La riedizione del potere della Pubblica amministrazione a seguito della sentenza di annullamento
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Vincenzo Visone
Il saggio approfondisce il tema delle diverse forme dell’attività della Pubblica amministrazione, analizzando problematiche storicamente risalenti e ancora attuali, come la definizione della nozione di discrezionalità, il controllo giudiziario sull’attività della P.a. e i confini dell’eccesso di potere. Dopo tale excursus, il contributo esamina la questione della riedizione del potere della Pubblica amministrazione nei suoi tratti generali e la particolare fattispecie della riedizione del potere successivamente ad una sentenza di annullamento, traendo spunti interessanti dalla sentenza del Consiglio di Stato Sez. III, Sent., (ud. 16/09/2021) 21-09-2021, n. 6422.
Sommario: 1. Premessa; 2. La discrezionalità amministrativa; 2.1. I connotati della discrezionalità amministrativa; 3. La centralità del distinguo con l’attività vincolata e il diverso peso dell’onere motivazionale; 4. Il controverso rapporto tra discrezionalità amministrativa e controllo giudiziario; 4.1. La ‘questione’ dell’eccesso di potere; 5. Il merito amministrativo; 6. Il nodo della discrezionalità tecnica; 7. Osservazioni critiche; 8. Le diverse modulazioni della riedizione del potere amministrativo; 9. Il caso della riedizione del potere amministrativo rispetto alla previa delibazione di illegittimità per difetto di motivazione.
1. Premessa
La nozione di discrezionalità, come osservato da autorevole dottrina[1], è forse la nozione più caratteristica del diritto amministrativo.
Essa può riferirsi al potere, all’attività e al provvedimento amministrativo e involge anche altri ambiti del diritto pubblico.
Si discorre comunemente, ad esempio, di discrezionalità del legislatore[2], i cui limiti rilevano nell’ambito del giudizio di costituzionalità delle leggi effettuato in base al parametro della ragionevolezza delle scelte legislative, nonché di discrezionalità del giudice, con preminente e precipuo riferimento ai cosiddetti poteri di giurisdizione volontaria e alla determinazione della pena da parte del giudice penale.
Per quanto concerne il diritto amministrativo, la dottrina ha ricostruito in maniera differente la nozione di discrezionalità amministrativa, in assenza di una definizione normativa, definendola come l’“espressione più eclatante”[3] dell’autonomia di gode la Pubblica amministrazione.
Secondo una prima esegesi, la discrezionalità amministrativa è lo spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione[4].
Per i sostenitori di un diverso approdo ermeneutico, la discrezionalità amministrativa è la facoltà di scelta tra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato[5].
A caratterizzare la discrezionalità amministrativa, dunque, concorrerebbero alcuni tratti peculiari.
In primo luogo, connotato distintivo della discrezionalità amministrativa è la facoltà di scelta.
In secondo luogo, la predetta scelta deve avere ad oggetto condotte giuridicamente lecite, atteso che la delimitazione della liceità delle azioni è compito demandato al legislatore e la pubblica amministrazione è tenuta a rispettare le decisioni di quest’ultimo.
Infine, dalla considerazione appena svolta, è agevole desumere che la delibazione dell’organo pubblico è funzionale e strumentale al soddisfacimento dell’interesse pubblico predeterminato in via legislativa, non potendo la pubblica amministrazione agire per soddisfare primariamente un interesse privato né perseguire uno scopo diverso da quello che giustifica l’esercizio del potere.
La dottrina più recente, tuttavia, ha disatteso la tesi appena menzionata, in quanto è stato rilevato che “gli interessi non vivono isolati”, e pertanto l’interesse primario deve essere messo a confronto e valutato anche alla luce degli interessi pubblici secondari, collettivi e privati che di volta in volta vengono in rilievo[6].
A titolo esemplificativo, prima di elaborare e approvare un progetto concernente la realizzazione di un’autostrada si dovrà tenere conto non solo dell’interesse primario alla viabilità, ma anche delle misure necessarie a salvaguardare l’ambiente, nonché farsi carico degli strumenti e dei materiali capaci di arrecare il minor danno possibile alle comunità locali pregiudicate da un tale tipo di intervento.
Sulla scorta delle obiezioni appena riferite, la discrezionalità amministrativa è stata ricostruita in termini di valutazione comparativa che l’Amministrazione è deputata a compiere tra l’interesse primario di cui è istituzionalmente portatrice e gli interessi secondari, pubblici e privati, arrecando a quest’ultimi il minor sacrificio possibile[7].
L’esercizio del potere discrezionale, dunque, secondo l’orientamento dottrinale più recente e ad oggi dominante, è connotato da due momenti essenziali e impreteribili.
Innanzitutto, tale attività consiste in un giudizio, poiché l’amministrazione deve individuare e valutare tutti i fatti e gli interessi rilevanti, sulla base di un’istruttoria adeguata, da condurre in ossequio alle regole procedimentali previste dalla legge 241 del 1990.
L’autorità procedente, poi, è chiamata ad effettuare una scelta, fondata su una valutazione logica e ragionevole delle risultanze istruttorie, con la quale individua la soluzione preferibile e idonea a realizzare l’interesse pubblico primario con il minor sacrificio possibile degli interessi compresenti.
2. La discrezionalità amministrativa
Ciò detto sull’impegno profuso dagli interpreti per ricostruire con esattezza la nozione di discrezionalità, occorre verificare come l’esercizio del potere discrezionale si colloca all’interno dell’ordinamento e, in particolare, nell’ambito del diritto amministrativo sostanziale e processuale.
Il concetto di discrezionalità[8], pur in assenza di una definizione normativa esplicita, è richiamato da molteplici norme.
Invero, l’art. 11 della legge 241 del 1990, concernente gli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, statuisce che gli accordi tra amministrazione e privati hanno ad oggetto “il contenuto discrezionale del provvedimento”; l’art. 21 octies, indirettamente evoca il concetto di discrezionalità, attraverso il riferimento “alla natura vincolata” del provvedimento quale presupposto per l’esclusione della sua annullabilità per ragioni meramente formali.
Infine, l’art. 31 del c.p.a., relativo all’azione avverso il silenzio-inadempimento, stabilisce che il giudizio sulla fondatezza della pretesa è possibile soltanto quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità.
Le norme menzionate concernono il procedimento amministrativo, ma, come è agevole desumere, destano l’attenzione dell’interprete sui profili di carattere sostanziale e processuale che emergono da una loro piana lettura.
Il richiamo al contenuto discrezionale del provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241 del 1990, ad esempio, lascia evincere che l’attività della pubblica amministrazione, pur quando connotata da discrezionalità, non è mai completamente libera da etero- limitazioni; in proposito, occorre affrontare la tematica importante e delicata dei rapporti tra principio di legalità e discrezionalità amministrativa.
Le azioni della pubblica amministrazione sono assoggettate, sotto plurimi profili, al principio di legalità[9]: da ciò consegue che, in difetto di un addentellato normativo, gli organi pubblici non possono vantare nessuna posizione di potere.
Il principio di legalità impone, dunque, che l’attività amministrativa sia retta da una disposizione legislativa che costituisca, al contempo, fondamento e disciplina del potere da esercitare.
D’altronde, come è stato osservato[10], il potere non può essere esercitato in maniera libera, poiché soggiace al rispetto di taluni limiti, di segno positivo e di segno negativo.
I limiti di segno negativo hanno il precipuo scopo di assicurare che l’attività espletata non travalichi i confini della liceità e valgono sia per i contegni e gli atti ascrivibili alla pubblica amministrazione sia per le determinazioni imputabili ai privati.
I limiti di segno positivo, concernenti esclusivamente la pubblica amministrazione, sono volti a garantire che quest’ultima persegua i fini pubblici che giustificano la posizione di potere ad essa demandata.
In via preliminare, occorre rilevare che non può predicarsi la sussistenza della discrezionalità quando “la norma giuridica impone rigidamente all’amministrazione un determinato comportamento in determinate circostanze, ovvero allorché l’esercizio del potere è così puntualmente disciplinato a livello normativo da ridursi ad un fatto pressoché meccanico”[11].
In altri termini, l’attività della pubblica amministrazione risulta vincolata quando è integralmente disciplinata dal legislatore, sia per quanto concerne i presupposti di fatto che legittimano l’emanazione del provvedimento sia in ordine alle conseguenze giuridiche derivanti dalla delibazione amministrativa: risulta agevole riscontrare che in una siffatta ipotesi non esiste alcun margine di scelta per l’organo pubblico circa la soluzione più idonea per la cura dell’interesse pubblico.
Parte della dottrina[12], invero, ha sostenuto che tutta l’attività della pubblica amministrazione ha natura vincolata, anche quella discrezionale, in quanto volta a realizzare la semplice concretizzazione dei comandi astratti delle norme.
La predetta tesi ha incontrato delle obiezioni insuperabili e insuperate.
La regolamentazione omnicomprensiva e preventiva di ogni accadimento disciplinabile dalla pubblica amministrazione colliderebbe con quell’esigenze di flessibilità imposta dal principio del buon andamento e ad oggi ancor più ineludibile in ragione della profonda e incessante evoluzione tecnologica della società[13].
Non merita di essere condivisa neanche l’opinione secondo la quale il carattere discrezionale è proprio di ogni atto e provvedimento amministrativo[14].
Il suddetto approdo ermeneutico non tiene conto né del dato normativo né delle diverse sfaccettature che possono contraddistinguere una fattispecie concreta, rispetto alla quale s’intersecano eventualmente poteri discrezionali e poteri vincolati.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che
“anche nel caso di procedimenti finalizzati alla adozione di provvedimenti di natura sostanzialmente vincolata, come le autorizzazioni in materia edilizia, sussistono fasi in cui l'Amministrazione deve esercitare poteri chiaramente discrezionali, quanto meno sotto il profilo tecnico, attinenti al "quantum", al "quomodo" ed al "quando" degli adempimenti da eseguire”[15].
2.1. I connotati della discrezionalità amministrativa
L’attenzione dell’interprete, una volta delineato il discrimen tra attività vincolata e attività discrezionale, deve soffermarsi sull’ampiezza della discrezionalità di cui gode la pubblica amministrazione nell’esercizio del potere.
In relazione ai momenti di rilevanza della discrezionalità, si distingue la scelta discrezionale sull’an, sul quid, sul quomodo e sul quando.
Allorché la pubblica amministrazione goda discrezionalità circa l’an della scelta, essa è libera di scegliere se esercitare o meno il potere: trattasi di una facoltà che lascia ampi margini di valutazione alla P.A. ed ha natura eccezionale. L’art. 2, comma II, della legge n. 241 del 1990, infatti, statuisce che ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
La libertà di scelta sull’an rappresenta, dunque, un’eccezione alla regola e vien in rilievo, perlopiù, in relazione ai provvedimenti di secondo grado, come l’annullamento d’ufficio[16].
La discrezionalità sul quid attiene al contenuto del provvedimento, atteso che il contenuto è un elemento essenziale del provvedimento amministrativo e deve essere, ex art. 1346 del codice civile, lecito, determinato o determinabile; il concetto de quo, peraltro, è stato oggetto di una profonda diatriba dottrinale, in assenza di una esplicita nozione normativa.
Secondo la definizione tradizionale, il contenuto del provvedimento amministrativo si ritrova nella parte dispositiva dell’atto e consiste “in ciò che con esso l’autorità intende disporre, ordinare, permettere, sanzionare, attestare, certificare” [17].
Per una diversa opinione, il contenuto del provvedimento amministrativo è la vicenda giuridica prodotta dall’atto, ossia la costituzione, la modificazione o l’estinzione di una determinata situazione giuridica soggettiva[18].
Ancora, il contenuto del provvedimento amministrativo è stato descritto come la disposizione o le disposizioni contenute nella parte precettiva dell’atto[19].
In definitiva, per contenuto deve intendersi la misura determinata attraverso l’atto o il provvedimento amministrativo.
La libertà di scelta sul contenuto del provvedimento assume una grande rilevanza.
Il riconoscimento di una certa discrezionalità in capo alla pubblica amministrazione, unitamente alle disposizioni normative, rappresentano i parametri attraverso i quali è possibile ricostruire, dall’esterno, il contenuto e l’efficacia di un atto.
Giova precisare che la necessità di una volontà della pubblica amministrazione cui sia imputabile la parte precettiva della delibazione amministrativa, cioè il contenuto del provvedimento, non è esclusa dal carattere vincolato del potere.
Allorché, ad esempio, si decida di irrogare una determinata somma di danaro perché sono stati accertati i presupposti richiesti dalla legge a tal fine, il contenuto, la volontà e l’efficacia del provvedimento sono da ricondursi a tale aspetto, mentre l’eventuale sottoposizione ad un’attività di sorveglianza non è un effetto ascrivibile allo stesso, ma dipende dalla legge che mira a salvaguardare un interesse che non è nella disponibilità degli organi pubblici[20].
Si può pacificamente affermare che l’attività di mediazione della P.a. è sempre presente in ogni fattispecie, sebbene in ordine all’ attività discrezionale assuma un peso specifico maggiore rispetto a quanto accade con l’attività vincolata.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alle autorizzazioni aventi natura costitutiva, come la valutazione d’impatto ambientale, mediante cui la pubblica amministrazione riconosce in capo al privato la possibilità di realizzare un proprio diritto e una propria libertà purché ciò avvenga nel rispetto di talune modalità e limiti sanciti dall’organo pubblico.
Appare evidente che il compito della P.A. sarà particolarmente importante in un caso di questo tipo, poiché solo la valutazione di tutte le circostanze, i dati e le informazioni concernenti la specifica vicenda che viene in rilievo consentirà un adeguato bilanciamento tra la tutela dell’ambiente, della salute pubblica e il diritto d’iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione.
La discrezionalità sul quomodo riguarda le modalità che si preferisce seguire per procedere all’emanazione del provvedimento amministrativo; l’autorità procedente, per esempio, potrà decidere se acquisire o meno un parere che riveste carattere facoltativo.
Per quanto concerne il quando, se la P.a. gode di discrezionalità ciò sta ad indicare che essa è libera di predeterminare il termine di conclusione del procedimento, secondo le stringenti regole di cui all’art. 2 della legge 241 del 1990.
Infine, in merito all’oggetto della valutazione che la pubblica amministrazione è chiamata a compiere, occorre distinguere la discrezionalità amministrativa pura dalla cd. discrezionalità tecnica[21].
Come osservato da autorevole dottrina
“se le norme attributive del potere contemplano, mediante concetti giuridici indeterminati, elementi di natura tecnica, l’amministrazione deve agire applicando regole appartenenti alle conoscenze specialistiche diverse dalla scienza giuridica. A differenza della discrezionalità amministrativa, quindi, l’amministrazione deve effettuare una valutazione utlizzando parametri tecnici. Per questo si ritiene che, in questi casi, venga in rilievo solo il momento di valutazione. In tale prospettiva, sarebbe più corretto utilizzare l’espressione “valutazione tecnica”[22].
3. La centralità del distinguo con l’attività vincolata e il diverso peso dell’onere motivazionale
Le distinzioni tra attività vincolata e attività discrezionale, attività discrezionale pura e discrezionalità tecnica, nonché l’attenzione posta in ordine ai diversi momenti rispetto ai quali viene in rilievo il potere discrezionale, non hanno un valore meramente teorico, ma una notevole rilevanza pratica sia da un punto di vista procedimentale sia da un punto di vista processuale.
Non vi è dubbio, ad esempio, che l’obbligo di esporre le ragioni di fatto e di diritto che sorreggono una decisione della pubblica amministrazione assuma una differente consistenza a seconda che venga in rilievo un provvedimento discrezionale o vincolato.
Una parte della giurisprudenza, invero, esclude in radice la rilevanza del difetto di motivazione per i provvedimenti vincolati, ritendo che la rilevanza dell’obbligo motivazionale presupponga il carattere discrezionale del provvedimento[23].
Più precisamente, si ritiene sufficiente la cd. giustificazione, ovvero l’esternazione dei presupposti di fatto e l’indicazione delle norme giuridiche deputate a regolare la fattispecie del caso concreto. Dunque, pur sussistendo l’obbligo motivazionale, in caso di poter vincolato esso è esteso esclusivamente alla giustificazione del potere esercitato.
Talvolta si è registrata in giurisprudenza una posizione ancora più radicale, in base alla quale è stato affermato che “di fronte all’esercizio del potere vincolato non occorre neppure l’indicazione dei presupposti e delle giustificazioni del potere da esercitarsi, essendo sufficiente ricorrere alla norma che giustifica il potere stesso”[24].
La pubblica amministrazione in siffatte ipotesi avrebbe il precipuo ed esclusivo compito di verificare e riscontrare la sussistenza dei presupposti di fatto che in base alla disposizione legislativa deputata a regolare il caso concreto giustifica l’emanazione del provvedimento.
Tale orientamento peraltro, come osservato da autorevole dottrina[25], sembra essere stato contraddetto esplicitamente dal legislatore, atteso che l’art. 2 della legge 241 del 1990 prevede la possibilità di porre in essere un provvedimento in forma semplificata, la cui motivazione si limiti a esplicitare i punti di fatto o di diritto dirimente per la risoluzione della controversia sottoposta all’attenzione dell’autorità procedente.
L’analisi della motivazione del provvedimento consente di approfondire un altro tema molto delicato, ovvero quello della non annullabilità del provvedimento inficiato da vizi meramente formali o procedimentali, qualora il potere della pubblica amministrazione abbia carattere vincolato.
L’art. 21 octies della legge 241 del 1990 stabilisce che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[26].
Il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che “l’art. 21 octies, comma 2, legge 241 del 1990. non introduce nell’ordinamento la facoltà, per la P.A., di non rispettare le regole procedimentali, venendo altrimenti violato il principio di legalità. Tale norma può essere utilizzata dall’amministrazione non in sede amministrativa ma solo in sede giurisdizionale, qualora siano stati commessi degli errori non corretti attraverso l’esercizio del potere di autotutela”[27].
Da codesto arresto pretorio si evince ciò che già stato affermato nel presente scritto, ovverosia che l’intermediazione della pubblica amministrazione assume una diversa pregnanza nell’ipotesi di potere vincolato.
Il provvedimento amministrativo non risulta annullabile nella misura in cui, nonostante la negligenza ascrivibile alla pubblica amministrazione quanto al rispetto di forme e vincoli procedimentali, si riscontra l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la determinazione assunta[28].
In particolare, per denegare l’illegittimità del provvedimento la legge richiede la sussistenza di quattro e alternativi elementi, rappresentati dalla natura vincolata del provvedimento, dalla violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti e l’essere palese che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
L’ultima condizione menzionata risulta la più problematica: atteso che occorre preliminarmente escludere la natura discrezionale del potere esercitato, la giurisprudenza ha avallato diverse ricostruzioni sistematiche circa i requisiti necessari atti ad integrare la predetta condizione.
Una parte della giurisprudenza ad esempio, ha affermato che
“tanto il primo quanto il secondo periodo della norma descrivono, insieme al profilo sostanziale dell'effettivo spazio attribuito all'annullabilità dell'atto, le regole di ripartizione dell'onere di allegazione e di prova tra le parti e il giudice. In entrambi i casi, infatti, sono distinguibili due diverse regole. La prima definisce il limite oggettivo di rilevanza dell'annullabilità del provvedimento. La seconda disciplina le modalità di accertamento dei diversi elementi della fattispecie. Sembra allora esatto riconoscere che la disposizione abbia un contenuto complesso, in parte riferito alla ripartizione dell'onere della prova. Per quanto sia densa di aspetti incerti e problematici, la norma si limita a definire la relazione tra i poteri officiosi del giudice e gli oneri di dimostrazione posti a carico delle parti. Non vi sono regole direttamente riferibili alle modalità (meccaniche) di assunzione delle prove o allo svolgimento dell'attività delle parti di allegazione e deduzione delle rispettive difese.”[29].
Si tratta di una posizione volta a ribadire la natura sostanziale della disposizione e a riconoscere, al contempo, che il giudice può ravvisare anche d’ufficio l’assenza di alternative, quanto alle scelte effettuabili dalla pubblica amministrazione, da cui discende l’impossibilità di una diversa determinazione ad opera dell’autorità procedente.
In altre occasioni, invece, è stato asserito che l’inutilità dell’annullamento del provvedimento amministrativo è una circostanza che deve essere provata dalla pubblica amministrazione.
Quest’ultima dovrebbe dimostrare di poter legittimamente emanare l’atto illegittimo, una volta emendatolo dal vizio di forma o di carattere procedimentale da cui era afflitto. L’antecedente logico e giuridico dell’approdo ermeneutico de qua è costituito dalla qualificazione dell’art. 21 octies, clausola normativa avente natura meramente processuale[30]. Sul punto, del resto, non sono mancate occasioni in cui l’autorità giurisdizionale, pur riconoscendo la natura processuale della norma, ha addossato al ricorrente l’onere della prova relativo alla dimostrazione della ragione di carattere sostanziale da cui deriva l’illegittimità del provvedimento[31].
Come sopra accennato, l’applicabilità dell’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990 presuppone la natura vincolata del provvedimento; in proposito, si appalesa necessario rammentare che individuare la linea di demarcazione tra attività vincolata e discrezionale non è sempre un’operazione di agevole compimento.
Una delle fattispecie più problematiche concerne il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno. Il Consiglio di Stato ne ha dovuto a più riprese ribadire la natura discrezionale, osservando che
“in presenza di una istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, l'accertamento dell'insussistenza del rapporto lavorativo dichiarato può condurre al diniego, "sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio" (art. 5, comma 5, D. Lgs. n. 286/1998); di conseguenza, rispetto all'accertamento dell'insussistenza del lavoro, il provvedimento di diniego non costituisce atto vincolato in relazione alla situazione esistente al momento della richiesta, potendo essere sopravvenuto un rapporto di lavoro che consenta il rilascio del permesso. Non si tratta qui di limitarsi a verificare la sussistenza di una circostanza obiettivamente ostativa (come, ad es., una condanna penale), ma di valutare un elemento su cui possono incidere le sopravvenienze e rispetto al quale l'interessato può fornire - se coinvolto in sede procedimentale - gli opportuni chiarimenti, soprattutto nei casi, come quello di specie, in cui l'Amministrazione non è in grado di rispettare i tempi procedimentali”[32].
In materia di diniego di visto o di permessi di soggiorno, invero, la dottrina ha osservato che occorre operare un distinguo: se essi rinvengono la loro ragione giustificatrice nella mancanza di documentazione richiesta dall’art. 4 del decreto legislativo n. 286 del 1998, devono qualificarsi come atti di natura vincolata; nel caso in cui, invece, la loro emanazione è dovuta a motivi di ordine e sicurezza pubblica, il potere esercitato ha carattere discrezionale.
Alla stessa conclusione deve pervenirsi se gli atti promulgati non possono prescindere dalla valutazione dei legami familiari dei propri destinatari[33].
Il discrimen non è privo di rilevanza, perché la natura discrezionale o vincolata dell’atto indice sulla differente modulazione del sindacato giurisdizionale; nella prima ipotesi, infatti, l’autorità giurisdizionale incontrerà i limiti imposti dal necessario rispetto dal principio di separazione dei poteri; nel second caso il sindacato è pieno sul rapporto[34].
4. Il controverso rapporto tra discrezionalità amministrativa e controllo giudiziario
L’ultima digressione apre le porte delle riflessioni del presente scritto sul diverso versante dei rapporti tra attività discrezionale e sindacato giurisdizionale.
Sul punto, non si può prescindere dal rammentare quanto disposto dall’art. 31 del codice del processo amministrativo.
Il 3° comma della disposizione in commento, concernente l’azione avverso il silenzio inadempimento, statuisce che il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.
Autorevole dottrina ha avuto modo di osservare che il registro ermeneutico utilizzato dal legislatore, nella specie l’essersi avvalso della locuzione “pretesa”, sta ad indicare che al giudice amministrativo è stato riconosciuto il potere di accertare la spettanza al cittadino di un certo esito del provvedimento, potendo esercitare tale facoltà anche se il silenzio si sia formato in un procedimento a istanza d’ufficio[35].
Inoltre, giova rammentare che dalla formulazione della norma si evince l’assoluta centralità della fisionomia della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio.
L’azione avverso il silenzio, infatti, è caratterizzata dalla compresenza di due domande.
Una prima domanda, avente natura dichiarativa, è volta all’accertamento dell’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione destinataria dell’istanza presentata dal soggetto cui è ascrivibile la titolarità dell’interesse pretensivo considerato leso dal contegno omissivo della pubblica amministrazione.
La seconda domanda è tesa conseguire la condanna della P.A. ad emanare un provvedimento esplicito che riconosca la spettanza del bene della vita al ricorrente[36].
Le due domande di cui consta l’azione avverso il silenzio tendenzialmente vengono proposte nell’ambito di un unico giudizio, in cui l’accertamento compiuto dall’autorità giurisdizionale è strumentale alla pronuncia di un obbligo di facere di stampo pubblicistico.
Le due pretese che connotano l’azione avverso il silenzio, tuttavia, presentano una loro specifica autonomia allorché la sentenza di condanna è osteggiata dalla sussistenza di un potere discrezionale o abbia perso utilità.
La predetta autonomia assume particolare pregnanza ai sensi dell’art. 34 del c.p.a., laddove dispone che quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori.
La sussistenza di un potere discrezionale ha dei riverberi non solo sull’ampiezza del sindacato giurisdizionale del giudice di cognizione, bensì anche dei poteri di cui dispone il giudice dell’ottemperanza, qualora venga chiamato a pronunciarsi sull’attività espletata dalla pubblica amministrazione in ossequio ad una sentenza passata in giudicato.
Le azioni poste dalla pubblica amministrazione all’esito del giudizio di cognizione devono conformarsi alle regole contenute nella statuizione giudiziale, allorché quest’ultima abbia sancito le regole e il risultato cui deve tendere il governo della cosa pubblica nel caso di specie.
L’atto che in modo palese e inequivocabile violi il comando contenuto nella sentenza rende nullo il provvedimento ex art. 21 septies legge n. 241 del 1990, per violazione del giudicato.
Se l’attività della pubblica amministrazione presta solo formalmente ossequio alla res giudicata, tradendone sostanzialmente i precetti dalla medesima imposti, il provvedimento emanato a tali condizioni risulterà nullo, attesa l’elusione del giudicato verificatasi.
La violazione e l’elusione del giudicato si avrà nel caso in cui il ricorrente abbia proposto azione di annullamento avverso un atto frutto dell’esercizio di un potere di natura vincolata, poiché, data la vincolatezza del potere, la statuizione giurisdizionale conforma in modo precipuo e completo il futuro agire della pubblica amministrazione[37].
Discorso diverso e ben più articolato deve compiersi con riferimento all’attività di carattere discrezionale.
Il limite posto dal comma III dell’art. 31 del codice del processo amministrativo, infatti, impedisce al giudice di esprimersi sulla fondatezza della pretesa azionata in giudizio. L’autorità giurisdizionale, dunque, si limiterà ad accertare l’illegittimità del contegno o del provvedimento ascrivibile alla P.A, sancendone esclusivamente l’obbligo di provvedere sull’istanza del privato. La sentenza di annullamento o di accertamento dell’obbligo a provvedere non conterrà, pertanto, prescrizioni conformative della futura azione amministrativa.
Sul punto, invero, occorre effettuare una puntualizzazione.
Quanto appena affermato risulta incontrovertibile nel caso in cui l’attività della pubblica amministrazione sia stata reputata illegittima in ragione di un vizio di natura meramente formale o procedimentale. Infatti, in una siffatta ipotesi l’autorità giurisdizionale non si pronuncia sull’assetto di interessi che la determinazione amministrativa dovrebbe realizzare e ciò sta a significare che il successivo esercizio del potere sarà assoggettato ai vizi che ordinariamente possono inficiare le delibazioni degli organi pubblici.
Qualora l’operato della pubblica amministrazione venga censurato per ragioni di ordine sostanziale, il giudice amministrativo detterà delle prescrizioni conformative della futura azione amministrativa, sindacabili in sede di ottemperanza.
4.1. La ‘questione’ dell’eccesso di potere
Si appalesa necessario, a tal punto, chiarire in via preliminare i rapporti intercorrenti tra attività discrezionale e sindacato di legittimità del giudice amministrativo, per poi delineare quelli che sono i tratti essenziali e i limiti cui è assoggettata la riedizione del potere amministrativo.
Il giudice amministrativo, come ribadito, non può sostituirsi alla pubblica amministrazione chiamata a curare l’interesse pubblico affidatole dalla legge in base alle sue valutazioni di carattere discrezionali.
Le scelte della P.A., tuttavia, non sono prive di limiti e una delle principali limitazioni che incontrano è rappresentato dal rispetto e dal perseguimento dello scopo che giustifica l’attribuzione di determinate facoltà, pena la violazione del principio di legalità.
L’eccesso di potere[38] è il principale strumento attraverso il quale è possibile vagliare l’osservanza della destinazione funzionale dell’attività espletata. L’espressione eccesso di potere è stata utilizzata per la prima volta nella legge 371 del 1877 e successivamente dalla legge n. 5992 del 1889.
La figura dell’eccesso di potere, in origine, si traduceva nel cosiddetto excés de pavoir, cioè nello straripamento di uno dei poteri dello Stato nel campo dell’altro. Il Consiglio Di Stato francese, poi, individuò all’interno di tale nozione una diversa e più specifica ipotesi di illegittimità dell’attività espletata, rappresentata dal Detournement de pouvoir, ovvero l’uso di un potere discrezionale per una finalità differente da quella fissata dalla norma attributiva del potere stesso[39].
La dottrina amministrativa ad oggi dominante ha sconfessato la tesi tradizionale che qualificava l’eccesso di potere come un vizio della volontà imputabile alla pubblica amministrazione, ricostruendo tale nozione, piuttosto, alla stregua di un vizio della funzione concernente non il singolo atto amministrativo, bensì le prerogative di cui sé avvalso l’organo pubblico considerate nella loro interezza[40].
Autorevoli interpreti, invero, avevano qualificato l’eccesso di potere in termini di vizio della volontà, mutuando le caratteristiche dell’annullabilità relative al negozio giuridico: si riteneva annullabile il provvedimento amministrativo per eccesso di potere allorché la volontà della pubblica amministrazione fosse viziata da violenza, errore o dolo[41].
La tesi de qua è andata incontro all’insuperabile obiezione secondo la quale è impossibile comparare la volontà quale elemento costitutivo del contratto, contrassegnata da una consistenza ontologica di tipo psichico, con la volontà procedimentale della P.A., attinente all’esercizio della funzione pubblica. La volontà in senso psichico del soggetto che emana l’atto amministrativo è completamente irrilevante, assumendo pregnanza unicamente la corrispondenza tra il fine perseguito e quello indicato dalle fonti di rango primario[42].
Perciò, una parte della dottrina ha ricostruito l’eccesso di potere come vizio della causa dell’atto amministrativo emanato. La razionalità del provvedimento amministrativo si rinviene, secondo i fautori di questa tesi[43], nel rispetto della legge e nella realizzazione delle finalità e delle cause che sorreggono e giustificano la sua emanazione.
Come sopra accennato, l’orientamento maggioritario in dottrina ritiene che ad essere viziata è l’attività amministrativa considerata nella sua interezza, poiché espletata in violazione dei principi che regolano la funzione.
Ciò sta a significare che la sussistenza dell’eccesso di potere viene predicata non più in relazione al potere in senso soggettivistico come complesso organico, bensì in relazione al potere in senso oggettivo come sfera di attribuzioni dell’organo agente e cioè, appunto, come funzione[44].
La funzione è definita non già quale aspetto dell’attività, bensì come “il concretarsi del potere in un singolo atto amministrativo”, “l’attività nel suo farsi”, “il poter nel suo farsi atto”[45].
La ricostruzione sistematica dell’eccesso di potere nei termini esposti non è questione meramente teorica, ma è gravida di conseguenze applicative.
Infatti, la giurisprudenza amministrativa, atteso che non è semplice dimostrare che la pubblica amministrazione abbia agito per finalità diverse da quelle previste dalla legge, ha elaborato una serie di indici sulla scorta dei quali è possibile desumere lo sviamento del potere.
Si tratta delle cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere, tra cui sono annoverabili il difetto di istruttoria, le carenze motivazionali del provvedimento, il travisamento dei fatti o dei presupposti di fatto, la disparità di trattamento, l’ingiustizia grave e manifesta, lo scostamento e la violazione di norme interne e circolari.
La natura giuridica delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere è stato oggetto di diatriba interpretativa.
Una parte della giurisprudenza, ad esempio, ha affermato che le figure sintomatiche dell’eccesso di potere rappresentano dei meri indizi di natura probatoria, che non escludono la prova contraria da parte dell’amministrazione[46].
Da una siffatta qualificazione delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, ne consegue che il loro accertamento non permette al giudice di dichiarare immediatamente illegittimo il provvedimento censurato, dovendo verificare se ad essa corrisponda effettivamente una divergenza tra finalità indicate dalla norma attributiva del potere e quelle in concreto perseguite.
Allorché si aderisca all’eccesso di potere quale vizio della funzione amministrativa, tuttavia, si perviene ad un differente approdo ermeneutico circa la natura giuridica delle figure sintomatiche di tale forma di illegittimità.
La violazione delle regole poste a presidio dell’esercizio della funzione concretizza le ipotesi di difformità delle norme giuridiche che regolano l’attività che l’amministrazione pone in essere per l’esplicazione dei propri poteri istituzionali.
La parità di trattamento, l’imparzialità, la giustizia sostanziale, la logicità della scelta compiuta, la coerenza della determinazione effettuata, il rispetto di circolari e prassi consolidate, la trasparenza delle ragioni alla base delle delibazioni poste in essere, costituiscono la disciplina dell’attività amministrativa e precisamente costituiscono la condizione di legittimità della funzione amministrativa[47].
La predetta conclusione argomentativa sembra essere condivisa anche dal Consiglio di Stato, il quale ha avuto modo di osservare che
“nella impostazione tradizionale l'unica figura sintomatica dell'eccesso di potere era rappresentata dallo sviamento di potere. Il ricorrente, per ottenere l'annullamento dell'atto doveva dimostrare che la pubblica amministrazione avesse inteso perseguire un interesse diverso da quello predefinito dalla legge. Nel corso degli anni, preso atto della difficoltà di dimostrare in giudizio l'effettiva esistenza di una devianza dalla causa tipica, la giurisprudenza amministrativa ha elaborato numerose figure sintomatiche dell'eccesso di potere, quali, a solo titolo esemplificativo, la motivazione insufficiente, l'errore di fatto, l'ingiustizia grave e manifesta, la contraddittorietà interna ed esterna, la violazione di circolari, di norme interne o della prassi amministrativa. Le predette figure, inizialmente ritenute sintomatiche dello sviamento di potere, hanno acquisito, nella prassi giudiziaria, una loro autonomia essendo state ricondotte ai principi generali dell'azione amministrativa e, in particolare, al principio di ragionevolezza”[48].
La considerazione delle predette figure quali condizioni di legittimità dell’attività amministrativa pone un triplice ordine di problematiche.
In primo luogo, diventa operazione ermeneutica importante e di non agevole soluzione l’individuazione dei criteri per distinguere presupposti di legittimità dell’atto amministrativo e principi che attengono al merito delle scelte amministrative.
In secondo luogo, dall’inciso finale della sentenza poc’anzi menzionata, codesti principi vengono in rilievo anche qualora l’attività della pubblica amministrazione sia connotata da discrezionalità tecnica, in merito alla quale è necessario approfondire i limiti del sindacato del giudice amministrativo.
Infine, se trattasi di principi generali che governano l’intera azione amministrativa, essi rappresentano un limite per la pubblica amministrazione in caso di riedizione del potere e ne condizionano i rapporti con l’esercizio del sindacato giurisdizionale.
5. Il merito amministrativo
Ciò detto, occorre rilevare che il concetto di merito amministrativo è stato oggetto di molteplici definizioni, varie e diversificate.
Vi è chi, ad esempio, ha definito il merito “quale estrinsecazione di quello che ben può chiamarsi il principio di opportunità”[49]; secondo altra opinione il merito è “il contenuto di quegli elementi dell’atto, da determinare discrezionalmente”[50].
Per un’ulteriore impostazione emersa tra gli interpreti alla locuzione merito sarebbero ascrivibili due diversi e concorrenti significati.
Il merito, infatti, da un lato indicherebbe il contenuto sostanziale del provvedimento amministrativo, e comprenderebbe “opportunità, valutazioni tecniche e qualificazioni giuridiche applicate” e quindi indicherebbe “ tutta l’attività che va dal momento in cui si pone l’esigenza di provvedere sino al momento terminale”, d’altro canto, il merito coinciderebbe con la discrezionalità “ossia con il giudizio di ponderazione comparativa degli interessi coinvolti nell’azione dal punto di vista della esigenza della funzione”[51] .
Ancora, altra dottrina ha identificato il merito con “l’area riservata dalla legge alla scelte discrezionali della Pubblica amministrazione, e perciò caratterizzata, per un verso dal vincolo al fine pubblico, per il soddisfacimento del quale la legge ha attribuito alla stessa amministrazione il relativo potere, e, per altro verso, dalla libertà nella ricerca della soluzione volta a volta più idonea rispetto a tale fine”[52].
Autorevoli interpreti non hanno mancato di considerare che, pur nella varietà e complessità, delle varie definizioni fornite, si può affermare che l’essenza del merito amministrativo consiste nell’applicazione al caso concreto del principio di opportunità[53].
La dottrina peraltro si divide anche in ordine alla sussumibilità del merito a norme di carattere giuridico, nonché sulla rilevanza dei vizi di merito in ordine alla legittimità del provvedimento amministrativo.
Per una prima tesi, invero le regole sociali e morali che governano tanto il merito quanto la discrezionalità amministrativa sono state trasformate in canoni di natura giuridica, in forza di un rinvio formale e non recettizio effettuato dall’ordinamento rispetto a tali precetti[54].
Altra autorevole dottrina, viceversa, ha affermato che per un verso “il corpo di regole che reggono il merito amministrativo e la discrezionalità per un verso non contemplano tutta l’intera discrezionalità nelle sue specie svnioariatissime”, e per altro verso “sarebbero solo regole non giuridiche, rilevanti esclusivamente nell’ambito di un giudizio di merito”[55].
Quanto alla rilevanza dei vizi di merito, la genericità delle definizioni attinenti al merito amministrativo rendono difficile tratteggiare una netta linea di demarcazione tra vizi di merito e vizi di legittimità.
Sul punto, anzi, è stato osservato[56] che da tempo si assiste ad un iter interpretativo sulla scorta del quale dottrina e giurisprudenza tendono a rendere sindacabile i vizi di merito da parte del giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità[57], aderendo ad una concezione estensiva dell’eccesso di potere.
Nonostante la netta opinione di chi, ad esempio, ritiene che “l’annullamento per vizi di merito non ha nulla a che vedere con i fenomeni dell’invalidità”[58], per l’autore di una differente e pregevole esegesi i vizi di merito sono normalmente irrilevanti “non perché il provvedimento non debba essere opportuno, ma perché l’opportunità non è verificabile, se non attraverso le regole di esperienza, che attraverso l’eccesso di potere, vengono attratte nel sindacato di legittimità” [59].
In proposito, poi, una ulteriore riduzione dell’area del merito è ricondotta alla circostanza che si tende a dare rilievo giuridico ai principi di efficacia, efficienza ed economicità[60].
Operare un distinguo tra opportunità e legittimità è operazione particolarmente delicata e complessa con riferimento alla discrezionalità tecnica e in ordine ai provvedimenti di secondo grado.
Con riferimento alla discrezionalità tecnica, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che
“l’applicazione di una norma tecnica può comportare la valutazione di fatti suscettibili di vario apprezzamento, quando la norma tecnica contenga dei concetti indeterminati o comunque richieda apprezzamenti opinabili. Ma una cosa è l’opinabilità, altra cosa è l’opportunità. La questione di fatto, che attiene ad un presupposto di legittimità del provvedimento amministrativo, non si trasforma- soltanto perché opinabile- in una questione di opportunità, anche se è antecedente o successiva ad una scelta di merito”[61].
L’arresto pretorio appena menzionato ha aperto le porte ad una diversa modulazione del sindacato giurisdizionale in merito all’esercizio della discrezionalità tecnica, con particolare riferimento alla valutazione dei presupposti di fatto e alla realizzazione degli accertamenti tecnici posti in essere dalla pubblica amministrazione. Fino alla presente pronuncia, infatti, la giurisprudenza amministrativa si limitava a compiere un mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’amministrazione.
Ad esempio, era stato asserito che rientrasse nella discrezionalità tecnica e quindi nel merito dell’attività amministrativa la scelta tecnica compiuta circa un’opera pubblica da realizzare e l’individuazione delle sue caratteristiche[62].
La ricostruzione sistematica de qua poggiava su due alternativi e concorrenti assunti, rappresentati dalla asserita omnipervasità dell’interesse pubblico e dall’intrinseca opinabilità dell’apprezzamento tecnico, in merito al quale si reputano sussistenti una pluralità di conclusioni tecniche, tutte plausibili alla luce dello scopo perseguito in base alla legge. Dall’equiparazione tra discrezionalità tecnica e merito amministrativo sul piano sostanziale, ne conseguiva l’insindacabilità in sede giurisdizionale[63].
Attualmente è orientamento consolidato del Consiglio di Stato quello secondo il quale non esiste una riserva di amministrazione in ordine all’apprezzamento dei presupposti di fatto del provvedimento amministrativo. La giurisprudenza amministrativa, invero, ha affermato che
“è errata la tesi secondo cui il controllo di legittimità precluderebbe al giudice amministrativo la verifica della verità del fatto posto a fondamento dei provvedimenti dell'Autorità. A seguito del progressivo spostamento dell'oggetto del giudizio amministrativo dall'atto al rapporto controverso (pretesa fatta valere, secondo alcuni) deve ormai ritenersi superato quell'orientamento che negava al giudice amministrativo l'accesso diretto al fatto, salvo che gli elementi di fatto risultassero esclusi o sussistenti in base alle risultanze procedimentali. Del resto, anche nei giudizi di legittimità, l'ammissibilità dei c.d. vizi sintomatici estrinseci all'atto ha condotto a ritenere che il giudice amministrativo abbia il potere di conoscere le questioni di fatto la cui risoluzione è necessaria per verificare l'esistenza dei vizi dell'atto”[64].
6. Il nodo della discrezionalità tecnica
Ciò che invece non viene ritenuto sindacabile sono le valutazioni carattere tecnico effettuate dalla pubblica amministrazione. La dottrina ha censurato un siffatto approdo ermeneutico osservando che non è facile distinguere l’accertamento dei fatti e fase della valutazione tecnica.
Giova evidenziare che il sindacato sulla discrezionalità tecnica[65] espletata dalle pubbliche amministrazioni e in particolate dalle autorità amministrative indipendenti viene suddiviso in quattro diverse fasi: l’accertamento dei fatti; contestualizzazione della norma da applicare, la quale abbisogna di una corretta individuazione in quanto facente riferimento a concetti giuridici indeterminati; raffronto tra i fatti accertati e il parametro normativo individuato; applicazione delle sanzioni previste.
Orbene, l’accertamento dei fatti costituisce il presupposto per lo svolgimento delle valutazioni tecniche. Un esempio pacifico di attestazione dei fatti dovrebbe essere l’accertamento dell’esistenza o meno di una posizione dominante, valutazione complessa di una serie.
La giurisprudenza, tuttavia, è di diverso avviso. in quanto si ritiene che tale operazione sia frutto di una valutazione tecnica, complessa, avente ad oggetto una pluralità di fattori[66].
La principale conseguenza di una simile impostazione sistematica è la sottrazione di un’importante classe di fatti all’accertamento dell’autorità giurisdizionale, considerati come valutazioni tecniche opinabili.
E’ noto come la dottrina di volta in volta abbia operato un distinguo tra cognizione di fatti semplici o fatti complessi, accertamento e valutazione tecnica, accertamento semplice e accertamento complesso, valutazione tecnica semplice e complessa, accertamento e apprezzamento, accertamento e concetto giuridico indeterminato[67].
Come osservato da autorevole dottrina[68] il criterio differenziale tra tutte queste coppie e sempre lo stesso.
Le prime componenti di ciascuna coppia costituiscono operazione il cui risultato dal punto di vista tecnico è certo e privo di alternative e quindi la relativa attività amministrativa non presenta margini di opinabilità.
Viceversa, le seconde componenti della coppia comportano l’utilizzo di indicazioni tecnico-scientifiche che non conducono ad un risultato univocamente accettato, frutto di scienze inesatte e opinabili con cui vengono definiti i concetti giuridici indeterminati[69].
Alla luce di quanto osservato, rispetto all’ accertamento dell’esistenza di una posizione dominante, non sembra condivisibile la posizione giurisprudenziale ad oggi dominante. La medesima, infatti, impone soltanto la ricognizione di un fatto, ovvero il monopolio dell’impresa in un determinato mercato e su un certo territorio, che non necessita di un’attività di carattere valutativo.
La questione de qua è strettamente correlata ad n ulteriore profilo di carattere problematico circa i rapporti tra sindacato giurisdizionale e discrezionalità tecnica è rappresentato dalla non sostituibilità dell’apprezzamento del giudice a quello della pubblica amministrazione.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di effettuare una duplice, importante precisazione quanto alla sindacabilità degli accertamenti di fatto e valutazioni ascrivibili alle autorità indipendenti.
In primo luogo, i giudici di legittimità hanno precisato che
“la non estensione al merito del sindacato giurisdizionale sugli atti dell'Autorità Garante implica, certo, che il giudice non possa sostituire con un proprio provvedimento quello adottato da detta Autorità, ma non che il sindacato sia limitato ai profili giuridico-formali dell'atto amministrativo, restandone esclusa ogni eventuale verifica dei presupposti di fatto. La pienezza della tutela giurisdizionale necessariamente comporta che anche le eventuali contestazioni in punto di fatto debbano esser risolte dal giudice, quando da tali contestazioni dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo che ha inciso su posizioni di diritto soggettivo”[70].
La puntualizzazione de qua rinviene il proprio fondamento giustificativo nel carattere oggettivo e neutrale ascrivibile all’attività di accertamento di un fatto. Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi anche sulla qualificazione ermeneutica del procedimento volto a individuare la nozione di “mercato rilevante.
I giudici di legittimità, in primis, hanno affermato che “le autorità indipendenti talvolta sono chiamate ad applicare nozioni e non trovano nella legge stessa una definizione in tutto e per tutto puntuale: di modo che la loro individuazione in concreto richiede un tipo di valutazione di carattere tecnico, che, tanto nei suoi presupposti generali quanto nella sua specifica applicazione ai singoli casi, può talora presentare margini di opinabilità”[71].
Nel prosieguo della pronuncia, i giudici di legittimità ribadiscono che l’individuazione della nozione di mercato rilevante è sicuramente una valutazione di carattere tecnico, essendo ricavabile la stessa solo facendo ricorso a concetti giuridici indeterminati e attingendo al sapere specialistico delle scienze economiche.
7. Osservazioni critiche
Alla luce di quanto esposto, può osservarsi quanto segue.
In primo luogo, il discrimen tra merito e discrezionalità e l’individuazione dei profili che attengono all’uno e all’altro profilo non è questione di piana soluzione, specie allorché venga in rilievo l’esercizio di un potere connotato dalla compresenza di attività natura dichiarativa e giudizi di carattere valutativa.
In proposito, le questioni più delicate si pongono in materia di discrezionalità tecnica esercitata dalle autorità amministrative indipendenti, in merito alla qualificazione di determinate operazione, come l’individuazione della nozione di mercato rilevante e l’accertamento di una posizione di abuso dominante.
La posizione della giurisprudenza risulta condivisibile nella parte in cui ritiene che il controllo effettuabile dall’autorità giurisdizionale incontra un limite invalicabile allorché la pubblica amministrazione applichi e debba applicare regole e nozioni travalicanti il perimetro dell’ordinamento giuridico. Difficilmente può essere avallato l’approdo ermeneutico del Consiglio di Stato e delle Sezioni Unite in merito all’individuazione di determinate nozioni, come quella di nozione di mercato rilevante, cosi come la qualificazione degli accertamenti di certi fatti, come l’esistenza di una posizione dominante, in termini di valutazione tecnica connotata da profili di discrezionalità.
E ciò, perché, fondamentalmente, l’opinabilità di una decisione amministrativa non coincide con il merito di un’azione della pubblica amministrazione, la cui sussistenza è predicabile solo e nella misura in cui il criterio ispiratore di una determinata scelta è l’interesse pubblico[72].
Una valutazione circa la lesione dell’interesse pubblico primario istituzionalmente affidato all’autorità indipendente non caratterizza né l’accertamento dell’esistenza di una posizione dominante, né la corretta ricostruzione del concetto di mercato rilevante.
La dovuta attenzione al discrimen tra valutazione tecniche e accertamenti di fatto consentirebbe più facilmente di rispettare il parametro della full jurisidction in materia di sanzioni sostanzialmente penali, ove non si volesse pervenire alla conclusione di una giurisdizione estesa al merito o alla necessità di un sindacato non di attendibilità quanto di maggiore attendibilità.
Alla giurisprudenza va comunque riconosciuto il merito di aver sottratto determinati atti dall’area dell’insidacabilità elevando, attraverso il riconoscimento della loro natura sostanziale, talune figure sintomatiche dell’eccesso di potere a principi generali dell’azione amministrativa, e più precisamente, i canoni della logicità e della ragionevolezza[73].
Ciò posto, va rammentato che la distinzione tra merito e legittimità rileva anche rispetto ai provvedimenti di secondo grado.
Preliminarmente, circa il fondamento dei poteri di autotutela, si sono registrare diverse tesi.
Secondo una prima impostazione[74], i provvedimenti amministrativi di secondo grado rinvengono il proprio fondamento nel principio di autotutela decisoria della pubblica amministrazione, poiché la cura dell’interesse pubblico affidata agli organi pubblici implica che gli stessi abbiano il potere di tornare sulle decisioni della cui validità e opportunità abbiano motivo di dubitare.
L’opinione de qua è stato oggetto di censura, in quanto la pubblica amministrazione quando ritira un atto non lo fa per farsi giustizia da sé, bensì per perseguire un interesse pubblico[75].
Pertanto, secondo una differente ricostruzione interpretativa[76], il potere di riesame deve essere considerato come una forma di esercizio successivo dello stesso potere di amministrazione attiva posti in essere con l’adozione del provvedimento di primo grado.
Peraltro, si è osservato che tutti i provvedimenti di secondo grado sono accomunati da un minimo comun denominatore, ovvero che il potere amministrativo non deve essersi esaurito[77].
8. Le diverse modulazioni della riedizione del potere amministrativo
Quanto all’esito della riedizione del potere amministrativo, è possibile distinguere tre tipologie di provvedimenti.
Innanzitutto, sussistono provvedimenti ad esito demolitorio che hanno quale l’effetto l’eliminazione di un provvedimento invalido o inopportuno.
L’annullamento d’ufficio, ad esempio, ha efficacia ex tunc poiché emanato per eliminare un atto interessato da un vizio di legittimità e per la tutela di un interesse pubblico, condizioni che giustificano il travolgimento degli interessi dei privati destinatari del provvedimento originario a loro favorevole. La revoca, invece, si basa su ragioni di opportunità ed è per questo il legislatore ne esclude la retroattività, imponendo il riconoscimento di un indennizzo a chi risulta svantaggiato da essa.
La conferma, invece, è un provvedimento di secondo grado ad esito confermativo: con l’espressione conferma, invero, s’intende alludere all’insieme di ipotesi in cui il procedimento di riesame – avviato su impulso di parte- si conclude con l’affermazione che il provvedimento di primo grado non risulta viziato.
Sul punto, si appalesa necessario operare un distinguo tra conferma propria e conferma in impropria.
Nel primo caso, infatti, la pubblica amministrazione ribadisce la validità del provvedimento di primo grado a seguito di una nuova valutazione degli interessi che vengono in rilievo, che sarà preceduta da una nuova istruttoria. Proprio perché frutto di una nuova e ulteriore ponderazione comparativa, la conferma propria sarà impugnabile dinanzi al giudice amministrativo[78].
Nell’ipotesi di conferma impropria, viceversa, l’autorità procedente si limita semplicemente a escludere la necessità di dover intervenire in autotutela, senza procedere ad un’ulteriore valutazione degli interessi in gioco e senza compiere nessun tipo di istruttoria. La conferma impropria, dunque, non sarà impugnabile, in quanto inidonea a produrre una ulteriore lesione della sfera giuridica dei destinatari del provvedimento di primo grado[79].
Infine, la ratifica, la sanatoria, la conversione, la riforma, la rettifica e la convalida sono tutti provvedimenti annoverabili nei provvedimenti con esito conservativo, cioè volti a conservare gli effetti di un atto già emanato, una volta emendato dai vizi che lo affliggono.
Quanto alla ratifica, sono emersi due diversi orientamenti in giurisprudenza.
Secondo una prima tesi la ratifica rappresenta una sottospecie di convalida, mediante la quale la pubblica amministrazione emenda l’atto posto in essere dal vizio di incompetenza[80].
Una diversa impostazione sistematica, invece, attribuisce un significato autonomo alla ratifica, ritenendo che possa predicarsene l’esistenza ogniqualvolta esiste la legittimazione straordinaria di un organo ad emanare un provvedimento e le fonti di rango primario, al contempo, impongono all’amministrazione di fare sua la determinazione posta in essere dallo stesso.
La ratifica, dunque, risulta legittima quando fondata su ragioni di interessi pubblici, allorché menzioni l’atto viziato e indichi il vizio che lo inficia, nonché qualora la pubblica amministrazione manifesti esplicitamente l’intenzione di eliminare il vizio e di produrre, attraverso la sua manifestazione di volontà, gli effetti che il provvedimento di primo grado potrebbe legittimamente produrre[81].
La rettifica è definita dalla dottrina come il provvedimento posto in essere per porre rimedio ad una irregolarità non invalidante dell’atto precedentemente emanato e per tale ragione si differenzia dalla correzione e dalla regolarizzazione, le quali si limitano a integrare la delibazione originariamente posta in essere. Essa è espressione della funzione amministrativa di contenuto identico, sebbene di segno opposto, di quella esplicata in precedenza[82].
Quanto alla riforma, essa consiste in una revisione del provvedimento, da cui non ne discende una totale eliminazione. La competenza in tale materia spetta all’autorità che ha precedentemente emanato l’atto e alle pubbliche amministrazioni che possono procedere ad un’integrale revisione del provvedimento[83].
Tra i provvedimenti di secondo grado ad esito conservativo è annoverabile anche la sanatoria, che può assumere due diversi significati.
In una prima accezione, più lata, la sanatoria comprende tutte le modalità attraverso le quali gli atti amministrativi possono essere sanati. In una seconda accezione, più ristretta, con la locuzione sanatoria si intende alludere all’acquisizione, ex post, di un atto endoprocedimentale, che doveva essere adottato prima della conclusione del procedimento[84].
La giurisprudenza ritiene che la sanatoria abbia effetti retroattivi[85].
L’applicabilità dell’istituto de qua, peraltro, è esclusa con riferimento all’attività di carattere consultivo, come l’acquisizione di un parere, perché quest’ultimo, a differenza di atti quali l’autorizzazione e il nulla osta, deve essere reso prima della determinazione finale dell’organo deliberanti, altrimenti risulterebbe vanificata la sua funzione, che è, appunto, quella di influenzare la decisione dell’autorità procedente[86].
La conversione, invece, differisce dalla sanatoria in quanto non provvede ad eliminare il vizio che affligge il provvedimento emanato ab origine, ma consiste in un atto interpretativo che opera con efficacia retroattiva, attraverso il quale l’atto amministrativo viziato viene trasformato in altro provvedimento dai contenuti e dalla funzione analoga[87].
Infine, tra i provvedimenti di secondo grado rientra anche la convalida.
Tale istituto è espressamente disciplinato dal comma 2, dell’art. 21 nonies, della legge 241 del 1990, il quale dispone che è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
Autorevole dottrina[88] ha messo in rilievo come la convalida è un provvedimento nuovo ed autonomo che ha avuto sempre la funzione di rimuovere la causa di illegittimità presente nell’atto originario, configurandosi quale provvedimento di secondo grado con cui la pubblica amministrazione riconosce un vizio che inficia un proprio atto e lo rimuove.
Quanto ai presupposti legittimanti, è necessario che venga individuato l’atto da convalidare, la specificazione del vizio da eliminare e la volontà di rimuoverlo[89].
La giurisprudenza ritiene pacificamente che la convalida abbia efficacia ex tunc[90].
Discusso, invece, è la possibilità di ricorrere alla convalida in corso di giudizio.
Secondo un primo orientamento, la pubblica amministrazione potrebbe ricorrere alla convalida in corso di giudizio, affermando, tuttavia, che in questo caso si debba escluderne l’efficacia retroattiva. (Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 2351 del 2017)
L’orientamento dominante in giurisprudenza, tuttavia, ritiene che debba escludersi la legittimità della convalida in corso di giudizio in quanto un simile esercizio del potere frusterebbe l’effettività del rimedio giurisdizionale[91].
9. Il caso della riedizione del potere amministrativo rispetto alla previa delibazione di illegittimità per difetto di motivazione
Di recente, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3385 del 2021, ha affrontato la precipua tematica dei rapporti tra difetto di motivazione e convalida.
In particolare è stato affermato che se l’inadeguatezza del supporto motivazionale posto alla base del provvedimento amministrativo riflette un vizio sostanziale della funzione amministrativa, quale la contraddittorietà, lo sviamento del potere, l’atto impugnato non è convalidabile e deve essere annullato dal giudice.
Nella diversa ipotesi in cui, invece, la determinazione amministrativa sia sorretta da una motivazione lacunosa, ma che non rappresenti la conseguenza di un potere esercitato in maniera illegittima, la pubblica amministrazione può rimediare alla lacuna motivazionale che affligge la sua decisone[92].
La pronuncia in esame, inoltre, ha effettuato due ulteriori puntualizzazioni.
In primo luogo, ha ribadito che ad oggi l’ampiezza del sindacato giurisdizionale, esteso all’intero rapporto amministrativo, unitamente all’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto dei motivi aggiunti, rappresentano le principali novità che hanno fatto venire meno le ragioni di diniego ad una possibile convalida di un provvedimento impugnato dinanzi al giudice amministrativo.
In secondo luogo, nel ribadire i limiti propri della convalidabilità di un atto amministrativo, in primis l’esaurimento del potere amministrativo a causa di un termine perentorio posto dal legislatore ai fini del suo legittimo esercizio, il giudice amministrativo ha precisato che
“l’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, come novellato dall’art. 12, comma 1, lett. e, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120. ‒ che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare nella sua interezza, già nella fase del procedimento, sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente in relazione ai profili non ancora esaminati ‒ deve trovare applicazione, per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di motivazione”.
L’esaurimento del potere amministrativo e l’illegittimità dell’atto amministrativo per difetto di motivazione, rispondente ad un vizio della funzione amministrativa, rappresentano delle condizioni che escludono la possibilità di convalidare il provvedimento e da cui consegue il necessario annullamento giurisdizionale della delibazione amministrativa.
Le coordinate ermeneutiche de qua rappresentano anche il punto dal quale partire per analizzare un’altra recente sentenza del Consiglio di Stato.
Con la sentenza n. 6422 del 2021 la terza sezione del Consiglio di Stato, all’esito di un articolato giudizio, si è pronunciata su una questione avente ad oggetto le deliberazioni della Regione Puglia relative all’erogazione di determinati servizi sanitari, reputate illegittime esclusivamente per un difetto di motivazione, cui l’organo regionale ha posto rimedio a seguito dell’annullamento dei suoi provvedimenti in sede giurisdizionale.
Alla luce di quanto surriferito risulta pienamente condivisibile l’affermazione dei giudici amministrativi secondo la quale “in tema di conformazione al giudicato dell’attività successiva dell’ente pubblico, qualora ci si trovi di fronte a un annullamento giurisdizionale per difetto di motivazione, residua in modo indubbio uno spazio assai ampio per il riesercizio dell’attività valutativa da parte della pubblica amministrazione. Se la pubblica amministrazione elimina il vizio motivazionale, ma, ciononostante, adotta un provvedimento ugualmente non satisfattivo della pretesa, si avrà violazione o elusione del giudicato se l'attività asseritamente esecutiva dell’amministrazione risulti contrassegnata da uno sviamento manifesto, diretto ad aggirare le prescrizioni, puntuali, stabilite con il giudicato. Diversamente, viene in questione non una violazione/elusione del giudicato, ma un’eventuale nuova autonoma illegittimità”.
Le diverse conseguenze del mancato rispetto della statuizione giurisdizionale rinvengono la loro scaturigine nella differente natura del potere esercitato, del diverso vizio inficiante l’attività amministrativa, nonché nella diversa modulazione e intensità del sindacato giurisdizionale esercitabile dal giudice della cognizione e/o dal giudice dell’ottemperanza[93].
La sentenza del giudice, innanzitutto, può avere ad oggetto un’attività di natura discrezionale o vincolata. Nel secondo caso, come già rilevato, l’autorità giurisdizionale potrà pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, potendo obbligare la pubblica amministrazione non solo ad emanare il provvedimento richiesto, ma anche stabilire in che tempi e secondo quali modalità ciò debba avvenire. L’eventuale violazione delle prescrizioni conformative del giudicato di annullamento è censurabile dinanzi al giudice dell’ottemperanza e il provvedimento amministrativo risulterà nullo per violazione e/o elusione del giudicato.
Inoltre, il provvedimento amministrativo può essere affetto da un vizio di natura procedimentale o di carattere meramente formale.
Innanzitutto, l’atto inficiato da un siffatto tipo di illegittimità è, come già detto, già convalidabile dalla pubblica amministrazione in sede di autotutela, pur in presenza di un giudizio in corso, sebbene oggi tale ipotesi sia limitata dall’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, così come novellata dal decreto legge n. 76 del 2020.
Un provvedimento annullato perché emanato in assenza di una preventiva autorizzazione, ad esempio, non impedisce all’autorità procedente di farlo successivamente all’annullamento del giudice amministrativo, ponendo in essere una nuova valutazione degli interessi in gioco. Anzi, talvolta, è lo stesso atto la cui mancanza determina l’illegittimità di un provvedimento a imporre una valutazione di carattere discrezionale. Si pensi, a titolo esemplificativo, al ruolo della valutazione di impatto ambientale nell’approvazione di un piano faunistico.
La sesta sezione del Consiglio di Stato, non solo non ha negato che l’atto emanato dalla pubblica amministrazione potesse essere emanato nuovamente a seguito della delibazione giudiziaria, ma anche che si dovesse escludere la retroattività della sentenza di annullamento qualora da una siffatta circostanza discenda un risultato palesemente iniquo[94].
In un caso simile il giudice amministrativo potrebbe escludere l’efficacia retroattiva del giudicato oppure elidere completamente l’effetto caducatorio della sentenza, limitandosi a conformare, per quanto concerne l’autorizzazione da acquisire, la futura azione della pubblica amministrazione[95].
Alla luce di queste considerazioni, la successiva approvazione di un piano in difetto della necessaria autorizzazione ambientale comporterà violazione e/o elusione del giudicato; qualora, invece, il piano faunistico venga approvato in ossequio all’adempimento richiesto, la sua legittimità dipende dall’esistenza o meno di uno dei vizi sostanziali inerenti all’esercizio della funzione amministrativa che lo possono rendere nullo o annullabile.
La natura discrezionale o vincolata del provvedimento amministrativo, così come la sua illegittimità per un vizio di carattere procedimentale o sostanziale, incide anche sulla riedizione del potere amministrativo e sulla motivazione del provvedimento.
Infatti, le lacune motivazionali sono colmabili se e nella misura in cui la P.A. abbia conservato integro il potere di riedizione. Ciò non avviene, tuttavia, quando il giudice si sia pronunciato sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio oppure nel caso in cui le statuizioni contenute nella sentenza abbiano imposto il rispetto di uno specifico adempimento[96].
In tali ipotesi, la nullità del provvedimento è causata da una carenza di potere o da uno sviamento del potere attribuito dalla legge, in quanto il giudice amministrativo ha specificato i termini, i limiti e le modalità dell’azione amministrativa affinché quest’ultima possa pervenire alla realizzazione degli interessi pubblici alla cui cura tende.
La pubblica amministrazione, invece, non perde la facoltà di esercitare la riedizione del potere, oppure la conserva in maniera più ampia, quando il giudice amministrativo non si sia pronunciato sulla fondatezza della pretesa in giudizio o l’abbia fatto in maniera più limitata, in quanto i margini di discrezionalità ascrivibili alla P.A nel caso concreto erano ancora ampi.
In conclusione, può affermarsi, in virtù di quanto quivi esposto- alla fine di un percorso sinottico di ricostruzione delle forme e delle diverse modulazioni della funzione amministrativa- che una maggiore discrezionalità è corredata anche da più ampi margini di valutazione e da una più ampia libertà di scelta in capo alla P.a.
Tale fenomenologia del potere amministrativo di matrice discrezionale, rappresentante l’estrinsecazione della potestas pubblica più autonoma e marcatamente politica, impone l’assolvimento di un onere motivazionale più rigoroso, comunque libero dai vincoli stringenti del giudicato e perciò sindacabile ex iudice in base ai principi generali che governano l’azione amministrativa dinanzi al giudice della legittimità, tra cui assumono preminente rilievo la ragionevolezza della decisione e la sua giustizia sostanziale.
[1] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, III edizione, Bologna,123.
[2] In merito, si vedano i recenti contributi di A. RUGGERI, La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (Nota minima a Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021), in Consulta online, 2021, 1, 221-222; M. BASILAVECCHIA, L'aggio di riscossione tra discrezionalità del legislatore e della Corte costituzionale [Nota a sentenza: Corte cost., 10 giugno 2021, n. 120], in Corriere tributario, 2021, fasc. 11, 930-934; L. SANTORO. L’attribuzione del cognome ai figli: dalla discrezionalità del legislatore… alla "discrezionalità dei genitori" (considerazioni controcorrente a partire dalla ord. n. 18/2021 della Corte costituzionale), in Consulta online, 2021, 2, 543-560; N. FIANO, Tra tutela ordinamentale e discrezionalità legislativa: le "unvereinbarkeitserklärungen" quale possibile modello di ispirazione per la gestione degli effetti delle sentenze di accoglimento, in La rivista del Gruppo di Pisa, 2020, 1, 279-305.
[3] L’espressione è di R. CAVALLO PERIN, La tutela cautelare nel processo avanti al giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2010, 1165, § 6. L’A. assume posizione paritetica a A. ROMANO, Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. disc. Pubbl., II, Torino, 1987, 30; ID, A proposito dei vigenti artt. 19 e 20 della l. 241 del 1990: divagazioni sull’autonomia dell’amministrare, in Dir. amm., 2006, 489.
[4] S. PIRAS, Discrezionalità amministrativa, in Enciclopedia Giuridica,1964, 65 e ss.
[5] P. VIRGA, Il provvedimento amministrativo, Torino, 1979.
[6] M. CLARICH, Manuale di diritto Amministrativo, cit., 126.
[7] Sul punto cfr. M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939.
[8] I contributi sulla discrezionalità amministrativa sono tantissimi. Ex multis si rimanda a E. PRESUTTI, Discrezionalità pura e discrezionalità tecnica, in Giur. It., 1910, 16 e ss.; O. RANELLETTI, Principii di diritto amministrativo, I, Napoli, 1921, 370 e ss.; M. S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939; L. BENVENUTI, La discrezionalità amministrativa, Padova, 1986, 298 e ss.; V. CERULLI IRELLI, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. proc. amm., 1984, 463 ss.; G. PASTORI, Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Foro Amm., 1987, 3165 e ss.; G. GUARINO, Atti e poteri amministrativi, Milano, 1994; E. CASETTA, Riflessioni in tema di discrezionalità amministrativa, in Dig. disc. pubbl., IX, Torino, 1994, 503 e ss.; B.G. MATTARELLA, Discrezionalità amministrativa, in S. CASSESE, Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 1993 e ss.; G. GRECO, Argomenti di diritto amministrativo, Milano, 2017, 180; F. G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Torino 2019, 32.
[9] Recentemente si segnala sul tema il saggio di G. LOFARO, La certezza giuridica tra principi e regole nella transizione dal "diritto amministrativo dell'emergenza" al "diritto amministrativo del rischio", in ambientediritto.it, 2021, 1, 926-958, che analizza i profli della certezza giuridica e della legalità in concreto, soffermandosi specialmente sulle norme comportamentali e sulle interferenze funzionali tra i poteri dello Stato, per riflettere sul modello di struttura istituzionale attuale, in considerazione della persistente emergenza pandemica che ha enfatizzato il ruolo del potere esecutivo.
[10] R. GAROFOLI- G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2016, 799.
[11] R. VILLATA – M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino,2017, 72.
[12] Cfr. V. OTTAVIANO, Studi sul merito, cit. 308, ss.; ID., voce Merito (diritto amministrativo) in Noviss. Dig.it., vol. X, Torino, 1964, 577.
[13] Sul punto cfr. C. MORTATI, La volontà e la causa nell'atto amministrativo e nella legge, Roma, 523; G. PERICU, Attività amministrativa, Premesse introduttive, in L. MAZZAROLLI - G.PERICU - A.ROMANO - F.A. ROVERSI MONACO - F.G. SCOCA, (a cura di) Diritto amministrativo, IV. Edizione, Milano.
[14] In questi termini si esprime P. VIRGA, Il provvedimento amministrativo, cit., 19 e ss.
[15] Consiglio Di Stato, Sezione IV, sentenza n. 6344 del 2007.
[16] Cfr. M. ALLENA- F. GOISIS, Facoltatività e discrezionalità dell'annullamento d'ufficio? Riflessioni sull'autotutela tributaria e amministrativa, in Il Diritto processuale amministrativo, 2018, 2, 691-716.
[17] M. CLARICH, Manuale di diritto Amministrativo, cit., 174.
[18] E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2018, 508 e ss.
[19] G. GUARINO, Atti e poteri amministrativi, Milano 1994.
[20] B. G. MATTARELLA, in Corso di diritto amministrativo, diretto da S. CASSESE, Bologna 2015, 370 e ss.
[21] F. LIGUORI, La funzione amministrativa. Aspetti di una Trasformazione, II Ed., Napoli, 2010, 105, sul concetto di discrezionalità tecnica così si esprime: “L’accostamento, identificativo della nozione, dell’aggettivo tecnico al fenomeno della discrezionalità è ritenuto foriero di equivoci, per quanto giustificato dall’intenzione di riferirsi a quei casi in cui la legge invoca, ai fini dell’accertamento dei presupposti di fatto per l’esercizio del potere, ‘concetti giuridici indeterminati’, cioè nozioni tecniche-non giuridiche che non conducono a risultati univocamente accettati e lasciano all’amministrazione la scelta tra più alternative possibili”. L’A., inoltre, rimarca la differenza con il mero accertamento tecnico, avente ad oggetto fatti verificabili “in modo indubbio in base a conoscenze e a strumenti tecnici di sicura acquisizione”, definizione ripresa da A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 594. Sempre in tema di discrezionalità tecnica si v. G. P. PARODI, Tecnica, ragione e logica nella giurisprudenza amministrativa, Torino, 1990; D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; P. LAZZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001.
[22] V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, 2018, Torino, 549.
[23] Cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. I quater, sentenza n. 5365 del 2021; Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4279 del 2014; Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 2617 del 2012.
[24] Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 174 del 1992.
[25] R. GAROFOLI- G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, cit., 877.
[26] Cfr. Cass. civ. Sez. Unite Sent., 05/04/2012, n. 5445; Cass. civ. Sez. I Ord., 10/06/2020, n. 11083; T.A.R. Campania Salerno Sez. I Sent., 13/01/2016, n. 23; T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. II Sent., 01/04/2014, n. 519; T.A.R. Campania Napoli Sez. VII, 11/03/2020, n. 1112; Cons. giust. amm. Sicilia, 08/05/2014, n. 243; Cons. Stato Sez. IV, 04/03/2014, n. 1018.
[27] Cons. Stat., Sez.VI, sentenza n. 552 del 2009.
[28] Sul punto, in termini generali, si vedano i contributi di M.C. CAVALLARO, Attività vincolata dell'amministrazione e sindacato giurisdizionale, in Il Processo, fasc.1, 1; M. RAMJOLI, Il declino della decisione motivata, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc.3, 894.
[29] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 1307 del 2007.
[30] Tar Lombardia, Milano, sentenza n. 1042 del 2006.
[31] Così Tar Puglia, Lecce, sentenza n. 4027 del 2005. Per una ricostruzione dettagliata delle problematiche sorte a seguito dell’approvazione della legge 241 del 1990, cfr. F. FRACCHIA - M. OCCHIENA, Teoria dell’invalidità dell’atto amministrativo, e art. 21 octies, legge n. 241/1990: quando il legislatore non può e non deve, in www. giust.amm.it; S. CIVITARESE MATTEUCCI, La forma, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa e illegalità utile, Torino, 2006.
[32] Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 256 del 2011.
[33] Sul punto cfr. A. BONOMO, STRANIERI, Procedimento amministrativo e Garanzie partecipative, in Diritto, Immigrazione e cittadinanza, Fascicolo 2/2020.
[34] Sul punto cfr. V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, cit., 1235.
[35] A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 223.
[36] Cfr. sul punto F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo, Roma, 2019, 886.
[37] E. GAETANI, La nullità del provvedimento amministrativo per violazione o elusione del cosiddetto giudicato cautelare, in Foro amm. TAR, fasc.11, 2008, 3195; G. CREPALDI, La nullità del provvedimento per violazione od elusione del giudicato: profili sostanziali e processuali (nota a: Consiglio di Stato, 23 maggio 2011, n.3078, sez. V), in Foro amm. CDS, fasc.12, 2011, 3720; G. IANNI, Ottemperanza e provvedimento elusivo del giudicato emanato nelle more del giudizio (nota a: T.A.R. Roma, 13 ottobre 2010, n.32797, sez. II), in Giur. merito, fasc.3, 2011, 808; S. D’ANTONIO, Considerazioni in tema di violazione di giudicato e commissario ad acta (nota a: T.A.R. Roma, 09 febbraio 2006, n.984, sez. III), in Foro amm. TAR, fasc.9, 2006, 2943.
[38] Sull’argomento dell’eccesso di potere, senza pretesa di esaustività, si rimanda ai contributi di A. PAJNO, Ciò che resta dell’eccesso di potere, di F. G. SCOCA, Qual è il problema dell’eccesso di potere? e di F. MERUSI, L’eccesso di potere è morto? E se è morto, chi l’ha ucciso?, contenuti nella collettanea di F. FRANCARIO- M.A. SANDULLI (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi delle giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017, 233-254.
[39] Così P. GASPARRI, voce Eccesso di potere, in Enc. Dir., vol. XIV, Milano, 1965, 124 e ss.
[40] F. BENVENUTI, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. Dir. Pubb., 1950, 22 e ss.
[41] Sul punto cfr. G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. I, 311 e ss.; A. DE VALLES, La validità degli atti amministrativi, Pavia, 1986, 178 e ss.
[42] Così A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XV, 1989, 414 e ss.
[43] Ex multis v. F. CAMMEO, La violazione delle circolari come vizio di eccesso di potere, in Giur.it, 1912, III, 107 e ss.
[44] Cosi F. BASSI, Lo straripamento di potere, Profilo storico, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1964, 100.
[45] F. BENVENUTI, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, 22 e ss.
[46] Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 713/1993.
[47] Cosi F. BENVENUTI, Eccesso di potere, cit., 41-45.
[48] Cons. di Stato, Sez. VI, n. 4174 del 14/8/2013. I Giudici di Palazzo Spada, precisano, inoltre che: “In questa prospettiva, tesa a rafforzare le forme di tutela, è sufficiente, in presenza di una specifica domanda, che ricorra una di esse affinché si possa annullare un provvedimento amministrativo senza che sia necessario effettuare un confronto tra l'interesse pubblico tipico e l'interesse concreto perseguito dall'amministrazione per dimostrare lo sviamento di potere e cioè che quest'ultima non abbia perseguito le finalità istituzionali che la legge gli impone di assicurare. In definitiva, le figure in esame sono divenute regole di condotta tipizzate a livello giurisprudenziale, secondo uno schema aperto che consente il continuo adattamento alle esigenze di tutela, la cui violazione determina l'illegittimità degli atti impugnati. Lo strumento delle figure sintomatiche è utilizzabile anche quando il sindacato ha ad oggetto una attività amministrativa connotata da discrezionalità tecnica”.
[49] A. AMORTH, Il merito dell’atto amministrativo, Milano, 1939, 25.
[50] V. OTTAVIANO, Merito (Diritto amministrativo) voce Dig. It., Vol X, Torino, 1964, 575.
[51] Le espressioni sono utilizzate da A. PIRAS, Invalidità (diritto amministrativo), III ediz., Padova, 1973, 143 e 271.
[52] Cosi E. CAPACCIOLI, Il merito amministrativo, in Impr. amb. e pubbl. amm., 1980, 71.
[53] P.M. VIPIANA – V. CINGANO, L’atto amministrativo, Cedam, 2012, 206.
[54] Così C. MORTATI, Norme non giuridiche e merito amministrativo, in Stato e diritto, 1941, 121 e ss.
[55] M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale, cit., 83.
[56] P.M. VIPIANA – V. CINGANO, L’atto amministrativo, cit., 211.
[57] In tema di riconsiderazione dell’opportunità e della effettiva maggior tutela- contestata- si è espresso F.G. SCOCA, Profili sostanziali del merito amministrativo, in Nuova rass., 1981, 1388. L’A. ha evidenziato che il rapporto di accessorietà della giurisdizione di merito con quella di legittimità fosse argomento sconfessabile; inoltre, spinge la propria riflessione sulla messa in discussione di una tutela maior per il cittadino nell’ambito della giurisdizione di merito. Si veda, in aderenza a tale tesi, E. FOLLIERI, Giudizio di merito come giudizio di legittimità, in Nuova rass., 1981, 1416, che promuoveva una maggiore pregnanza del giudizio di legittimità, attraverso la ridefinizione dei vizi dell'atto e la piena cognizione del fatto.
[58] A. PIRAS, L’invalidità, cit., 610.
[59] B.G. MATTARELLA, Il provvedimento, in Trattato di diritto amministrativo, II ed., pt. gen., Milano, 2003, 974.
[60] Diritto delle amministrazioni pubbliche, Una introduzione, III ed., Bologna, 2005, 327 ss.
[61] Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 601/1999.
[62] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 940 del 1992.
[63] Così R. VILLATA-M RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, cit., 135.
[64] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 2199 del 2002.
[65] Si segnala la presenza di una corrente di pensiero che nega la categoria della discrezionalità tecnica, sulla scorta della sua disomogeneità rispetto alla discrezionalità “pura”. In tal senso si veda, M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939; F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, II, Milano, 1987, 431; F. G. SCOCA, La discrezionalità nel pensiero di Massimo Severo Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2000, 1045. Sul punto, F. LIGUORI, Funzione amministrativa, Napoli, 2010, 105, sottolinea che la discrezionalità politica si declina in una scelta politico amministrativa, di sintesi tra gli interessi in gioco e la individuazione dell’alternativa più opportuna, la discrezionalità tecnica “si caratterizza per un processo nel quale il momento del giudizio (acquisizione ed esame dei fatti) si rivela del tutto preponderante rispetto a quello della volizione (della scelta, appunto), consistendo nella individuazione di una soluzione tecnico-scientifica (non in relazione all’interesse pubblico, ma sulla base di regole non giuridiche) che lascia margini di opinabilità”.
[66] Così Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 5156 del 2002.
[67] Per le diverse distinzioni cfr. F. CAMMEO, La competenza di legittimità della IV Sezione e l’apprezzamento dei fatti valutabili secondo criteri tecnici, in Giur.it,1902, III, 275 e ss.; E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Milano, 2005, 436-437; G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in L. MAZZAROLLI - G.PERICU - A.ROMANO - F.A. ROVERSI MONACO - F.G. SCOCA, (a cura di) Diritto amministrativo,cit., 620- 621; V. OTTAVIANO, Giudice ordinario e giudice amministrativo di fronte agli apprezzamenti tecnici della P.A., in Studi in memoria di V. Bachelet, vol. II, Milano, 403 ss.
[68] R. VILLATA- M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, cit., 123.
[69] Cfr. H. EHMKE, “Discrezionalità” e “concetto giuridico indeterminato” nel diritto amministrativo, Napoli, 2011.
[70] Cass. Sez. Un. Sentenza n. 1013 del 2014.
[71] Cass. Sez. Un. Sentenza n. 1013 del 2014., cit. Quanto alla sindacabilità delle valutazioni tecniche in sede giurisdizionale, invece, è stato osservato che “sarebbe davvero ingenuo supporre che il ricorso a criteri di valutazione tecnica, in qualsiasi campo, offra sempre risposte univoche. E' vero invece - e lo si è già accennato - che sovente esso conduce ad un ventaglio di soluzioni possibili, destinato inevitabilmente a risolversi in un apprezzamento non privo di un certo grado di opinabilità. In situazioni di tal fatta il sindacato del giudice, essendo pur sempre un sindacato di legittimità e non di merito, è destinato ad arrestarsi sul limite oltre il quale la stessa opinabilità dell'apprezzamento operato dall'amministrazione impedisce d'individuare un parametro giuridico che consenta di definire quell'apprezzamento illegittimo. Con l'ovvio corollario che compete comunque al giudice di vagliare la correttezza dei criteri giuridici, la logicità e la coerenza del ragionamento e l'adeguatezza della motivazione con cui l'amministrazione ha supportato le proprie valutazioni tecniche, non potendosi altrimenti neppure compiutamente verificare quali siano in concreto i limiti di opinabilità dell'apprezzamento da essa compiuto.”
[72] Così F.G. SCOCA, Profili sostanziali del merito amministrativo, in Nuova Rass., 1981, 1376 ss.
[73] Così P. M. VIPIANA- V. CINGANO, L’atto amministrativo, cit., 170.
[74] V. F BENVENUTI, voce Autotutela, (dir. amm.), in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, 539 e ss.
[75] Cfr. G. CORSO, L’efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, 206 e ss.
[76] Sul punto V. M. NIGRO, Decisione Amministrativa, in Enc. Dir., Milano, 1962, 865 e ss.
[77] M. IMMORDINO, I provvedimenti di secondo grado, in F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2014, 339.
[78] Sul punto cfr. Consiglio di Stato sez. IV, sentenza n. 6878 del 2010, in Giornale di diritto amministrativo, 2011, 1, 83.
[79] Ex multis cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 5154 del 2008, in www. giustiziaamminiustrativa.it. Per una ricostruzione esaustiva dei caratteri propri dell’atto di conferma si rinvia a R. GAROFOLI -G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, cit., 823 e ss.
[80] Consiglio di Stato, Sez. II. sentenza n. 4694 del 2020.
[81] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 3482 del 2016. Per una trattazione approfondita dell’istituto della ratifica L. MAZZAROLLI, Gli atti amministrativi di conferma, Padova, 1963; S. CRISCI, La conferma dell’atto amministrativo, Salerno, 1995.
[82] G. GHETTI, Conferma, convalida e sanatoria degli atti amministrativi, in Dig. Disc. Pubbl., III, Torino, 1989, 350 s; Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 3558 del 2014; Consiglio di Stato, Sez. V., sentenza n.3572 del 2014.
[83] F. CARINGELLA, Compendio di diritto amministrativo, Roma, 2021, 518.
[84] Sul punto cfr. BREGANZE, Sanatoria dell’atto amministrativo, in Enc. giur., XXVII, Roma. 1991, 1 e ss.
[85] Si veda Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 3448 del 2003.
[86] Tar Liguria, Sez. IV, sentenza n. 941 del 1998.
[87] R. CHIEPPA- R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020, 712.
[88] M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1970, 568; V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, 635.
[89] P.M. VIPIANA – V. CINGANO, L’atto amministrativo, cit., 110.
[90] Ex multis, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 3448 del 2003.
[91] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 71 del 1993.
[92] In particolare Cons. St., sez. VI, sentenza n. 3385/2021 ha affermato che “se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto dei presupposti), il difetto degli elementi giustificativi del potere non può giammai essere emendato, tantomeno con un mero maquillage della motivazione: l’atto dovrà comunque essere annullato; b) se invece la carenza della motivazione equivale unicamente ad una insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto riepilogo della decisione presa, siamo di fronte ad un vizio formale dell’atto e non della funzione: in tale caso, non vi sono ragioni per non riconoscersi all’amministrazione la possibilità di tirare nuovamente le fila delle stesse risultanze procedimentali, munendo l’atto originario di una argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l’essenza dispositiva, in quanto riflette la corretta sintesi ordinatoria degli interessi appresi nel procedimento".
[93] Cfr. F. ORSO, Ancora sugli effetti del giudicato a "spettanza stabilizzata": un passo avanti e due indietro, in Diritto processuale amministrativo, 2019, 4, 1236-1284. L’A. tratta il tema degli effetti del giudicato amministrativo traendo spunto dalla sentenza n. 1321 del 2019 della sesta sezione del Consiglio di Stato, con cui i giudici di Palazzo Spada hanno censurato l’assioma secondo il quale la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadino si risolve in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire a una definizione positiva del conflitto.
[94] Consiglio di Stato, sez.VI, sentenza n. 2755 del 2011.
[95] Per un approfondimento sulla possibile modulazione degli effetti della sentenza del giudice amministrativo cfr. A. TRAVI, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, in Urbanistica e appalti, 2011, fasc. 8, 937.
[96] Per un approfondimento dei limiti della riedizione del potere amministrativo in seguito al giudicato di annullamento che si sia espresso sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio si veda G. MARI, Ottemperanza e riedizione del potere amministrativo, Roma, 2014.