazione, e pertanto va provato dal privato, insieme ai danni-conseguenza subiti.

[18] Secondo la Suprema Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sent. n. 238/2007, § 2: «Il danno derivante dalla perdita di chance non è una mera aspettativa di fatto, ma una entità patrimoniale a sé stante, economicamente e giuridicamente suscettibile di autonoma valutazione, di cui l'interessato ha l'onere di provare, sia pure in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, i presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta». Si allineano a tale conclusione, pur concependo la risarcibilità della chance al criterio statistico/probabilistico numerose pronunce del Consiglio di Stato, tra cui sez. V n. 3249/2015; sez. IV, n. 4674/2014 e sez. II 6539/2021; per contro, in altre ipotesi si è negata l’esistenza della “chance” favorevole quale situazione giuridica autonomamente tutelabile, essendo invece riconoscibile solo quella corrispondente all’ “aspettativa di risultato favorevole”, poiché, stando alla diversa ricostruzione data da codesta giurisprudenza:  «Mentre, infatti, nel primo caso (probabilità di conseguimento del bene della vita) appare ravvisabile un nesso causale, da valersi quale indefettibile elemento costitutivo dell'illecito aquiliano, tra condotta antigiuridica e danno risarcibile, nella seconda ipotesi (mera possibilità di conseguimento del vantaggio perduto) risulta interrotta proprio la sequenza causale tra l'atto illegittimo e la perdita patrimoniale rivendicata dal danneggiato». (Cons. di Stato, sez. III, n. 559/2016, § 4.4.2).

[19] Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 7/2021, § 9

[20] Stando così in punto di “Fatto” della citata sentenza, § 3, : «Il risarcimento è chiesto in ragione del fatto che a causa del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni –[..]- l’investimento a suo dire sarebbe divenuto antieconomico. Ciò per effetto del divieto di accesso al regime tariffario incentivante ai sensi dell’ (ora abrogato) art. 7 d.lgs. n. 387/2003 connesso alla produzione di energia da fonti rinnovabili (solare), introdotto per gli impianti fotovoltaici […] dall’art. 65 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 [..]».

[21] Come chiarito al § 19, Ibid..

[22] Ibid. § 21,: «La questione richiede di precisare innanzitutto che, nell’ambito della dicotomia danno emergente-lucro cessante posta dall’art. 1223 cod.civ. , il mancato accesso al regime tariffario incentivante si colloca nel secondo concetto, come peraltro precisato dallo stesso giudice rimettente».

[23] Ibidem, § 25.

[24]Ibidem § 24.

[25] Consiglio di Stato, sez. Adunanza Plenaria, sent. n. 2/2017.

[26] Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 1271/2011, § 3.

[27] Il riferimento è alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. Adunanza Plenaria n. 3/2011

[28] Al quale comma il D.l. n. 77/2021 ha aggiunto la possibilità di attribuire il potere sostitutivo non solo a un soggetto singolo, ma anche a “unità organizzative” individuate dalla Pubblica Amministrazione, la quale potrà attivare il potere suddetto anche “d’ufficio”. Si esonererebbe, così, il privato dall’onere di attivazione, mutando altresì il piano della successiva indagine circa il rilievo di tale omissione ai sensi dell’art. 1227 c.c.

[29] Dl. N. 69/2013, art. 28, comma 2.

[30] Cons. St., sez. III, n. 5578; Cons. St. sez. IV, sent. n. 4028; Tar Lazio, sent. n. 1273.

[31] Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenze n. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008.

[32] Così il Consiglio di Stato, nella sent. n. 1271/2011, § 5, in cui ritiene di poter liquidare il danno biologico provocato nella ricorrente dall’inerzia della Pubblica Amministrazione sulla base della diretta rilevanza “costituzionale” dei termini del procedimento amministrativo (assurti al rango dei livelli essenziali di prestazioni ex art. 117 comma 2 lettera m) Cost.).

[33] Così definito dal Consiglio di Stato, sent. ult. cit., § 5.