Pubbl. Mer, 26 Gen 2022
Parto anonimo: il padre che riconosce il figlio nato da donna che non vuole essere nominata
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Edoardo Scianò
Il parto anonimo rappresenta, ormai da tempo, una libera facoltà per la donna. Tale istituto cerca di tutelare sia la riservatezza della madre, ma anche il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini. Il presente elaborato si pone l’obiettivo di indagare una particolare casistica di parto anonimo, ovvero il caso in cui la donna sceglie di partorire in anonimato, ma il padre biologico insiste per riconoscere il bambino. L’analisi si concentrerà sull’ordinamento giuridico francese, che in un cinquantennio ha visto succedersi tre diverse cause legali su questo tema. Si osserverà come lo strumento della mediazione familiare, se fosse stato utilizzato, avrebbe potuto rappresentare l’intervento migliore a tutela del minore. Infine analizzeremo la figura evanescente del padre biologico.
Sommario: 1. Introduzione; 2. Parto anonimo e ricerca delle origini in Francia: l’accouchement sous X; 2.1. Il padre che riconosce il figlio nato da donna che non vuole essere nominata: tre fattispecie particolari di parto anonimo; 2.1.1. L’Affaire Novak (1958); 2.1.2. L’Affaire Riom (1996); 2.1.3. L’Affaire Benjamin (2001); 3. La mediazione familiare: una possibilità per garantire l’interesse del minore; 4. Un confronto con l'ordinamento giuridico italiano: come contemperare due interessi contrapposti; 4.1. Italia: una nuova tutela per il padre, il pre-riconoscimento del nascituro; 5. Parto anonimo: la figura del padre biologico tra dubbi e difficoltà interpretative; 6. Conclusioni.
1. Introduzione
Il parto anonimo rappresenta ormai da secoli una libera scelta della donna, che può effettuare per motivi diversi. In generale, in Europa, ma non solo, la problematica del parto in anonimato ha rappresentato una questione ampiamente dibattuta.
Al centro del dibattito socioculturale si ponevano due principali elementi di discussione: da un lato l’interesse della donna a mantenere anonima la propria identità, e a partorire con tutte le garanzie del caso, e dall’altro l’interesse, poi tramutatosi in diritto, del nascituro - che spesso veniva adottato - a conoscere le proprie origini.
Sotto un profilo prevalentemente sanitario, si è cercato, nei diversi sistemi giuridici, di preservare l’identità della donna, garantendo ad entrambi una tutela della salute.
Questo è avvenuto, da un lato, attraverso una garanzia prenatale - la donna incinta viene accolta con la garanzia di partorire in anonimato - e, dall’altro, post-natale, ovvero il neonato viene accolto in sicurezza attraverso il cd. sistema delle ruote.
Quest'ultimo rappresenta una prima modalità di intervento a sostegno del neonato e della sua incolumità fino ai primi anni del '900, quando interverranno le istituzioni pubbliche e private con interventi, più o meno idonei, di natura socio-assitenziale1.
Il tema del parto anonimo si scontra, inevitabilmente, con il diritto del figlio - non riconosciuto alla nascita e in seguito adottato - a conoscere le proprie origini.
Un simile diritto a conoscere le proprie origini non sempre risulta enunciato o riconosciuto in termini espressi, a livello costituzionale o legislativo, nonostante sia stato sancito da tempo, ormai da circa un trentennio, a livello internazionale.
In primo luogo, la Convenzione delle Nazioni Unite, firmata a New York il 25 novembre 1989, sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ha riconosciuto - all’art. 7 - un vero e proprio diritto del minore a conoscere i propri genitori e ad essere accudito da questi, nella misura possibile, e all’art. 8 sancisce il rispetto di suddetto diritto, senza interferenze illegali ad opera degli stati.
Nello scenario internazionale si sono poi susseguite, fin dai primi anni Novanta, ulteriori convenzioni che hanno più̀ specificamente affermato il diritto a conoscere le proprie origini.
Al riguardo, riveste una rilevanza primaria la Convenzione dell’Aja del 1993, sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, che prevede agli artt. 16 e 30 la conservazione di ogni informazione disponibile sull’origine del minore adottato, e in particolare sull’identità dei suoi genitori.
In concreto, il diritto a conoscere le proprie origini dell’adottato - nato da donna che al momento del parto non vuole essere nominata - ha riscontrato notevoli difficoltà ad essere tutelato, dopo che emerse e fu riconosciuto da fonti normative, divenute cogenti dopo la ratifica, nei paesi ove vigono, in ambito sia nazionale che sovranazionale.
Infatti, non sempre è presente un’idonea disciplina atta a regolare le relazioni tra i soggetti che, a diverso titolo, si sono interessati dalla materia, ossia, principalmente coloro che costituiscono il cd. triangolo adottivo: la madre biologica, che ha liberamente scelto di partorire in anonimato, il figlio abbandonato che ha interesse a conoscere le proprie origini e l’identità̀ dei genitori biologici, e infine la famiglia adottiva, che ha interesse, invece, a tutelare la propria privacy da eventuali ingerenze esterne.
Una simile compagine di interessi obbliga il legislatore a svolgere una delicata attività̀ di coordinamento.
Passando al quadro delineato dal Consiglio d’Europa, notiamo che - a modifica della Convenzione del 1967 sull'adozione di minori, dove mancava ogni riferimento in materia - la Convenzione di Strasburgo del 2008 parla appositamente di un diritto della persona a conoscere la propria identità̀ e le proprie origini biologiche.
Nel corso del tempo abbiamo assistito ad un graduale cambiamento di prospettiva.
Si è passati da una logica improntata sul segreto delle origini - nella quale l’adozione è stata a lungo percepita come "seconda nascita", eliminando qualsivoglia legame tra adottato e famiglia biologica - ad una logica di sostanziale “apertura”, che riconosce il diritto della madre a partorire in anonimato, ma anche quello del figlio a conoscere le proprie origini, entro determinati limiti.
Ai fini di un’analisi incentrata anche sui profili costituzionali della materia, occorre dedicare, tuttavia, una specifica attenzione al sistema giuridico interno.
Dagli Anni '90 ai giorni nostri sono stati conseguiti interessanti traguardi, ma non sono mancati ritardi da parte del legislatore, tant’è che si riscontra tuttora un vero e proprio vuoto normativo in questo ambito.
Inizialmente, per lungo tempo, il tema della ricerca delle origini suscitava spesso reazioni ambivalenti: infatti, i promotori della materia non percepivano gli aspetti negativi, e gli scettici - che volevano mantenere lo status quo - evidenziavano le ragioni per le quali si era giunti alla segretezza.
I promotori non erano ancora pronti a disciplinarla, né tantomeno avevano dimostrato un vero e proprio interesse verso la medesima, complice anche uno scenario politico complesso, quale quello uscente dai primi anni 2000.
La cultura del segreto aveva prevalso, sia in Italia che nel resto dell’Europa, fino ad approdare ad una sostanziale apertura, anche se non uniformemente in ogni stato.
Con riferimento all’esperienza giuridica italiana, non esiste una legislazione in materia, per cui si fa riferimento a quella in tema di adozione, ovvero alla L. n. 184/1983 e alla sua novella, la L. n. 149/2001, che però sono state carenti e oggetto di numerose critiche.
É stata dello stesso avviso anche la giurisprudenza, complice un legislatore non propriamente edotto, soprattutto a causa del proprio passato storico e culturale, che gli ha impedito di disciplinarla correttamente.
Sostanzialmente manca, nel nostro ordinamento, una legge esplicita in materia, infatti è stata la giurisprudenza - nei primi anni del 2000 - a svolgere un’opera fondamentale di razionalizzazione e di disciplina: il diritto a conoscere le proprie origini trova un riconoscimento prettamente giurisprudenziale, al di là del riconoscimento ad opera della Corte cost. e della Corte EDU.
Fino alla sentenza della Corte cost. n. 425/2005 non era stato possibile smuovere il monolite del segreto sulle origini, ma occorrerà̀ giungere al 2012 per ottenere un primo riconoscimento da parte della Corte EDU nel caso Godelli contro Italia, successivamente - con la sent. n. 278/2013 - viene posta agli occhi della Corte cost. la questione dell’interpello e della rimozione del segreto, discussione che è proseguita con la sent. della Corte di Cass. SU n. 1946/2017.
Successivamente, si sono affiancante alcune questioni di rilevo in materia, collegate alla ricerca delle origini, che hanno impegnato giurisprudenza e dottrina italiane. In particolare, si ricorda la problematica inerente alla conoscenza delle proprie origini nel caso di madre defunta, ma anche l’interesse della persona adottata a conoscere la propria fratria biologica, o l’impossibilità a conoscere la propria ascendenza paterna.
Tra le più̀ importanti si ricordano Odièvre contro Francia del 2003, ma soprattutto Godelli contro Italia del 2012, che hanno rappresentato i due casi capo-fila in materia di ricerca delle proprie origini: il primo ha fornito lo spunto normativo per risolvere il secondo, nonostante entrambi siano simili ma anche diversi per le rispettive specificità̀.
Tuttavia, in materia di parto anonimo e di ricerca delle proprie origini, non è semplice rispondere al seguente quesito: esiste un diritto all'accesso alle informazioni sulle proprie origini?
In uno scenario internazionale, come appena delineato, estremamente complesso e frammentato, la situazione è diversa da paese a paese.
Ad es. negli Stati Uniti, in Canada, Spagna e nei Pasi del Nord-Europa la possibilità di esercitare questo diritto, ad opera dell'adottato non riconosciuto alla nascita, è estremamente pacifica con pochissime eccezioni.
Solamente in Italia e in Francia la possibilità di accedere alle informazioni sulle proprie origini è condizionata alla non volontà della madre biologica di rimanere anonima2.
Il presente contributo si pone l’obiettivo di analizzare una particolare casistica di parto anonimo, ovvero le ipotesi nelle quali la donna decide di partorire in anonimato, ma il padre biologico intende riconoscere il nascituro.
Queste fattispecie, per quanto limitate, consentono di riflettere su un fenomeno decisamente rilevante, in un'ottica comparata.
L’anonimato che la donna vuole mantenere, attraverso la sua decisione, non verrebbe profondamente leso davanti alle intenzioni del padre biologico?
Come vedremo, il dibattito si estenderà sotto vari aspetti, nonostante le fattispecie considerate conducano ad un medesimo esito: la madre partorisce in anonimato, il padre del nascituro intende riconoscerlo come proprio figlio, ma questi viene adottato da una nuova famiglia.
Come si intuisce, le problematiche che si presentano non sono limitate, e accendono la discussione in materia di diritti: della donna, del padre del bambino, della famiglia adottiva, e infine dello stesso minore.
Tuttavia risulta necessario constatare, riguardo a questa tematica, come le attuali fonti giurisprudenziali, le uniche che possiamo analizzare in materia, ci consentono una disamina limitata alla sola esperienza giuridica francese, con un breve cenno a quella tedesca.
Attualmente questo è lo stato dell'arte, che è tale proprio perché l'ordinamento giuridico francese ha una lunga tradizione e cultura in materia di parto anonimo; questo ha reso possibile la proliferazione di tre decisioni giurisprudenziali particolarmente controverse.
Infine, per quanto sopra osservato, si registra che l'ordinamento giuridico italiano, come molti altri, non contiene al suo interno alcuna decisione simile, che avrebbe invece permesso un'analisi comparata a tutti gli effetti.
Tuttavia, verrà analizzata, con dovuta attenzione, la disciplina del parto anonimo all'interno del sistema giuridico francese, offrendo una cornice di lettura entro la quale osservare le tre decisioni giurisprudenziali di parto anonimo in casi particolari.
Dopodiché verrà proposta un'accurata riflessione sull’utilizzo della mediazione familiare, come strumento per contemperare i diversi interessi coinvolti, che senza un’attenta analisi rischiano di non essere rispettati, incluse alcune criticità e punti di forza di questo strumento.
Infine, sarà dedicato un particolare focus sul ruolo del padre nel parto anonimo, per comprendere qual è la sua funzione, e come mai appaia spesso come un eterno assente.
Questo ci aiuterà, anche, a comprendere le difficoltà (di natura socioculturale) nel reperire altre fonti in materia, soprattutto per quanto riguarda il nostro ordinamento giuridico.
2. Parto anonimo e ricerca delle origini in Francia: l’accouchement sous X
Nell’ordinamento giuridico francese l’iter per giungere ad un riconoscimento pieno, in capo al figlio adottato, di un vero e proprio diritto a conoscere le proprie origini si è scontrato con una situazione complessa.
Infatti, il sistema giuridico francese attribuisce alla partoriente il diritto di restare anonima, e impedisce, tendenzialmente, qualunque ricerca sulla sua identità.
L’art. 326 cod. civ. stabilisce che la madre biologica possa scegliere, al momento del parto, di nascondere la propria identità, impedendo la costituzione del vincolo di filiazione con il nato, ma anche che questi possa esercitare in futuro l’azione di accertamento della maternità nei suoi confronti, nonché accedere alle informazioni che la identificherebbero.
Le radici del parto anonimo (cd. accouchement sous x) si individuano nella tradizione medievale delle cd. boîtes à bébé, che precedono il sistema delle ruote di metà ‘700, dove la donna poteva abbandonare il nascituro in completa sicurezza.
Solo a partire dagli Anni ’40 del 1900 in Francia si inizierà a tutelare l’anonimato della madre, non più come in passato nei confronti della società, ma a tutela del figlio stesso.
Il bambino, nato da madre che non vuole essere nominata, diventa così oggetto di un “abbandono organizzato”, che recide alla base qualsivoglia tipo di legame - non solo giuridico - con la madre biologica, precludendogli la possibilità di risalire alle sue origini.
Simili considerazioni trovano conferma nell’orientamento, in seguito superato, secondo il quale l’adozione costituisce una cd. seconda nascita per il bambino, cancellando ogni legame con la famiglia biologica. Di conseguenza ogni traccia del passato dell’adottato doveva essere tenuta nascosta.
A queste osservazioni si aggiunge, inevitabilmente, la crescente attenzione - intorno alla fine del ‘900 - nei confronti dei diritti del fanciullo, espressamente sanciti dalla Convenzione di New York del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e dalla Convenzione dell’Aja del 1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale.
Quindi l’istituto dell’adozione diventa l’ultima ratio per il bambino privo di cure e di affetto nella famiglia biologica, secondo il principio fondamentale in base al quale egli ha diritto a restare, laddove possibile, all’interno della famiglia biologica, purché conforme all’interesse del minore (cd. best interest of the child).
In relazione a questi orientamenti, nel 1993 il legislatore francese aveva già temperato la rigidità dell’accouchement sous x, prevedendo l’obbligo di informare la madre delle conseguenze della scelta per l’anonimato, e della possibilità di rilasciare delle informazioni su di sé al bambino.
Con la Loi n. 2002-93 relative à l’accès aux origines des personnes adoptées et pupilles de l’État del 22 gennaio 2002, il legislatore francese interviene nuovamente in materia, prevedendo l’obbligo per il personale sanitario di informare la madre circa l’importanza che assume la conoscenza delle proprie origini per ogni persona, così come della possibilità di rinunciare al proprio anonimato “in qualsiasi momento”.
La donna è quindi invitata, “e non obbligata”, a rilasciare delle informazioni sulla propria salute e su quella del padre, sulle origini del bambino e sulle circostanze della sua nascita, nonché, in busta chiusa e sigillata, la propria identità3.
La riforma del 2002 istituisce, anche, un apposito organismo pubblico, il CNAOP (Conseil National pour l’Accès aux Origines personnelles), che ha la funzione di assistere il figlio maggiorenne nella ricerca delle proprie origini, in qualità di intermediario per l’accesso alle informazioni sulla sua nascita e sull’identità dei genitori biologici, sia laddove questi ultimi abbiamo prestato il proprio consenso alla divulgazione di tali informazioni, sia laddove questo non sussista.
Nel caso in cui non sia stato prestato il relativo consenso all’accesso, il CNAOP procederà a rintracciare e contattare la madre o il padre biologici, nel pieno rispetto della loro vita privata e familiare, allo scopo di interpellarli sulla loro volontà a restare o meno anonimi.
L’eventuale diniego alla pubblicazione dei loro nomi pone un ostacolo insormontabile alla ricerca delle origini, e la nascita rimarrà per sempre anonima5.
Il genitore, nel momento in cui viene contattato, o anche spontaneamente e/o in assenza di un’esplicita istanza da parte del figlio, ha la possibilità di comunicare il proprio consenso ad essere contattato, così come a mantenere l’anonimato anche dopo la propria morte.
A quest’ultimo riguardo, in mancanza di esplicita volontà, dopo la morte del genitore, il figlio ha diritto all’accesso alle informazioni sulle proprie origini.
Inoltre, il CNAOP, oltre a fungere da intermediario tra madre biologica e figlio adottato nell’iter di ricerca delle origini, fornirà supporto al loro primo incontro.
La riforma del 2002 è intervenuta nelle more del celebre affaire Odièvre c. Francia, nel quale la Corte EDU respinse la pretesa della ricorrente, adottata, che si era vista rifiutare l’accesso alle informazioni identificative sulla madre biologica, che aveva scelto di rimanere anonima.
Secondo i giudici di Strasburgo, con l’intervento legislativo del 2002, l’ordinamento francese aveva stabilito un equilibrio e una proporzione sufficienti tra gli interessi in gioco, con l’istituzione del CNAOP4: da un lato la tutela dell’anonimato della madre biologica, e dall’altro la richiesta della ricorrente di accedere alle proprie origini.
Quindi, nel sistema giuridico francese, il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini - riconosciuto come fondante l’identità personale e compreso nell’art. 8, CEDU che tutela la vita privata e familiare - non si configura come assoluto, ma andrà bilanciato con il diritto della madre a partorire in anonimato in condizioni adeguate6.
Ad ogni modo, in Francia non sono mancate richieste per una riforma del sistema, allo scopo di rendere più efficace l’intervento del CNAOP, sempre rispettando il giusto equilibrio tra il diritto alla vita privata del genitore biologico e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, rafforzando il principio di reversibilità della volontà materna.
In particolare, l’obiettivo di una simile riforma consisterebbe nel riconoscere che l’interesse della madre a restare anonima, al momento del parto, non è necessariamente incompatibile con quello del figlio, raggiunta la capacità di discernimento, a ricercare le proprie origini.
Una vera salvaguardia della famiglia adottiva consisterebbe proprio nel rispetto e nella considerazione della storia anteriore dell’adottato, che non andrà assolutamente sostituita con la fictio giuridica sulle sue origini, ma affiancata a questa7.
2.1. Il padre che riconosce il figlio nato da donna che non vuole essere nominata: tre fattispecie particolari di parto anonimo
Nel precedente paragrafo è stato delineato lo scenario di riferimento, nel sistema giuridico francese, in materia di parto anonimo e di ricerca delle proprie origini.
La disciplina francese, in materia di parto anonimo, annovera una serie di fattispecie particolari.
Si tratta di una casistica estremamente limitata, ma comunque degna di nota per le proprie peculiarità, che inevitabilmente richiamano l’attenzione del giurista.
Analizziamo tre fattispecie di parto anonimo, nelle quali il diritto della donna a partorire in completo anonimato viene surclassato da altri diritti soggettivi, che richiedono, necessariamente, di essere contemperati con questo.
Si tratta di ipotesi nelle quali la madre ha deciso di partorire in anonimato, ma il padre biologico intende procedere al riconoscimento del figlio: in questi casi risulta evidente la totale discrasia tra le due posizioni giuridiche soggettive, quella della madre da un lato e quella del padre dall'altro.
In due casi il padre ha proceduto ad un riconoscimento prenatale8.
2.1.1. L’Affaire Novak (1958)
L’Affaire Novak pone al centro della causa la sorte di Didier, nato da parto anonimo, riconosciuto in circostanze complesse dal padre biologico tramite riconoscimento prenatale, e poco dopo dato in adozione ai coniugi Novak.
L’abbandono del minore, prerequisito necessario per l’adozione, sussisteva a tutti gli effetti, data la scelta della madre biologica alla nascita, nonostante il padre non fosse dello stesso avviso9.
Questi, infatti, non era a conoscenza della gravidanza al momento del parto, finché non ne fu informato, ma il bambino era già stato adottato.
In seguito, il padre aveva sposato la madre biologica, e lo stesso aveva reclamato il bambino, come prevedeva la legge dell’epoca.
L’affaire Novak non trovò mai una soluzione definitiva se non dopo dodici anni, in seguito a tre sentenze della Corte di Cassazione francese10.
Nelle more del giudizio la coppia adottiva, i coniugi Novak, divorziarono, e il bambino rimase a vivere con la madre adottiva11.
Nel 1966 la Corte di Cassazione decise che il bambino dovesse rimanere con la famiglia adottiva, riconoscendo comunque ai genitori biologici ampi diritti di visita.
Durante il giudizio il comportamento del padre risultò ambivalente, dato che per circa due anni «non ha fatto nulla per recuperare il proprio figlio»12.
La decisione fu commentata dalla dottrina dell’epoca come «forse crudele»13, ma comunque nell’interesse del minore, altrimenti si sarebbe obbligato Didier a cambiare radicalmente ambiente di vita all’età di dodici anni, riconoscendolo come figlio dei propri genitori biologici, ma comunque di persone per lui estranee.
Inoltre, la dottrina considerò che lo scopo dell’adozione14 non fosse stato pienamente raggiunto in questo caso, perché la madre adottiva aveva divorziato, e quindi non poteva rappresentare una vera e propria famiglia per il minore.
Infine, secondo la stessa dottrina, la signora Genilloud, la madre biologica, aveva assunto nei fatti un comportamento «incomprensibile»15.
Questa prima fattispecie mostra tutta la sua complessità e ambivalenza.
Innanzitutto, la madre biologica esercita un diritto soggettivo, quello di partorire in anonimato, riconosciutole dalla legge, ma nei fatti il suo esercizio viene continuamente ostacolato, in primis dal padre biologico, e solo in parte esercitato.
L’esito dell’affaire Novak è alquanto discutibile.
Potremmo riflettere su quanto una madre single, come la madre adottiva, possa rappresentare o meno una famiglia, secondo gli standard socioculturali attuali, confrontandoli con quelli dell’epoca.
La madre adottiva viene discriminata in quanto genitore single da una pletora di giuristi, che mettono in dubbio le sue capacità genitoriali - e quindi il potere essere una famiglia stabile e centro di affetti per Didier - in quanto tale, ovvero non costituendo un vero e proprio nucleo familiare.
Tuttavia, permane una riflessione centrale: due diritti assolutamente incompatibili, quello della madre all’anonimato e quello del padre a riconoscimento del proprio figlio, non sono stati efficacemente contemperati, a danno della donna e della sua riservatezza.
La madre biologica viene totalmente discriminata nel suo diritto, la sua voce viene a stento ascoltata, e solo per essere in seguito taciuta, facendo prevalere le intenzioni del padre biologico.
Non solo, ma la pubblicità “mediatica” che il caso avrà inevitabilmente suscitato, nonostante fossero gli anni ’50-’60, non ha sicuramente giovato alla privacy della donna, già incisa dall’atto di riconoscimento paterno.
Infine, è inevitabile rilevare la sofferenza e la mancanza di certezze che Didier avrà dovuto sperimentare con questa vicenda: l’abbandono alla nascita, la successiva adozione, il caos socio-familiare vissuto durante i primi anni di vita, la separazione dei genitori adottivi, e infine l'esito della vicenda legale.
Didier si è trovato ad oscillare tra due poli opposti: da un lato la famiglia biologica che, con motivazioni ambivalenti, sosteneva di essere la sua unica famiglia, pur non conoscendolo ed essendo tra loro estranei; dall'altro la famiglia adottiva che lo ha cresciuto sin dalla nascita.
2.1.2. L’Affaire Riom (1996)
L’Affaire Riom presenta un’evoluzione molto simile al caso precedente, ma stimola anche una maggiore discussione nella dottrina francese.
Il 5 settembre 1996 una donna partorisce in anonimato il proprio figlio, il quale, decorsi tre mesi dalla nascita, viene adottato da una nuova famiglia.
Il padre biologico era venuto a conoscenza della gravidanza, e aveva così proceduto ad un riconoscimento prenatale presso un notaio: la madre aveva simulato la morte del figlio, per partorire in sicurezza secondo le previsioni dell’accouchement sous x.
L’uomo, venuto a sapere la verità dalla donna dopo diverse settimane, aveva proceduto ad un secondo riconoscimento, che era stato registrato sul certificato di nascita del bambino il 31 gennaio 1997.
Il padre aveva chiesto la restituzione del figlio16, e nel giugno dello stesso anno il Tribunale di Cusset aveva accettato l’istanza dell’uomo, per eseguire un test del DNA sul minore.
A questa istanza si oppose l’Association Enfance et Familles d’adoption che fece ricorso, così il Tribunale di Riom rifiutò l’istanza del padre biologico con un’argomentazione17 che, in dottrina, mise a disagio i giuristi dell’epoca.
I giudici, oltre a rifiutare la validità del primo riconoscimento, considerarono impossibile procedere con la restituzione del minore al padre, perché il secondo riconoscimento era stato eseguito fuori dai termini consentiti dalla legge.
Infatti, la normativa prevede che i consanguinei del nascituro abbiano un tempo massimo di tre mesi per ritrattare la propria scelta per l’abbandono, dopodiché il minore andrà in adozione.
In dottrina emerse la voce di P. Murat, che considerò minime le possibilità, per un presunto padre, di potere identificare il proprio figlio prima del decorso dei tre mesi18.
Intervenne anche T. Garé che criticò come una donna, attraverso il parto anonimo, avesse modo di partorire in sicurezza, impedendo sia che il nascituro non risalisse mai alla sua identità, sia la costituzione di un rapporto giuridico tra i due.
Ad ogni modo, come osserva Garé, «[…] ogni bambino è virtualmente portatore di due filiazioni»19, quella materna e quella paterna.
Complice anche il fatto che, ogni anno, nella maggiore parte delle nascite anonime il padre non si palesa quasi mai, e quindi la questione non si pone.
Infine, altre voci hanno osservato come si potrebbe aprire un complesso dibattito sulla legittimità dell’adozione nel diritto francese: «il parto in anonimato costituisce, per la donna, un’alternativa all’aborto? Oppure è una conquista delle lobby dell’adozione, che lo vedono come una fonte preziosa di neonati?»20.
In particolare, altre voci hanno parlato di una vera e propria «tecnica di contraccezione legale»21.
2.1.3. L’Affaire Benjamin (2001)
L’Affaire Benjamin, nonostante i suoi precedenti, porta ad emersione le difficoltà della giustizia francese ad individuare un equilibrio tra i diversi diritti contrapposti, in particolare a riconoscere un interesse anche al padre biologico.
La vicenda giudiziaria è durata per diversi anni, riportando una soluzione non proprio soddisfacente: ancora una volta ad uscirne danneggiato è sempre il minore.
L’Affaire Benjamin ha visto contrapposti, da un lato il padre biologico del nascituro, che domandava la restituzione del figlio nato in seguito a parto anonimo, e dall’altro i genitori adottivi del minore, i coniugi Fau.
L’uomo aveva proceduto ad un riconoscimento prenatale, ed in seguito la madre aveva partorito in anonimato senza menzionare il suddetto riconoscimento: la donna aveva nascosto la nascita del bambino e quest’ultimo era stato dato in adozione.
Nei fatti il parto anonimo aveva vanificato il precedente riconoscimento, escludendo sia il diritto del padre naturale sia quello del bambino a stabilire dei validi legami familiari, prevalendo nei fatti la decisione della donna22.
Il contenzioso ha inizio nel 2001, quando il Tribunale di Nancy si dovette pronunciare su due domande: l’istanza del padre biologico che richiedeva la restituzione del minore, e la richiesta dei coniugi Fau per procedere ad un’adozione piena dello stesso.
A favore dei coniugi Fau si ponevano alcune solide argomentazioni:
in primo luogo, il riconoscimento prenatale di un bambino, nato da parto anonimo, non comporta nessuno effetto, e non sussiste alcuna possibilità giuridica di instaurare un legame con la madre. Quest'argomentazione è comprensibile, dal momento che è come se quella donna non avesse mai partorito.
In secondo luogo, la procedura di collocamento del minore presso i coniugi Fau era avvenuta correttamente, quando il padre naturale non era ancora intervenuto23.
Di conseguenza, la richiesta di restituzione del bambino doveva essere valutata in base al cd best interest of the child (superiore interesse del minore), che ha la precedenza sugli interessi dei genitori. Infatti, un legame affettivo stabile è fondamentale per lo sviluppo del minore.
Invece, a favore del padre biologico si ponevano altre argomentazioni:
in primo luogo, la richiesta della madre a partorire in anonimato aveva effetto solo nei propri confronti: le conseguenze di questa scelta non dovevano estendersi anche al padre, violando così i suoi diritti.
in secondo luogo, la filiazione paterna era stata stabilita dal riconoscimento prenatale, che ha avuto effetto dal giorno della nascita: stabilito questo legame, il termine di tre mesi, di cui all’art. 351 cc, non poteva essere opposto al padre, annullando nei fatti gli effetti del collocamento adottivo.
Infine, l’interesse superiore del bambino, secondo queste argomentazioni, era quello di conoscere il padre e di essere cresciuto da questi.
Il 16 maggio 2003 il giudice adito, il Tribunale di Nancy, respingeva la richiesta di adozione piena dei coniugi Fau, e ordinava la restituzione di Benjamin al padre biologico.
Successivamente, in seguito al ricorso della famiglia adottiva, la Corte d’Appello di Nancy annullò la sentenza di primo grado, respinse il ricorso del padre, e pronunciò l’adozione piena a favore dei coniugi Fau24.
In seguito ad un ulteriore ricorso del padre, la Corte di Cassazione francese, con sentenza del 7 aprile 2006, annullava la sentenza della Corte d’Appello, basandosi sulla Convenzione di New York che è «direttamente applicabile davanti ai tribunali francesi», e, secondo la lettera di cui all’art. 7 della medesima, stabilisce che «il bambino ha, dalla nascita e per quanto possibile, il diritto a conoscere i suoi genitori»25.
La Corte di Cassazione rinviava, così, la questione alla Corte d’Appello di Reims, che, con sentenza del 12 dicembre 2006, stabilì che Benjamin dovesse essere adottato attraverso adozione semplice dai coniugi Fau, e concesse al padre biologico un diritto di visita26.
In seguito alla decisione della Corte di Cassazione, la famiglia adottiva e il padre biologico erano giunti ad un accordo privatistico: il ricorso all’adozione semplice era una modalità per conciliare i due opposti interessi, garantendo il superiore interesse del minore27.
Perciò, la Corte d’Appello di Reims risolveva la vicenda, prendendo una decisione che oltrepassava l’accordo stipulato tra le parti: veniva pronunciata l’adozione semplice, ma stabiliva anche che il diritto di visita del padre doveva considerarsi un “dovere” imposto alla famiglia Fau, a Benjamin e allo stesso genitore biologico.
Un simile diritto di visita diventava così vincolante per tutti gli attori coinvolti, compreso Benjamin, anche se non lo desiderava.
La Corte stabiliva così, nell’interesse esclusivo del bambino, un unico diritto di visita di almeno tre giorni e mezzo ogni anno, fino al compimento degli 8 anni.
Una simile decisione apre una serie di dubbi e preoccupazioni, destinati a restare senza risposta28.
Questo caso ci mostra come l’interpretazione del cd best interest of the child diverge notevolmente a seconda dell’importanza attribuita dal giudice ai legami di sangue: questo conduce, inevitabilmente, ad incongruenze nelle decisioni29.
3. La mediazione familiare: una possibilità per garantire l’interesse del minore
Quanto osservato finora ci rivela una giurisprudenza decisamente non attenta al reale benessere del minore.
Nonostante i tre casi esaminati abbiano attraversato quasi mezzo secolo, probabilmente poteva essere raggiunta una soluzione diversa.
Un’alternativa senza adire nessun giudice, nessun tribunale, e con un notevole risparmio di tempo, energie e sofferenze per i tre minori coinvolti e le loro famiglie.
Mi riferisco allo strumento della mediazione familiare, che rientra nelle cd. ADR (Alternative Dispute Resolution), ovvero quei metodi di risoluzione dei conflitti di natura stragiudiziale.
La mediazione familiare è ormai diffusa in tutto il mondo, ma è in Francia che nasce nei primi anni ’50 del '900, per poi svilupparsi successivamente nel resto dell'Europa, e non solo.
Quali benefici avrebbe potuto comportare un percorso di mediazione familiare nelle fattispecie analizzate?
I diversi interessi contrapposti potevano essere mediati attraverso la figura professionale del mediatore familiare, terzo e imparziale: questi avrebbe potuto stimolare le parti a raggiungere un accordo duraturo e condiviso, costruito da loro stesse.
L’interesse del padre biologico, da un lato, quello della madre biologica dall’altro, senza dimenticare il prioritario interesse del minore, e quello della famiglia adottiva.
Come abbiamo osservato, in questa casistica è sempre il minore a subire il danno maggiore, circondato da adulti che non riescono, a causa della loro accesa conflittualità, a prendere una decisione che rispecchi anche il suo interesse.
A questo si aggiunge una giurisprudenza, affiancata da una dottrina, chiaramente condizionata dalla società e dall’epoca in cui vive, e del tutto incapace a prendere una decisione "altra" per queste famiglie in difficoltà.
La mediazione familiare avrebbe permesso di raggiungere un accordo, nel quale ogni parte presentava i propri bisogni ed interessi, ponendo al centro il minore e il suo benessere.
Sarebbe stato uno strumento vantaggioso, in particolare per regolare il diritto di visita del padre biologico che, come abbiamo osservato nell'affaire Benjamin, ha destato numerosi dubbi e perplessità.
Il mediatore avrebbe potuto stimolare il problem solving delle parti, costruendo insieme a loro una soluzione condivisa ad hoc, così da aiutarle a gestire il proprio conflitto familiare.
Tuttavia, per quanto la mediazione familiare sia uno strumento che offre possibilità diverse da un giudizio, non si possono non rilevare alcune importanti criticità.
In primo luogo, la mediazione familiare si configura come uno strumento volontario per la gestione del proprio conflitto: questa condizione avrebbe potuto limitare i protagonisti della vicenda, se non fossero stati tutti d'accordo a perseguire questa strada.
Tuttavia, dobbiamo osservare che vi sono sistemi giuridici (es il Regno Unito) nei quali è ammesso il ricorso alla cd. mediazione familiare coatta (obbligatoria).
In secondo luogo, la mediazione familiare non costituisce una panacea per risolvere qualunque tipo di conflitto familiare, e soprattutto non offre una soluzione in qualunque fattispecie conflittuale.
Come per altre ADR, anche la mediazione familiare ha i suoi limiti30.
É uno strumento, sicuramente valido ed efficace, che può offrire alle parti in lite una possibilità diversa per gestire il proprio conflitto, ma non per questo garantisce un successo (es la stipula di un accordo al termine del percorso di mediazione, oppure la soluzione della disputa familiare in un senso o in un altro).
Infine, non bisogna dimenticare che nelle fattispecie analizzate entrano in gioco diritti esclusivi delle parti in causa (diritto a partorire in anonimato, diritto al riconoscimento del proprio figlio.), che possono essere gestiti in un contesto di mediazione, ma non solo.
Come abbiamo potuto osservare, rilevano anche e soprattutto diritti di soggetti che in quel momento non li possono esercitare, ovvero i minori protagonisti di queste vicende legali: questi interessi, in un percorso di mediazione familiare, potrebbero non essere rappresentati appieno dalle altre parti.
Ad ogni modo, non si può non rilevare come attualmente il procedimento di mediazione familiare, che annovera diverse scuole di pensiero e stili operativi (non solo nel nostro ordinamento giuridico, ma anche all’estero), consenta anche ai figli della coppia in conflitto di intervenire all’interno della mediazione31.
4. Un confronto con l'ordinamento giuridico italiano: come contemperare due interessi contrapposti
Risulta necessario confrontare la disciplina del parto anonimo, secondo il modello giuridico francese, con quella prevista dal nostro legislatore interno, operando una breve analisi costituzionale, per poi riflettere sui casi particolari di parto in anonimato, in un'ottica di diritto interno.
Secondo la normativa attualmente vigente in Italia, l'accesso alle proprie origini è consentito soltanto a coloro che siano stati riconosciuti alla nascita e in seguito abbandonati o adottati: secondo la legge italiana (L. n. 184/1983, cd legge sull'adozione, successivamente riformata dalla L. n. 149/2001) chi è stato partorito in anonimato (e quindi non riconosciuto alla nascita dalla madre biologica) non può accedere alle informazioni sulle proprie origini, se non sono decorsi almeno 100 anni dalla sua nascita32.
Questa disciplina, alquanto stringente, ha determinato per numerosi decenni una netta prevalenza del diritto all'anonimato della madre sul diritto del figlio a conoscere le proprie origini.
Tuttavia, nell'ultimo decennio, il nostro ordinamento giuridico ha accolto i continui inviti a modificare la propria disciplina interna in materia, soprattutto grazie all'intervento costante e innovatore della nostra giurisprudenza, stimolata da quella della Corte EDU33.
Una prima pronuncia rivoluzionaria si è avuta con la sent. n. 278/2013 della Corte Cost., con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 28, co. 7, L. n. 184/83, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre, che ha dichiarato di non volere essere nominata alla nascita, allo scopo di sondarne la diversa volontà, a distanza di decenni da quella scelta.
Nel 2016 vi sono state altre due pronunce importanti (Cass. I sez. n. 15024/2016, Cass. I sez. n. 22838/2016), nelle quali la Corte di Cassazione ha stabilito che, anche in caso di decesso della madre biologica, il figlio possa legittimamente accedere alle informazioni sulle proprie origini.
A queste pronunce è seguita una recente sentenza della Corte di Cassazione (sent. n. 63963/2018), con la quale è stato riconosciuto all'adulto adottato il diritto di accedere alle informazioni sulle proprie origini, includendovi non solo i genitori biologici, ma anche i più stretti congiunti (fratelli o sorelle), subordinando tale possibilità alla presenza di specifici presupposti34.
Come si può osservare, il riconoscimento del diritto dell'adottato ad accedere alle informazioni sulle proprie origini proviene da una serie di pronunce giurisprudenziali, e non da un intervento puntuale e ad hoc del nostro legislatore interno.
La Corte Cost., in seguito alla pronuncia del 2013, ha rimesso al Parlamento il dovere di legiferare; in seguito, ai diversi governi che si sono succeduti negli anni, si è sviluppata una prassi comune, che da un lato risulta positiva, perché il diritto vivente ha recepito i principi dettati dalla Corte Cost., ma dall'altro rischia di dare adito ad un pericolosissimo arbitrio dei Tribunali per i minori.
Infatti, si riscontrano Tribunali per i minori che, in mancanza di una legge, ricevono i ricorsi ex art. 28, co. 7, l. 184/83, e procedono alla ricerca della madre biologica, con tutte le cautele del caso, verificando l'attualità del proprio anonimato, e promuovendo eventuali incontri con il figlio istante.
In altri Tribunali per i minori, di contro, i giudici non hanno recepito questa modifica giurisprudenziale, e si attendono i cd 100 anni: se non c'è la possibilità di avere informazioni sulle proprie origini, a causa del ripetuto diniego della donna, l'istante dovrà attendere il decorso dei 100 anni dalla propria nascita35.
Di fronte ad un simile scenario, il nostro Parlamento è stato più volte chiamato ad intervenire, legiferando in materia, ma siamo ancora in attesa di una legge ad hoc.
Abbiamo analizzato, nei paragrafi precedenti, le tre fattispecie di parto anonimo, nelle quali, nonostante la scelta della madre, il padre biologico ha voluto riconoscere il nascituro come proprio figlio.
Tuttavia, com'è stato accennato, il nostro ordinamento interno non prevede simili fattispecie giurisprudenziali.
Risulta evidente che la volontà della madre, di non essere nominata nell'atto di nascita, impedisce che si instauri un rapporto giuridico tra questa e il nascituro, e non consente al padre la possibilità di instaurare un rapporto di filiazione con il figlio.
Quindi la scelta della donna recide il nesso tra la sua identità e quella del nato, presupposto fondamentale affinché operino le presunzioni di paternità e di concepimento durante il matrimonio.
Perciò, laddove la donna nasconda le circostanze del parto, nei fatti viene compromessa la possibilità, per il padre biologico, di riconoscere il figlio.
Apparentemente, una simile situazione sembrerebbe creare una disparità di trattamento tra l'uomo e la donna, perché in caso di procreazione naturale viene consentito alla madre di sottrarsi, subito dopo il parto, alla propria responsabilità genitoriale, scegliendo di restare anonima.
Questa possibilità non viene prevista per il padre.
Tuttavia, una simile differenza non concretizza una violazione del principio di uguaglianza sostanziale, di cui all'art. 3, Cost., in quanto la norma risulta funzionale a tutelare interessi costituzionalmente protetti (es diritto alla salute di entrambi, e per il nascituro anche il diritto alla vita).
Come vedremo nel prossimo paragrafo, la filiazione fuori dal matrimonio prevede, per entrambi i genitori, che il riconoscimento del figlio possa avvenire su base volontaria: non si può registrare alcuna discriminazione basata sul genere.
L'eventuale non riconoscimento, proveniente da entrambi, è un atto ben distinto dalla decisione di partorire in anonimato, che può provenire dalla donna e che mira a tutelare situazioni di particolare difficoltà legate alla sua gravidanza.
Come osserva la dottrina italiana, il trattamento di favore che viene riconosciuto alla donna è giustificato, secondo l'art. 3 Cost., con il diverso ruolo assunto dalla stessa nella procreazione e nella gravidanza: come vedremo, l'uomo resta completamente estraneo alle vicende del parto.
Infatti, la posizione del futuro padre, in questi casi, è la stessa che può rivestire il compagno della donna che decide di interrompere volontariamente la propria gravidanza, come prevede l'art. 12, L. n. 194/1978.
Questa scelta legislativa è giustificata dalla necessità di rispettare la gerarchia di valori, prevista nel nostro sistema costituzionale, nella quale i diritti del nascituro cedono di fronte a quelli della madre, ma non anche del padre.
Perciò, la posizione del padre biologico continua ad essere profondamente trascurata: in uno scenario così delineato, il padre non potrebbe effettuare il cd "riconoscimento in utero", perché incompatibile, apparentemente, con la scelta della donna per l'anonimato.
Tuttavia, tra i due diritti contrapposti, quello della madre a restare anonima e quello del padre a vedersi riconosciuto un rapporto di filiazione, secondo la dottrina italiana, non si potrebbe parlare di un vero e proprio conflitto tra diritti incompatibili. Piuttosto, si dovrebbe semplicemente discutere di interessi tutelati, giuridicamente, su due livelli diversi36.
4.1. Italia: una nuova tutela per il padre, il pre-riconoscimento del nascituro
Come abbiamo osservato, l'ordinamento giuridico francese risulta essere l'unico ad avere affrontato, senza risolverlo, il tema spinoso del riconoscimento paterno del figlio, nato da donna che non vuole essere nominata.
Nonostante la giurisprudenza italiana non annoveri nessun caso simile, è importante registrare una novità apportata dal nostro legislatore in materia di diritto di famiglia, in particolare per quanto riguarda la filiazione e il pre-riconoscimento del nascituro.
Nel 2014 il legislatore italiano ha previsto la possibilità di effettuare, ad opera della coppia di genitori (o di uno solo di essi), un pre-riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, ai sensi dell’art. 254 cc37.
In questo modo si consente alla coppia di fare fronte a situazioni impreviste, quali eventuali complicazioni avvenute durante il parto, o un prolungato impedimento della madre (o del padre) a recarsi all’anagrafe per il riconoscimento del figlio.
Prima di questo intervento, nel nostro ordinamento la L. n. 219/2012 (“Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”) ha previsto importanti modifiche all’interno del diritto di famiglia: in particolare è stata abolita la storica distinzione tra figli legittimi e naturali, abrogando l’istituto della legittimazione.
Tuttavia, tale riforma non ha consentito una piena equiparazione nello status dei figli nati dal matrimonio rispetto a quelli nati al di fuori dello stesso.
Infatti, il regime previsto per il riconoscimento del figlio da parte di coppia non sposata è particolarmente degno di nota: solo per i figli nati in costanza di matrimonio si presume la maternità e paternità dei genitori.
Invece, nel caso di coppie non sposate, si presume la sola maternità, ma non anche la paternità: il padre, in sostanza, non può riconoscere il figlio senza una previa autorizzazione della madre.
Allo scopo di ovviare a questa problematica, il legislatore ha istituito la figura del pre-riconoscimento del figlio, garantendo così il sorgere di un rapporto di filiazione, anche laddove la madre e/o il padre non possano presentarsi, per qualsiasi motivo, a rendere la relativa dichiarazione, entro 10 giorni dalla nascita, come prevede la legge.
La procedura di riconoscimento del nascituro può essere effettuata solo in presenza di specifici requisiti: deve sussistere una gravidanza conclamata della madre, e i genitori non devono avere tra loro rapporti di parentela o affinità, che possono impedire il riconoscimento (artt. 250-251, cc)38.
Tale dichiarazione può essere effettuata dalla sola madre, da entrambi i genitori, o dal padre dopo che la madre ha effettuato il riconoscimento e con il consenso di questa39.
Risulta importante sottolineare, con particolare attenzione, il motivo che ha spinto il nostro legislatore a introdurre una simile novità.
L'intento del legislatore non è stato, come abbiamo osservato nelle fattispecie francesi, quello di consentire al padre un riconoscimento del figlio, surclassando il diritto della donna a partorire in anonimato.
Bensì, l'intenzione è stata quella di offrire una tutela piena a quelle coppie - non sposate, conviventi, o la cui relazione non era più attuale - che non godevano di questa possibilità, e in particolare estendere per il padre le modalità del riconoscimento.
5. Parto anonimo: la figura del padre biologico tra dubbi e difficoltà interpretative
Quanto finora osservato conduce, inevitabilmente, ad una riflessione circa la figura del padre biologico.
A questo proposito non si può non notare che tale figura, soprattutto in Italia ma non solo, è avvolta da un'aura di mistero e incertezza, dovuta alla sua scarsa presenza nello scenario appena delineato.
Innanzitutto, la scelta della donna di partorire in anonimato, a prescindere dal rapporto madre-figlio, comporta una conseguenza fondamentale: impedisce al figlio di conoscere l’identità del padre.
Questo è un profilo raramente oggetto di dibattito, a causa della sua complessità.
Dobbiamo porci due quesiti:
1) perché la conoscenza delle origini paterne ha meno incidenza sullo sviluppo della vita privata dell’adottato, rispetto alle origini materne?
2) come mai la preoccupazione dell’ignoranza dell’ascendenza paterna non è mai sorta all’interno del dibattito sul parto anonimo?
Si osserva che, laddove sia la madre a chiedere l’anonimato, l’esigenza di tutelare in via assoluta il proprio diritto al rispetto della vita prevale sull’esercizio di diritti altrui, in primis quelli del figlio40.
Tuttavia, considerando l’importanza fondamentale che riveste la conoscenza delle proprie origini biologiche - da un punto di vista psicologico, sociologico e culturale - la disciplina in materia andrebbe uniformata, anche in relazione alla conoscenza dell’ascendenza paterna.
La donna può tutelarsi attraverso la decisione di mantenere segreta la propria identità, al momento del parto, ma perché l’adottato - con i diversi requisiti che caratterizzano il nostro ordinamento - non potrebbe essere interessato a rivolgersi anche al padre?
La legge, con le sue fitte trame, sembrerebbe avere ideato un sistema, nel quale il padre ha un’immediata capacità di scomparire, di sfuggire alle sue responsabilità, presunte o probabili.
Inoltre, non va dimenticato che spesso (anche, se non in tutti i casi) è la donna a prendere questa decisione irreversibile e unilaterale, senza informare in alcun modo il proprio partner.
Tuttavia, non mancano i casi in cui sia il padre a non lasciare traccia della sua identità, “condannando” il figlio all’oblio sulle proprie origini.
Sarebbe, perciò, auspicabile che il legislatore intraprendesse questa direzione, legiferando su questo aspetto così poco dibattuto: il ruolo dei padri, un loro maggiore coinvolgimento nella vicenda delle origini, da cui potrebbe sorgere l’interesse dell’adottato a conoscere la propria ascendenza paterna.
Al momento attuale, il legislatore non si è ancora mosso in tale senso, ma parte della dottrina41 ha riflettuto sulle ragioni per le quali il padre biologico viene escluso dalla decisione della madre di partorire in anonimato.
Infatti, raramente, una simile scelta è l’esito di una consultazione tra adulti, ma spesso si tratta di una decisione unilaterale presa dalla donna, o in collaborazione con la propria famiglia di origine42.
Questa omissione si spiega, sostanzialmente, con l’impossibilità ad identificare il padre, che può essere dovuta a varie ragioni.
Innanzitutto, si rileva che al diritto della donna a rimanere anonima viene attribuito un peso maggiore rispetto a quello del padre, in quanto i rispettivi contributi a fini procreativi non riflettono identiche intenzioni.
Il contributo della donna non si limita - come accade per l’uomo - alla mera donazione di materiale genetico, ma le componenti fisiche e psico-emotive della sua partecipazione sono interdipendenti le une con le altre.
Inoltre, l’impossibilità fisica della donna a sfuggire alle conseguenze della gravidanza - a differenza dell’uomo - rende i suoi desideri maggiormente meritevoli di tutela, dando una giustificazione alla prevalenza del suo diritto all’anonimato, e quindi un limite al diritto del bambino a conoscere le sole origini materne.
Perciò, ancorando il futuro genitoriale del bambino ai soli interessi della madre, l’istituto giuridico del parto anonimo trasmette il messaggio, inevitabile, che i padri non hanno interesse o non sono in grado di adempiere adeguatamente alle loro responsabilità, in assenza della madre.
Quest’osservazione conduce all’ovvia conseguenza che viene sminuito fortemente il valore sociale della paternità, e si esclude la possibilità che il figlio abbandonato possa essere cresciuto dal padre naturale43.
L’assenza del padre si può spiegare a seconda della fattispecie concreta.
In primo luogo, nello scenario tradizionale, la gravidanza non desiderata ha spesso origine da una violenza sessuale, e in questo caso l’assenza del padre è spesso irrecuperabile, ma può servire a realizzare al meglio gli interessi della donna e del bambino.
Invece, nel caso di parto anonimo - a causa, ad esempio, dell’avversione dimostrata dalla famiglia della donna verso il proprio partner - la stessa non lo informerà della propria gravidanza, e di conseguenza mancherà qualsivoglia indicazione del padre biologico.
Quindi, risulta estremamente difficile accettare l’assenza del padre in quanto tale, senza alcuna spiegazione.
Tuttavia, da un punto di vista squisitamente pratico, il periodo di tempo - che ha a disposizione la donna, durante la gravidanza, per cambiare idea - potrebbe essere utile per cercare di giungere ad un dialogo tra i partner, evitando l’abbandono, o giungendo ad una soluzione condivisa, qualunque essa sia.
In particolare, il coinvolgimento del padre biologico potrebbe essere diretto anche solo ad una raccolta dei propri dati personali, per essere in seguito comunicati al figlio adottato, in presenza di una sua esplicita richiesta44. Dello stesso avviso di questa dottrina è il contribuito di Boyd45.
Quindi, qualunque sia lo scenario di riferimento, il fallimento della figura paterna non è giustificato in alcun modo, e non vi è alcuna ragione sostanziale che impedisca ai padri biologici di essere informati e consultati, sia durante la gravidanza, sia durante il parto.
Perciò, la loro presenza, se accompagnata da un’adeguata assistenza sociale, potrebbe essere una fonte di sostegno psicologico per la donna, e potrebbe, eventualmente, distoglierla dalla sua iniziale decisione di abbandonare il bambino, optando ad es. per l’adozione46.
Tra le diverse ragioni alla base di questa visione materno-centrica della vicenda paterna, sicuramente, va menzionata la scarsità di dati sulle caratteristiche sociodemografiche delle donne coinvolte, e sui motivi del parto anonimo47.
Come abbiamo osservato, anche se sono rari, esistono casi in cui il padre biologico manifesta l’intenzione di prendersi cura del neonato abbandonato, intraprendendo una battaglia legale.
6. Conclusioni
Come abbiamo potuto constatare, il parto anonimo pone la necessità di contemperare diversi interessi coinvolti.
In primo luogo, il diritto della donna a partorire in anonimato, che dovrà essere bilanciato con quello del figlio adottato a conoscere le proprie origini.
Si è osservato, nelle fattispecie esaminate, come sia stato dirompente l’intervento del padre biologico, che ha cercato a tutti i costi (e con tutti i mezzi) di riconoscere il proprio figlio, sia prima che dopo la nascita.
Sicuramente anche il padre biologico è portatore di propri interessi giuridici, ma non a condizione di ablare completamente la facoltà della donna a partorire in anonimato.
In terza istanza, troviamo anche la famiglia adottiva, che in questi casi ha rappresentato un base solida di affetto e stabilità per il minore.
Infine, risulta centrale la posizione di quest’ultimo, che richiede, indirettamente, che i propri interessi siano riconosciuti e tutelati.
Come abbiamo osservato, un intervento di mediazione familiare sarebbe stato ideale, per permettere a tutte le persone coinvolte di giungere ad un accordo duraturo e condiviso.
Si sarebbero evitate le tempistiche di un giudizio eccessivamente dilatato, e gli stessi attori sarebbero stati protagonisti dei propri accordi, senza delegare una decisione così importante ad un terzo, il tribunale.
Tuttavia, la mediazione familiare non rappresenta una panacea per ogni conflitto familiare, ha i suoi limiti, ed offre alcune possibilità.
Perciò l’affaire Benjamin, così come i suoi precedenti, ha mostrato una realtà che non possiamo ignorare: anche i padri dovrebbero potere avere voce in capitolo.
Ad ogni modo, l’opportunità di coinvolgere il padre biologico non dovrebbe essere valutata al solo scopo di determinare uno status filiationis, ovvero chi crescerà il bambino.
Risulta importante distinguere due profili: da un lato la possibilità di instaurare un rapporto giuridico tra padre biologico e figlio adottato, e dall’altro l’accesso alle origini biologiche che - oltre a stabilire un fatto storico - potrebbe condurre al massimo all’instaurazione di contatti tra adulto adottato e padre biologico.
Quindi l’identificazione di quest’ultimo e l’inserimento del minore in una famiglia adottiva idonea non mirano a due scopi contrapposti: si tratta di due obiettivi realizzabili in simultanea, ovvero la determinazione della verità biologica e della genitorialità48.
Infine, come abbiamo osservato, esistono simili fattispecie, pur se fortemente limitate. Complice in questo una singolare volontà dei padri a lottare per il proprio figlio.
Oltre alla Francia, la giurisprudenza tedesca ha cercato di risolvere un caso simile nel 2004, con un esito soddisfacente - a lungo atteso - per il padre biologico49.
In conclusione, trattandosi di interessi tutti meritevoli di tutela, richiedono un complesso bilanciamento, e chiamano in causa i diversi soggetti coinvolti.
Perciò, l’unica soluzione che a mio avviso risulta fattibile resta il ricorso alla mediazione familiare, che potrebbe sciogliere il nodo conflittuale, stimolando nuove soluzioni.
In questo modo, l’aula di tribunale resterà veramente l’ultima ratio da attivare, laddove eventuali accordi di mediazione non dovessero riuscire nel loro intento.
Non bisogna dimenticare che in queste fattispecie il focus doveva essere centrato sul minore, e non sul conflitto familiare di per sé.
1 C. BONNET, La possibilità di non riconoscere il proprio nato: la situazione in Europa, in Prospettive assistenziali, 2003, 142.
2 R. PREGLIASCO, I processi di accesso alle origini: esperienze a confronto, Corso di formazione Genitorialità adottiva: legislazione, desideri e nuove prospettive, Firenze, Istituto degli Innocenti, 15 Dicembre 2021.
Cfr. R. PREGLIASCO (a cura di), Alla ricerca delle proprie origini: l’accesso alle informazioni tra norma e cultura, Roma, 2013.
3 M. G. STANZIONE, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, Torino, 2015, nota 78, 35.
La raccolta delle informazioni sulla propria identità non è obbligatoria, ma dipende dall’iniziativa della madre (o del padre), e i dati raccolti hanno un valore meramente dichiarativo.
È importante osservare che su tali informazioni identificative della madre non viene condotto alcun controllo di verosimiglianza: la busta, conservata nel dossier sul bambino presso l’amministrazione pubblica, può essere aperta soltanto dal CNAOP, se sussiste la domanda di accesso alle informazioni da parte del figlio.
4 Ibid., 32-36.
5 Ivi, 39. I responsabili del CNAOP, secondo i dati ufficiali, hanno osservato come la metà delle procedure si arresti per impossibilità dell’organismo di identificare e reperire i genitori biologici.
Nelle ipotesi in cui si riesce a contattare il genitore, la metà di questi mantiene l’anonimato, sia finché saranno in vita che dopo la loro morte. Tuttavia, l’altra metà accetta di rivelare la propria identità.
Risulta comunque arduo rintracciare i padri biologici, spesso non considerati, nonostante anche questi siano ricercati dai figli abbandonati.
6 Ivi, 39. Tuttavia, questo assunto centrale è stato posto in dubbio nell’opinione dissenziente in relazione al caso Odiévre c. Francia, dove è stato osservato che il modello francese di parto anonimo, per quanto risulti temperato dalla legge del 2002, attribuisce nei fatti una netta prevalenza al diritto della madre all’anonimato.
Infatti risulta improbabile che la madre biologica decida di consentire il cd. levée de l’anonymat (sciogliere il proprio anonimato).
7 Ibid., 39-40.
8 S. STEFANELLI, Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini, in Diritto Privato, Studi in onore di Antonio Palazzo, 2009, 6 (nota 11). In Francia il riconoscimento prenatale è ammesso per opinione unanime di dottrina e giurisprudenza, ma a condizione che il figlio nasca vivo. Si richiede un unico vincolo di forma: è necessario un atto autentico, ovvero la dichiarazione di riconoscimento prenatale dovrà avvenire di fronte ad un ufficiale di stato civile.
9 In tema di adozione, la legislazione francese prevede che entro tre mesi dalla nascita il bambino possa essere riconosciuto dai propri genitori biologici, anche se nato attraverso parto anonimo. Decorso questo termine non è più possibile esperire alcuna azione, laddove il minore sia già stato adottato.
10 G. DELAISI, P. VERDIER, Enfant de personne, Paris, 1994, 102.
11 Cfr. www.lemonde.fr
Nel 1964 la Corte d’Appello di Montpellier aveva confermato la sentenza precedente del Tribunale di Tolone, che aveva pronunciato la legittimazione dei coniugi Novak ad adottare Didier, dato che all’epoca di questa sentenza il bambino era stato abbandonato volontariamente dai genitori naturali.
Questa decisione sembra contraddire la dottrina enunciata dalla Corte Suprema francese nella sentenza del 6 luglio 1960 nella stessa causa. In tale pronuncia la Corte si era pronunciata, ribaltando una sentenza della Corte d’Appello di Aix del 7 luglio 1958, che aveva dichiarato valida la legittimazione ad adottare Didier da parte dei coniugi Novak.
Decidendo così, secondo la Corte, il Tribunale di Aix aveva ignorato il riconoscimento prenatale del minore operato dal padre biologico in data 21 ottobre 1954. Un simile riconoscimento, e le successive indagini, avevano dimostrato chiaramente l’identità del minore, impedendone l’adozione: Didier non era nato da genitori sconosciuti, e non poteva essere considerato “abbandonato”, almeno dal padre. Così la sentenza del Tribunale di Nîmes ordinò in seguito la restituzione di Didier al padre biologico, ma la stessa fu nuovamente annullata nel 1963 per un vizio di forma.
Successivamente, il caso era stato trasferito al Tribunale di Montpellier, che, seguendo il dictat della Corte Suprema, ribadiva che il minore non era figlio di genitori sconosciuti, e considerava valido il riconoscimento prenatale del padre, effettuato in un momento in cui egli aveva perso di vista la madre e non sapeva se e dove si trovasse Didier.
12 Cfr. www.lemonde.fr. Nella sostanza il padre ha mantenuto il proprio desiderio di riconoscere il figlio e di averne la custodia, ma questo intento durò fino al 1° aprile 1955, dopodiché si astenne dal continuare le ricerche, pur sapendo che si stavano facendo passi in avanti verso l’adozione del figlio.Nel settembre 1955 il padre era riuscito a rintracciare la madre biologica di Didier.
13 Ibid.
14 Ibid. Ovvero « […] quello di fornire una casa per un bambino abbandonato […] ».
15 Ibid. «La madre aveva ripudiato il figlio sin dall’inizio, scegliendo di partorire in anonimato, per poi intervenire in seguito per riaverlo con sé, ma soltanto sotto “costrizione” del marito, che nei fatti sembrava essere l’unico interessato a riconoscerlo. Quindi il bambino sembrerebbe essere la causa della “rottura” tra i genitori biologici: diventerebbe un intruso tra due estranei che non ha mai conosciuto, i quali lo hanno reclamato per oltre un decennio, con motivazioni discordanti.»
16 Cfr. M. IACUB, Naître sous X, in Savoir et clinique, 2004, 4, 41-42.
«L’unica alternativa possibile per il padre era di chiedere la restituzione del minore entro il termine previsto dall’art. 351 cc [3 mesi dalla nascita], e di provare in questo termine l’identità del bambino che era stato riconosciuto e di quello nato da parto anonimo […].
[Tuttavia], il padre può stabilire la filiazione direttamente con il minore, ma non può provarla sulla base della sua relazione con la donna che ha partorito, poiché la nascita del figlio è stato un evento cancellato dalla legge».
17 Cfr. www.liberation.fr «Il riconoscimento fatto davanti a un notaio è senza effetto diretto, poiché riguarda il figlio di una donna che, secondo la legge, non ha mai partorito. È quindi privato di ogni valore, poiché il bambino che è oggetto del riconoscimento non è nato».
18 Ibid. «É sufficiente che la madre non dia nessuna informazione, partorisca lontano o in una grande città..».
19 Ibid.
20 Ibid.
21 M. IACUB, op. cit., 41-42. «La donna diventa il soggetto principale di un non atto, o meglio di un atto diverso da quello del parto, con il quale evita il parto, e quindi non più una tecnica che le permette di partorire con discrezione […]».
22 S. STEFANELLI, op. cit., 5-6.
23 G. LENEVEU, La porte de «l’affaire Benjamin» sur la reconnaisance des pères et sur l’adoption, in Recherches familiales, 2007, 4, 102.
L’art. 352, Code Civil stabilisce che il collocamento del bambino (presso la famiglia affidataria/adottiva) impedisce che lo stesso possa tornare nella famiglia di origine: la norma costituisce la pietra angolare della legislazione che disciplina la filiazione adottiva. Quindi l’inversione di tale principio metterebbe in discussione l’adozione.
24 Ibid., 102 ss.
25 Ivi.
Il testo convenzionale stabilisce che:
- il riconoscimento abbia effetto alla nascita del bambino, una volta identificato;
- la filiazione sia divisibile;
- il consenso all’adozione debba essere dato dal genitore dal quale la filiazione è stabilita.
26 Ibid., 102 ss. Si osserva che la Corte di Cassazione, stabilendo la paternità di Benjamin in capo al padre, non richiedeva che il figlio venisse cresciuto da questi, nonostante il dettato convenzionale.
27 Ibid., 103, nota 14: Émission «Zone antedate» sur M6 du 19 novembre 2006.
In tale accordo il padre si impegnava a ritirare la propria istanza di restituzione del figlio, acconsentendo all’adozione semplice. L’eventuale incontro tra l’uomo e Benjamin sarebbe stato organizzato solo se il bambino lo desiderava, e una volta compiuti 12 anni i diritti di vista del padre sarebbero stati stabiliti solo su richiesta del bambino.
28 Ibid., 104, nota 16. Dato che la decisione non tiene conto dell’accordo raggiunto tra la famiglia adottiva e il padre biologico, come misura precauzionale per il minore, il padre espresse le sue preoccupazioni ai media, trovandosi costretto a conoscere il proprio figlio quando ormai avrebbe avuto già sei anni.
Inoltre, perché questo criterio degli otto anni? Perché solo tre giorni e mezzo?
In generale, perché organizzare gli incontri tra padre biologico e Benjamin in modo tanto rigoroso?
29 Ibid., 108-109. L’interesse superiore del minore, precondizione per stabilire qualsiasi adozione, è uno dei principi basilari sanciti a livello internazionale dalla Convenzione di New York.
Sulla base di questo concetto la prima sentenza ordinava che Benjamin venisse restituito al padre, ma prediligeva una misura brutale. Non considerava le conseguenze psicologiche per il minore, che sarebbe stato allontanato dalla famiglia adottiva con la quale aveva già instaurato un’esperienza affettiva stabile.
La seconda sentenza di appello, invece, prendeva una decisione opposta e radicale: un’adozione piena che ignorava l’esistenza assoluta del padre biologico.
Infine la Corte di Cass. operava una propria interpretazione del best interest of the child, richiamando solo il primo diritto di cui all’art. 7, co. 1, Conv. New York, ovvero quello di conoscere il proprio genitore, ma non anche quello di essere da questi cresciuto ed educato.
Infine, nel pronunciare l’adozione, la Corte d’Appello di Reims fissava, nell’esclusivo interesse del minore, un diritto di visita per il padre biologico, vincolante per tutti, incluso Benjamin.
30 Cfr. C. BULGHERONI, P. VENTURA, M. BRUSA, Guida alle buone prassi per la composizione del contenzioso familiare, Santarcangelo di Romagna, 2019, 70-71.
L. PARKINSON, C. MARZOTTO, La mediazione familiare. Modelli e strategie operative, Milano, 2013, 40 ss.
31 Cfr. L. PARKINSON, C. MARZOTTO, op. cit., 211-229.
32 Art. 93, co. 2, Codice della Privacy. D. Lgs. 30 Giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali: “Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non volere essere nominata, avvalendosi della facoltà di cui all’art. 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento".
33 Nella giurisprudenza della Corte EDU, in materia di acesso alle origini biologiche da parte dell'adottato nato da parto anonimo e non riconosciuto alla nascita, si ricordano le seguenti pronunce.
Gaskin contro Regno Unito, 7 Luglio 1989, ric. 10454/83; Mikulić c. Croazia, 7 Febbraio 2002, ric. 53176/99; Odièvre c. France, 13 Febbraio 2003, n. 42326/98; Godelli c. Italia, 25 Settembre 2012, ric. n. 33783/09.
34 R. PREGLIASCO, L'accesso alle origini nel diritto internazionale, Corso di formazione L'adozione si trasforma, Firenze, Istituto degli Innocenti e CAI, Novembre 2020.
35 D. VETTORI, A. ANTONELLI, M. COCCATO, La ricerca delle origini tra bisogno identitario e aspetti giuridici, Corso di formazioneL'adozione si trasforma, Firenze, Istituto degli Innocenti e CAI, Novembre 2020.
36 Cfr. www.salvisjuribus.it
37 Art. 254 cc: “Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è fatto nell’atto di nascita, oppure con un’apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti ad un ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo”.
38 L’atto si formalizza attraverso il rilascio di una dichiarazione solenne ed irrevocabile, da rendere davanti ad un ufficiale di stato civile di qualsiasi comune, in seguito al quale si ottiene la formazione di un atto di riconoscimento prima della nascita.
Trattandosi di un atto facoltativo e volontario, il pre-riconoscimento non è soggetto a scadenze.
39 Cfr. www.prontoprofessionista.it
40 A. MARGARIA, Parto anonimo e accesso alle origini: la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna la legge italiana, in Minori giustizia, 2013, 2, 346-348.
41 A. MARGARIA , Anonymus Birth - Expanding the Terms of Debate, in International Journal of Children’s rights, 2014, 22, 570-580.
42 Ibid., 576. Il caso Odièvre c. Francia rappresenta sicuramente un unicum in materia, in quanto il padre era stato informato della gravidanza da parte della madre, ed era stato addirittura consultato dalla stessa prima di prendere la sua decisione.
Il padre si era comunque rifiutato di avere qualsiasi tipo di rapporto con la figlia, e aveva dichiarato di non potersi assumere un simile onere.
Al di là dell’esito della vicenda, il fatto che gli fosse stato offerta l’opportunità di scegliere se essere genitore è comunque apprezzabile, in quanto indice di una rappresentazione della procreazione e della paternità come preoccupazione e responsabilità condivise da entrambi i genitori.
La vicenda, sotto questo profilo, rappresenta un’eccezione: dopo l’abbandono di Pascale Odiévre, i genitori biologici avevano convissuto per sette anni e avevano avuto un’altra figlia, che - al momento dell’istanza della ricorrente - aveva ventuno mesi (Odièvre c. France, 13 Febbraio 2003, n. 42326/98., § 12).
43 Ibid., 570-575.
44 Secondo la mia personale opinione, si tratta di una mera ipotesi, a causa del necessario contemperamento dei diversi interessi coinvolti, ma soprattutto della complessità di un simile scenario.
In primis rileva l’interesse pubblico che, nel nostro ordinamento, ha da sempre ostacolato il pieno riconoscimento del diritto del figlio adottato a conoscere le proprie origini, seguito dalla tutela della necessaria riservatezza della famiglia biologica, quindi del diritto della madre a restare anonima (nei limiti di cui alla sentenza della Corte cost. n. 278/2013 e delle successive pronunce).
Non va, perciò, dimenticato il rispetto del diritto del figlio adottato a conoscere le proprie origini biologiche, nonché l’identità dei propri genitori.
Quindi, la comunicazione indiscriminata dei dati identificativi del padre biologico comporterebbe le stesse problematiche esistenti con la figura materna? Sicuramente, per quanto riguarda la problematica della riservatezza e del rispetto della propria privacy, ma probabilmente non per quanto concerne l’interesse pubblico.
Infatti, spesso, il padre non era a conoscenza della gravidanza, oppure - pur essendone a conoscenza - se ne era disinteressato.
Inoltre, non bisogna dimenticare il rischio che la donna subisca, dal partner, una costrizione ad abortire, laddove questo non sia il suo desiderio (es. nel caso in cui entrambi siano sposati, e la donna desideri portare avanti la gravidanza).
Tuttavia, mancando un intervento puntuale del legislatore, è impossibile giungere ad una soluzione specifica, qualunque essa sia, data la complessità della materia.
45 S. BOYD., Gendering Legal Parenthood: Bio-genetic Ties, Intentionality and Responsibility, in Windsor Yearbook of Access to Justice, 2007, vol. XV, 1, 63-94, 69.
A. MARGARIA, op. cit., 578-579. Nello scenario tratteggiato da Boyd, l’incapacità o il rifiuto della donna a prendersi cura del figlio la “denaturalizza”, impedendo ogni riconoscimento giuridico del suo contributo riproduttivo.
Perciò, in caso di nascita anonima, il padre biologico viene escluso completamente, senza alcuna possibilità di esprimere la propria intenzione e dimostrare la propria capacità (e/o volontà) a prendersi cura del figlio.
46 A. MARGARIA, op. cit., 570-580.
47 Cfr. www.neodemos.info «Uno studio francese (Villeneuve-Gokalp, 2011), svolto dall’INED (Institute National d’études démographiques) tra luglio 2007 e giugno 2009, per esempio, dimostra che, anche se la relazione complicata con il padre biologico rappresenta la causa più ricorrente dell’accouchement sous x (43% dei casi), esistono anche altri fattori che spingono la donna o la coppia a scegliere di partorire in anonimato, tra cui le difficoltà economiche e/o sociali (28%), un’età troppo giovane (19%) e la paura del rifiuto da parte della famiglia e della comunità (11%)».
48 Cfr. www.neodemos.info
49 Cfr. Corte EDU, Görgülü c. Germania, 26 Febbraio 2004, n. 7469/01. L'autore si è voluto limitare ad un brve cenno sul punto.
Il sistema giuridico tedesco prevede una tipologia sui generis di parto anonimo, il cd parto con discrezione, che si differenzia sia dal modello italiano che francese per le sue indubbie particolarità.
Non è questa la sede opportuna per discutere del parto anonimo all'interno del sistema tedesco, vista la sua ampiezza e le sue differenze sostanziali.