Eco-edilizia e tutela dell´ambiente tra Stato e Regioni
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Antonio Gusmai
Il contributo si occupa, in chiave costituzionale, di alcuni aspetti riguardanti il complesso tema dell’eco-edilizia. In particolare, dopo aver rintracciato le fondamenta costituzionali della materia, si farà accenno a due problematiche di grande rilievo: da una parte si guarderà al poco esplorato tema dell’urbanistica partecipata; dall’altra, alla mancanza di organicità che caratterizza la materia «governo del territorio». Il tutto, come si vedrà, nella convinzione che il «paesaggio» rappresenti, sul piano costituzionale, un vero e proprio «teatro della democrazia».
Sommario: 1. Note introduttive. 2. La dimensione costituzionale del «governo del territorio». 3. Annotazioni conclusive sulla mancanza di una legge "organica".
1. Note introduttive
Specie a partire dalla prima metà del Novecento, la materia «edilizia e urbanistica» ha assunto l’aspetto di una mera materia tecnica, peraltro assai complessa. Materia che, però, a guardar bene, ha sempre avuto anche e soprattutto una estrema, seppure spesso sottaciuta, rilevanza costituzionale[1].
Invero, l’edilizia e l’urbanistica sono discipline che solo prima facie si limitano alla progettazione ed alla realizzazione dell’ambiente architettonico. In effetti, un’analisi meno superficiale rivela come esse non coincidano affatto con la “semplice” costruzione di uno spazio materiale. Al contrario, nel far ciò, tali materie sembrano manifestare una incipiente dimensione sociale, riscoprendosi quale matrice privilegiata di contesti urbani in cui si creano e si intessono rapporti interindividuali[2].
In altre parole, il «governo del territorio»[3], nella sua capacità di incidere sullo sviluppo paesaggistico e cittadino, appare intrinsecamente connesso ad un «orizzonte di diritti» il quale non può che innervare tanto la città, quanto il paesaggio nella loro dimensione di «teatro della democrazia»[4].
Ciò che si vuol dire è che proprio dallo sviluppo urbanistico ed edilizio, dalla relativa capacità di rispondere ai bisogni sociali della collettività e dall’esigenza di vivibilità dei luoghi in cui i consociati svolgono le proprie attività, dipende la qualità delle nostre esistenze. Basti pensare all’obbligo imposto dalle regole urbanistiche di prevedere la necessaria dotazione di strutture di fruizione comune nel tessuto urbano (le c.d. “localizzazioni” e, dunque, gli asili, le scuole, gli impianti sportivi, le biblioteche, le aree verdi) finalizzate, per l’appunto, ad assicurare ai singoli e alla collettività migliori condizioni di vita[5].
Per tal motivo, alla luce della indubbia rilevanza costituzionale di una materia che incide sulla costruzione di uno spazio in cui poter realizzare pienamente la propria personalità ed esplicare la propria attività, non appare possibile ridurre il «governo del territorio» alla sola dimensione materiale dello spazio tellurico, ossia all’elaborazione delle diverse soluzioni di trasformazione e di sviluppo dello stesso. Al contrario, in un’ottica costituzionalmente orientata, la materia urbanistica non può non riguardare soprattutto i riflessi sociali ed economici della costruzione fisica dell’urbs, oltre che gli equilibri ecosistemici, in termini di vivibilità sostenibile dell’insediamento umano[6].
È in questo senso, nutrito dai principi costituzionali che pongono lo sviluppo della persona umana al centro dell’azione dei pubblici poteri, che l’urbanistica rivela il suo stretto legame con la dimensione sociale e finanche politica della res pubblica, così da liberarsi dagli asfittici vincoli derivanti dalla tradizionale declinazione in termini meramente tecnici[7].
2. La dimensione costituzionale del «governo del territorio»
Ecco allora, che l’interesse urbanistico assume le vesti di un interesse strumentale alla valorizzazione della persona umana, finalizzato com’è a realizzare l’obiettivo di creare le condizioni di contesto, fisico e comunitario, perché in esso si possa liberamente e pienamente svolgere la sua personalità. Non si esagera, pertanto, se si sostiene che la persona umana sembra realizzarsi, in qualche modo, anche attraverso l’edilizia e l’urbanistica. Giacché, a guardar bene, tutte le operazioni di pianificazione dello spazio fisico – anche quelle che prima facie possono apparire di poco momento – in realtà costituiscono un’impalcatura mediante la quale, al contempo, si (ri)struttura la cultura del mondo umano[8].
Se questo è il contesto giuridico-costituzionale da cui deve prendere l’abbrivio ogni discussione in tema di urbanistica, il suo più solido ancoraggio costituzionale si deve rintracciare negli artt. 2 e 3 della Costituzione repubblicana, prima ancora che nell’art. 42 Cost., come spesso invece tradizionalmente si ritiene. Per meglio dire, è nella congiunzione del principio personalista (art. 2) con quello dell’uguaglianza tanto formale quanto sostanziale (art. 3), veri e propri architravi dell’intera architettura costituzionale, che risiede il fondamento del c.d. «governo del territorio». È nella congiunzione di questi due principi fondamentali che l’urbanistica acquista una dimensione costituzionalmente orientata, non già e non solo nel pur rilevante regime giuridico della proprietà, seppur anch’essa declinata dalla Costituzione in un senso non strettamente ancorato al dominio assoluto del titolare del relativo diritto (art. 42) [9].
In effetti, proprio il secondo comma dell’art. 42 impone alla legge di assicurare il godimento della proprietà, sia pubblica che privata, in una prospettiva che tenga conto di due insuperabili condizioni[10]. La prima, data dalla circostanza – costituzionalmente imposta – che la proprietà debba essere resa «accessibile a tutti», con ciò comprovando la necessaria preordinazione o rilevanza sociale del territorio, inteso quale “qualità” dello spazio del vissuto collettivo. La seconda, implicante la necessità che la proprietà debba avere una «funzione sociale», ossia un significato capace di trascendere i beni materiali, per sublimarsi nell’esistenza di un «ambiente» (dal latino ambire, “andare intorno”) capace, come si diceva, di favorire la piena realizzazione della personalità umana. Un simile sostrato assiologico del diritto di proprietà costituzionalmente inteso, quindi, non può che fluire attraverso la costruzione di un ambiente sociale armonioso, equilibrato, come tale non escludente già a partire dalla mera dimensione materiale-architettonica[11].
È questa la precipua dimensione costituzionale del «governo del territorio», inteso come “materia” che oggi più che mai, si diceva, non può non presupporre la geografia paesaggistica come un vero e proprio «teatro della democrazia»[12].
Sul piano della normazione, una simile impostazione costituzionalmente orientata si riverbera – e non potrebbe essere altrimenti – sui concreti strumenti attraverso i quali, nella quotidianità, l’urbanistica è chiamata ad operare[13]. Invero, la rilevanza costituzionale di una materia tanto decisiva per lo sviluppo della personalità e dell’uguaglianza sociale, di fatto preordinata al raggiungimento di migliori equilibri ecosistemici, non sembra poter prescindere anche da una revisione dei tradizionali moduli operativi sinora conosciuti e sperimentati[14].
Ed è così che, ormai da qualche anno, un’importanza sempre maggiore è stata acquisita dalla c.d. «urbanistica partecipata», la cui implementazione implica un ripensamento a monte della stessa natura delle regole urbanistiche. Queste ultime, infatti, a fortiori se si prende in considerazione la lettura costituzionale qui proposta, non possono più risultare esclusiva espressione del «principio di autorità» tipico del modello amministrativo proto-novecentesco[15]. Ma, tutt’al contrario, di un modello partecipativo che operi all’insegna della ricerca del consenso e della condivisione dei cittadini in ordine a qualsiasi ipotesi di trasformazione «sostenibile del territorio»[16].
In questa prospettiva, il modello di sviluppo urbanistico co-partecipato appare essere basato, da un lato, sull’integrazione tra poteri pubblici e società civile e, dall’altro, sul superamento della logica antagonista interesse pubblico/interesse privato che sino ad oggi ha connotato ogni manifestazione di pubblico potere[17]. Si tratta di un modello urbanistico, quello consensuale/partecipato, diffuso già da molto tempo nelle realtà nord-europee (si pensi all’Inghilterra) e sud-americane (come alcune metropoli colombiane), in cui sono state sperimentate forme di partecipazione effettiva e consapevole della società civile ai procedimenti di pianificazione territoriale, a cominciare proprio dalla fase di redazione del progetto di piano[18].
In tal modo, sono state sperimentate forme di co-partecipazione della cittadinanza attiva alla progettazione di interventi destinati ad incidere sul paesaggio urbano, al fine di responsabilizzare, al contempo, le istituzioni e la cittadinanza medesima, oltre che non disperdere quell’apporto cognitivo della società civile che troppo spesso viene, invece, ad essere del tutto ignorato. Simili pratiche partecipative, in effetti, si sono rivelate un formidabile strumento di rigenerazione di beni culturali (come teatri e immobili di pregio storico-artistico), la cui tutela e valorizzazione per mano pubblica ha faticato a garantire un’adeguata conservazione in un’ottica rigenerativa degli stessi. Peraltro, pratiche partecipative sono state sperimentate anche con riferimento ad interventi riguardanti interi quartieri (nella generalità dei casi) periferici, fonte e riflesso ad un tempo – già a livello architettonico – di gerarchie e distanziamenti sociali, i quali sono stati così forniti di infrastrutture e servizi essenziali tali da garantirne la non escissione rispetto alla restante parte urbana. L’obiettivo di simili interventi è stato quello di creare ambienti socio-spaziali in grado di sprigionare le energie creative degli abitanti della città, così da superare quelle ferree e rigide logiche proprietarie che hanno sinora connotato la materia urbanistica[19].
Per di più, ad una estensione generalizzata delle pratiche partecipative si è unita l’esigenza di garantire, attraverso le medesime, uno sviluppo urbano idoneo a garantire la tutela degli equilibri ecosistemici. Come è stato detto, infatti, le grandi metropoli sono la causa prima dell’inquinamento atmosferico e, per nulla paradossalmente, la prima vittima dello stesso[20].
Di tutte queste problematiche sembra aver finalmente preso coscienza anche il legislatore nazionale, il quale, all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ha incluso l’«Investimento 2.2: Piani urbani integrati». Quest’ultimo, infatti, è dedicato alle periferie delle Città Metropolitane, e annovera tra gli altri strumenti «una pianificazione urbanistica partecipata, con l’obiettivo di trasformare territori vulnerabili in città smart e sostenibili, limitando il consumo di suolo edificabile». Così, «nelle aree metropolitane si potranno realizzare sinergie di pianificazione tra il Comune “principale” ed i Comuni limitrofi più piccoli con l’obiettivo di ricucire tessuto urbano ed extra-urbano, colmando deficit infrastrutturali e di mobilità». In tale prospettiva, «l’investimento prevede la predisposizione di programmi urbanistici di rigenerazione urbana partecipati, finalizzati al miglioramento di ampie aree urbane degradate, alla rigenerazione, alla rivitalizzazione economica, con particolare attenzione alla creazione di nuovi servizi alla persona e al miglioramento dell’accessibilità e dell’intermodalità delle infrastrutture anche allo scopo di trasformare territori metropolitani vulnerabili in territori efficienti, sostenibili e produttivi aumentando, ove possibile, il loro valore»[21].
Altro aspetto di non poco rilievo attiene alla possibilità di avvalersi, nei singoli interventi, della «co-progettazione con il Terzo settore», ai sensi dell’art. 55 del d.lgs. n. 117 del 2017 (c.d. “Codice del Terzo settore”), oltre che della partecipazione di investimenti privati nella misura massima del 30 per cento. Il precipuo obiettivo è quello di recuperare spazi urbani e aree già esistenti «promuovendo processi di partecipazione sociale e imprenditoriale». Tutti i progetti dovranno quindi «restituire alle comunità una identità attraverso la promozione di attività sociali, culturali ed economiche con particolare attenzione agli aspetti ambientali»[22].
È questo lo scenario in cui si rivela la strettissima connessione tra l’urbanistica, intesa come insieme delle strategie di trasformazione del territorio, e l’art. 9 della Costituzione, il quale, in base ad una disposizione che deve la sua formulazione a Concetto Marchesi ed Aldo Moro, impone alla Repubblica di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione. Sul punto, sembra doveroso precisare che, nonostante la Repubblica italiana non sia stata la prima a tutelare natura, monumenti e bellezze paesaggistiche (il primo riferimento costituzionale è rinvenibile nell’art. 150 della Costituzione della Repubblica di Weimar del 1919, il secondo nell’art. 45 della Costituzione della Repubblica Spagnola del 1931, che peraltro ebbe una cortissima vita), la nostra Costituzione ha avuto il merito di porre il «paesaggio» ed il «patrimonio storico e artistico della Nazione» tra i «principi fondamentali dello Stato». E, quindi, è stata la prima Carta fondamentale al mondo a dare al paesaggio e al patrimonio storico-artistico e archeologico un ruolo di assoluto rilievo nell’orizzonte dei diritti del cittadino[23]
3. Annotazioni conclusive sulla mancanza di una legge "organica"
D’altro canto, se è vero che le scelte pianificatorie appaiono null’altro che la risposta ai fabbisogni presenti ed a quelli prevedibili per il futuro (da qui il principio, di derivazione europea, del «consumo del suolo zero» e del conseguente principio del prioritario «riuso del patrimonio edilizio esistente»)[24], va detto però che nel contesto normativo italiano continua a mancare una legge “organica” statale che stabilisca i principi generali della materia[25].
Ed invero, ancora oggi chiamiamo legge fondamentale, o legge urbanistica, la risalente legge n. 1150 del 1942, i cui principi appaiono palesemente disallineati rispetto ad un contesto socio-economico che presenta esigenze all’epoca neppure sommariamente prese in considerazione, quali la tutela dell’ambiente, il rispetto del paesaggio e la preservazione dei beni culturali[26].
Una “mancanza” che continua a pesare all’interno di un contesto costituzionale peraltro fortemente provato dalle plurime incertezze originate dalla non felice formulazione dell’art. 117 della Costituzione[27], il quale «non ha evitato una stratificazione normativa che ha finito col porre spinosi problemi di coordinamento, non solo tra le diverse fonti nazionali e tra queste e quelle comunitarie, ma anche tra gli organi giurisdizionali»[28]. Vere e proprie aporie, che sono state da ultimo messe in rilievo dalla pronuncia n. 3820 del 2021 del Consiglio di Stato, con cui la IV Sezione ha sollevato questione di legittimità costituzionale in ordine alla corretta ripartizione delle competenze statali, regionali e locali in materia urbanistica, lì dove ad emergere siano una pluralità di interessi differenziati, tutti di rango costituzionale[29].
A rilevare, ancora una volta, è la parcellizzazione delle competenze generata dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (una riforma per molti aspetti decisamente infelice), con cui si è provveduto a riscrivere le regole fondamentali della distribuzione del potere su base territoriale[30]. Un esito, quest’ultimo, strettamente connesso al rafforzato ruolo delle autonomie territoriali che la suddetta riforma ha inteso implementare, sia sul versante del potere legislativo, sia per quel che riguarda il potere amministrativo[31].
Per ciò che qui più interessa, v’è da dire che mentre la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” è stata riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. s), la disciplina del “governo del territorio” e, dunque, dell’urbanistica, è stata invece attribuita al legislatore regionale, nei limiti però dei principi fondamentali stabiliti dallo Stato, secondo quello che è il criterio tipico della potestà legislativa concorrente (comma 3). Così come, e qui si percepisce tutta l’infelicità della revisione costituzionale del 2001, tra le materie di potestà legislativa attribuita alle Regioni figura anche la “valorizzazione” dei beni culturali e ambientali.
Se non ci si lascia abbacinare dalle rigide partizioni categoriali che talvolta animano il modus operandi dei giuristi, è d’uopo evidenziare come tra la materia «governo del territorio» e la materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» esistano indubbi punti di contatto, se non vere e proprie sovrapposizioni[32]. Con la conseguenza che, in caso di antinomia, risulterà oltremodo difficoltoso individuare la fonte applicabile, così come alquanto problematica potrebbe sembrare la perimetrazione della competenza legislativa regionale in «materie» che di per sé sono «non materie»[33]. Infatti, più che ad ambiti disciplinari, esse attengono ad un insieme di attività finalisticamente orientate a realizzare in concreto degli obiettivi – come la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, piuttosto che la pianificazione e la programmazione degli spazi dell’urbs – difficilmente cristallizabili nell’astrattezza di un elenco di competenze normative[34].
Tuttavia, con riferimento specifico a quest’ultimo aspetto, la risoluzione dell’evocato interrogativo non sembrerebbe[35], invero, così difficile, sol che si pensi a quanto costantemente ribadito dalla Corte costituzionale nell’alluvionale produzione giurisprudenziale degli ultimi decenni[36]. Laddove si debba trovare una linea di confine tra le due materie, dice la Corte, ad arretrare non può che essere la competenza regionale, a cui spetta il «governo del territorio»[37]. E questo perché la discrezionalità pianificatoria trova un limite particolarmente invasivo negli altri interessi differenziati di rango costituzionale (paesaggio, ambiente, beni culturali), la cui tutela non può non rientrare nella competenza degli organi statali[38]. Nella pianificazione vige, come di recente è stato rammentato, una «gerarchia»[39].
In particolare, una recentissima pronuncia del giudice delle leggi, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della Legge regionale pugliese n. 52 del 2019 per violazione della sfera di competenza statale, ha ribadito che «il principio di prevalenza della tutela paesaggistica deve essere declinato nel senso che al legislatore regionale è impedito non solo adottare normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, ossia con previsioni di tutela in senso stretto, ma, altresì, introdurre limiti o condizioni, in qualsiasi forma, senza che ciò sia giustificato da più stringenti ragioni di tutela». Ragioni, queste, che evidentemente possono «trovare riconoscimento anche negli strumenti urbanistici regionali o comunali, tanto più, poi, se dette limitazioni trovino giustificazione in mere esigenze urbanistiche». Non a caso, puntualizza ancora la Consulta, «affinché sia preservato il valore unitario e prevalente della tutela paesaggistica (sul quale, fra le molte, sentenze n. 11 del 2016, n. 64 del 2015 e n. 197 del 2014), deve, infatti, essere salvaguardata la complessiva efficacia del piano paesaggistico, ponendola al riparo dalla pluralità e dalla parcellizzazione degli interventi delle amministrazioni locali (sentenza n. 182 del 2006)»[40].
Il vero problema, sul piano costituzionale, sembra dunque essere questo: poiché la materia «governo del territorio» rientra tra le competenze legislative concorrenti, tutte le Regioni debbono muoversi nell’ambito dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, qualificate per l’appunto “leggi cornice” o “leggi quadro”. Poiché però manca una legge statale che enuclei espressamente i principi fondamentali in materia di governo del territorio (la L.U. del 1942 è ormai, come si accennava, inidonea a far trasparire principi fondamentali che abbiano una reale forza orientativa, in funzione uniformizzante, dell’attività legislativa regionale), pare oltremodo difficile individuare un valido paradigma alla luce del quale poter giudicare la parcellizzazione – a tratti scomposta – degli interventi regionali e delle amministrazioni locali[41].
È piuttosto evidente, inoltre, il compito di “supplenza” assunto sul punto dalle leggi statali in materie “confinanti” con il governo del territorio, le quali si sono così appropriate della valenza di “cornice”, ossia di “limite” alla potestà legislativa regionale in materia urbanistica[42]. Tra queste, a risaltare sono proprio le leggi statali in materia di ambiente (si pensi al c.d. Codice dell’ambiente) e la legislazione statale in materia di beni culturali (e qui si pensi al Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n. 42/2004, art. 145, comma 3, da cui è già possibile desumere la prevalenza delle previsioni contenute nei piani paesaggistici sugli altri strumenti urbanistici degli enti territoriali), la cui strettissima contiguità con il governo del territorio implica fisiologicamente che tali leggi fungano da limite di principio per la legislazione regionale[43].
Per concludere, la ricostruzione del contesto giuridico-costituzionale e legislativo sembra suggerire l’improcastinabilità di un intervento del legislatore nazionale atto a dare organicità al corpus legislativo statale intanto stratificatosi durante il periodo repubblicano[44]. Un approdo normativo, cioè, capace di far emergere quei «principi fondamentali» regolanti la materia, così come preteso dalla logica fatta propria e presupposta dall’art. 117 della Carta repubblicana[45].
Se non si andrà in questa direzione, nella perdurante assenza di una legge “organica” statale che detti i “principi”, l’edilizia e l’urbanistica continueranno ad essere governate dal confuso sovrapporsi di leggi statali, delle tante leggi regionali e, soprattutto, come poi di fatto avviene nella realtà, dalla baraonda delle interpretazioni giurisprudenziali[46].
Testo della relazione tenuta in occasione del Webinar “Beni culturali, tutela dell’ambiente ed interventi straordinari: «Piano Casa per la Regione Puglia» e «Super Bonus». Profili normativi ed economici”, convegno organizzato dall’AGAMM e dalla Camera Amministrativa di Bari, svoltosi il 1 luglio 2021 su YouTube. L’evento si colloca all’interno di un ciclo di incontri aventi ad oggetto tematiche di rilievo pubblicistico, organizzati al fine di far dialogare più “voci” (accademici, magistrati, esponenti politici, rappresentanti di categoria, professionisti). È possibile seguire l’evento al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=cZWVvjZP7sQ.
[1] Cfr. A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Id., Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Giuffrè, Milano, 1969, part. 3 e ss.
[2] A tal proposito, molto utile può essere la lettura di F. La Cecla, Contro l’urbanistica. La cultura delle città, Einaudi, Torino, 2014, il quale, a più riprese, auspica un vero e proprio cambio di paradigma della scienza urbanistica, troppo spesso animata da logiche immobiliari del tutto cieche di fronte alla pressante richiesta di partecipazione della comunità urbana. Richiesta di partecipazione che, sia detto per inciso, non di rado proviene da coloro che faticano a rinvenire occasioni di riscatto ed emancipazione sociale in spazi urbani la cui semplice architettura è essa stessa specchio e fucina di emarginazione sociopolitica.
[3] È in tale macro-materia che, dopo la revisione del Titolo V della Costituzione del 2001, come è noto sono confluite l’edilizia e l’urbanistica. Cosicché, nel nuovo art. 117, «il governo del territorio» diviene materia di competenza c.d. «concorrente» tra Stato e Regioni». Secondo il giudice delle leggi, costituiscono poi ulteriori ambiti del «governo del territorio»: la riqualificazione urbana (Corte cost., n. 16 del 2004); la fruizione delle risorse idriche (Corte cost., n. 168 del 2008); l’edilizia sanitaria (Corte cost., n. 99 del 2009); la realizzazione degli impianti di smaltimento, trattamento e gestione dei rifiuti (Corte cost., n. 314 del 2009); l’edilizia residenziale pubblica (Corte cost., n. 121 del 2010). Sulla giurisprudenza costituzionale in materia di «governo del territorio», si veda, da ultimo, A. Iacoviello, La competenza legislativa regionale in materia di governo del territorio tra esigenze unitarie e istanze di differenziazione, in Rivista AIC, n. 2/2019, 373 ss.
[4] È questa l’evocativa espressione utilizzata da S. Settis, Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili, Einaudi, Torino, 2017, 78. L’Autore, nell’alveo di un discorso incentrato sull’insorgere di nuove consapevolezze intra-urbane, ossia di movimenti di rivendicazione di spazi e diritti da parte dei cittadini che abitano le zone periferiche delle grandi metropoli, evidenzia come le suddette «comunità degli esclusi non possono rinunziare né alla libertà di parola né alla rivendicazione dei loro diritti. Una formula di recente invenzione, diritto alla città, include, riassume e rilancia un orizzonte di diritti civili che ci riguarda da vicino, perché interroga la nostra concezione di società. Perciò protestare in città, protestare per la città, vuol dire intenderla non come spazio neutro ma come teatro della democrazia. E, se città e paesaggio sono le due facce di una stessa medaglia, non può esservi “diritto alla città” senza “diritto al paesaggio”». E, ancora, poco dopo: «Città, paesaggio, opere d’arte, ambiente sono beni e nozioni legate ai diritti della cittadinanza, perché in essi fiorisce la possibilità di una comunità che non sia dominata dai particolarismi e dall’illegalità, ma dalla lungimiranza e dalla democrazia».
[5] Sulla complessità dello «scenario fisico» dei sistemi urbani europei, in chiave storica, L. Benevolo, La città nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari, 2019, il quale da ultimo si interroga «sul ruolo delle città» nel mondo globale (217 ss.).
[6] Come ha fatto notare F. La Cecla, Contro l’urbanistica, op. cit., 68-69, oggi siamo ben consapevoli «che la situazione del pianeta è a rischio proprio per il peso dell’urbanizzazione su di esso. Questa incide (…) per i tre quarti dell’inquinamento del pianeta (…) Oggi affrontare la questione urbana significa dover far fronte al cambiamento climatico». L’Autore, quindi, conclude evidenziando che «Da questo punto di vista l’urbanistica è drammaticamente superata e in ritardo. L’urgenza che dovrebbe muoverla è stemperata dalla lentezza con cui prende atto dell’abisso che ci si apre dinanzi. Oggi non si può più fare urbanistica se non attraverso fortissimi provvedimenti che limitino la natura catastrofica delle città».
[7] Le stesse città, il punto è cruciale, non possono che intendersi come uno spazio sociale e politico, in cui gli esseri umani si aprono alla conoscenza in qualità di soggetti che rispecchiano al proprio interno unità e diversità. Cfr. G.M. Labriola, Città e diritto. Brevi note su un tema complesso, in Istituzioni del Federalismo, n. 1/2018, 7 ss.
[8] Non a caso, s’è detto opportunamente, che «i progetti urbani maggiormente capaci di incarnare lo spirito contemporaneo intrecciano cura dell’ambiente e attenzione per il sociale». Così, E. Granata, Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo, Giunti – Slow Food Editore, Milano, 2019, 43.
[9] In senso conforme, si veda, da ultimo, M.G. Feola, Lineamenti di diritto urbanistico, Pacini, Pisa, 2021, 4 ss.
[10] Una ricostruzione alternativa del diritto di proprietà, attenta ai suoi sviluppi storico-materiali e consapevole della relativa dimensione costituzionale, si rinvia a S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, il Mulino, Bologna, 2013, 273 ss.
[11] La rilevanza costituzionale dell’ambiente è sempre stata oggetto di ampi studi e variegati ricostruzioni da parte della dottrina costituzionalistica. Non potendo in questa sede richiamare i numerosi lavori ad esso dedicati, sia consentito rinviare, anche per i dovuti riferimenti bibliografici, ad A. Gusmai, La tutela costituzionale dell’ambiente tra valori (meta-positivi), interessi (mercificatori) e (assenza di) principi fondamentali, in Diritto Pubblico Europeo – Rassegna online, fasc. 1, 2015. Peraltro, è d’uopo evidenziare che lo status costituzionale dell’ambiente potrebbe conoscere un ulteriore consolidamento in ragione del progetto di revisione costituzionale, tutt’ora all’esame delle Camere, avente come obiettivo quello di riformulare l’art. 9 della Costituzione e, non secondariamente, l’art. 41 della Carta repubblicana. In particolare, all’art. 9 si aggiungerebbe un ulteriore comma, a detta del quale la Repubblica “«Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme della tutela degli animali”; di maggior precisione, invece, l’intervento sull’art. 41 Cost., che stabilisce che l’iniziativa economica “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, cui si vorrebbe aggiungere «alla salute, all’ambiente». Infine, al terzo comma dell’articolo 41, lì dove è stabilito che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, verrebbe aggiunto “e ambientali”. Sul punto, si rinvia al Dossier n. 405 del 23 giugno 2021 elaborato dal Servizio Studi del Senato della Repubblica, intitolato «Modifiche degli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente». Si veda, poi, T.E. Frosini, La Costituzione in senso ambientale. Una critica, in federalismi.it – paper, 23 giugno 2021; e, ivi, F. Rescigno, Quale riforma per l’articolo 9; M. Greco, La dimensione costituzionale dell’ambiente. Fondamento, limiti, e prospettive di riforma, in Quad. cost., fasc. n. 2/2021, 294 ss. Da ultimo, sul nesso esistente tra ambiente e salute, ma anche tra ambiente e assetti socio-economici a seguito dalla pandemia, cfr. M.G. Nacci,Ambiente, salute ed emergenza pandemica, in Diritto Pubblico Europeo Rassegna online, fasc. 1/2021, 49 ss.
[12] Per richiamare, ancora una volta, l’evocativa espressione di S. Settis, Architettura e democrazia, op. cit., 5-6, il quale, con la consueta incisività, asserisce che «il paesaggio (…) è da vivere e non solo da vedere; inoltre, esso incarna valori collettivi, e non può essere svilito a mero mosaico di interessi individuali l’un dall’altro slegati e l’un con l’altro in conflitto. Da questo e da altri punti di vista, il paesaggio e il patrimonio storico-artistico e archeologico compongono, anzi, una piena e perfetta unità, le cui parti si illuminano a vicenda, si collegano a un orizzonte di diritti, sono (meglio: possono e devono essere) ingredienti essenziali della democrazia».
[13] Sulla necessaria «parzialità» dell’urbanistica e, dunque, sulla discrezionalità del potere di pianificazione, si veda S. Richter, Diritto urbanistico. Manuale breve, Giuffrè, Milano, 2018, 63 ss.
[14] In merito può tornare utile la lettura di D. Ciaffi – A. Mela, Urbanistica partecipata. Modelli ed esperienze, Carrocci, Roma, 2013, spec. 13-48.
[15] Il quale era fondato su una strettissima logica «bipolare», che vedeva contrapposti da un lato, in posizione di assoluta preminenza, i soggetti istituzionali che amministrano; e, dall’altro, in posizione subordinata, gli amministrati. In tal senso si veda S. Cassese, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, in Riv. trim dir. pubbl., 2001, 601 ss. Per un’ulteriore critica di tale sistema, ancor prima, E. Casetta, Profili dell’evoluzione dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, in Dir. Amm., 1993, 3 ss. Soprattutto, si veda, tra gli autori di una bibliografia che intanto è divenuta incontenibile, F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in Aa.Vv, Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova, 1975, 807 ss.
[16] Sul superamento dei modi tradizionali di operare delle Amministrazioni in ambito urbanistico, si veda M. Sclavi, Avventure urbane. Progettare le città con gli abitanti, Elèuthera, Milano, 2020, 7 ss.
[17] Un ripensamento del tradizionale paradigma pubblico-privato è da tempo auspicato da più parti in dottrina, soprattutto in quella più sensibile alla dimensione sociale di alcuni beni fondamentali. Tra i numerosi studi dedicati all’argomento, si rinvia, almeno, a U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011; A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Roma-Bari, 2013; S. Rodotà, Vivere la democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2017; V. Tondi della Mura, Della sussidiarietà orizzontale (occasionalmente) ritrovata: dalle linee guida dell’ANAC al Codice del Terzo settore, in Rivista AIC, n. 1/2018. Da ultimo, il superamento di tale paradigma è stato poi individuato nel «costituzionalismo dei beni fondamentali», da intendersi come categoria comprensiva dei beni comuni, dei beni personalissimi e dei beni sociali. Cfr., L. Ferrajoli, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2021, 227 ss.
[18] Di simili esperienze, ne dà recentemente conto E. Granata, Biodivercity, op. cit., 129 ss.
[19] Sul punto, non può che rinviarsi alle esaustive ed incisive riflessioni di S. Settis, Architettura e democrazia, op. cit., e F. La Cecla, Contro l’urbanistica, op. cit., i quali, all’esito di argomentazioni che tracciano percorsi diversi ma preordinati ad una rifondazione dei tradizionali paradigmi d’azione dell’urbanistica, giungono, entrambi, ad auspicare una rimodulazione dei tradizionali strumenti politici utilizzati per imporre alla popolazione trasformazioni territoriali riservate esclusivamente alla “competenza” dei detentori del potere pubblico. A tal proposito, imprescindibili sembrano essere altresì le riflessioni di U. Allegretti, voce Democrazia partecipativa, in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 2011.
[20] È questa la conclusione cui giungono tanto F. La Cecla, op. ult cit., 69, quanto E. Granata, Biodivercity, op. cit., 92.
[21] PNRR, p. 213. Il Piano è consultabile al seguente indirizzo: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf.
[22] PNRR, p. 214.
[23] A ricordarlo è ancora S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino, 2019, 123 ss.
[24] Sul rapporto tra Costituzione e responsabilità intergenerazionali, si veda, almeno, R. Bifulco – A. D’Aloia, Le generazioni future come nuovo paradigma del diritto costituzionale, in Id. (a cura di), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, Jovene, Napoli, 2008, XXIII ss.; A. D’Aloia, Generazioni future (diritto costituzionale), in Enc. dir., IX, Milano, 2016, 331 ss.; S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Rivista Quadrimestrale di Diritto dell’Ambiente, n. 3/2017, 10 ss.; A.M. Battisti, Lavoro sostenibile. Imperativo per il futuro, Giappichelli, Torino, 2018, 65 ss.; D. Porena, Il principio di sostenibilità. “Giuridicizzazione” e progressiva espansione nei sistemi giuridici contemporanei e nell’ordinamento costituzionale italiano, in AmbienteDiritto.it, fasc. n. 4/2020, 1 ss.
[25] Per quanto, in realtà, in passato un tentativo di riordino dei principi fondamentali in materia di «governo del territorio» è stato fatto da parte del legislatore. Il provvedimento però (atto del Governo n. 610 del 2005) non ha mai visto la luce.
[26] In argomento, S. Amorosino, Alla ricerca dei principi fondamentali della materia urbanistica tra potestà normative statali e regionali, in Riv. giur. ed., 1/2009, 3 ss.
[27] Sul non facile argomento delle «anomie» e delle «lacune» e, in particolare, sulle problematiche da esse determinate sul piano costituzionale, si veda R.G. Rodio, Alcune riflessioni su anomie, lacune e limiti dell’interpretazione giurisprudenziale, in Rivista AIC, n. 1/2019, 136 ss.
[28] A.M. Nico, La tutela dell’ambiente nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in F. Gabriele – A.M. Nico (a cura di), La tutela multilivello dell’ambiente, op. cit., 168.
[29] La questione trae origine dall’esegesi dell’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge della Regione Puglia n. 14 del 2009, in relazione all’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., nella parte in cui – prima dell’espressa abrogazione disposta dall’art. 1, della legge della Regione Puglia n. 3 del 2021 – rimette(va) ai Comuni, mediante motivata deliberazione del Consiglio comunale, «l’individuazione di ambiti territoriali nonché di immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi del Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con Deliberazione di G.R. n. 176/2015, nei quali consentire, secondo gli indirizzi e le direttive del PPTR, gli interventi di cui agli articoli 3 e 4 della presente legge, purché gli stessi siano realizzati, oltre che alle condizioni previste dalla presente legge, utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi», in deroga al divieto posto dal precedente comma 1, lett. f), del medesimo articolo 6.
[30] Con particolare riferimento ad alcune delle problematiche che qui ci occupano, si veda, in merito, A. Mitrotti, Il riparto di competenze in materia di beni culturali alla luce del felice coniugio tra reddittività del patrimonio culturale e diritto di accesso ai beni culturali, in Rivista AIC, n. 4/2018, spec. 9 ss.
[31] Cfr. A. Colavecchio, La potestà legislativa regionale in materia urbanistica, oggi (ad oltre dieci anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione), in Scritti in onore di Stella Richter, op. cit., vol. III, 1341 ss.
[32] Rilevate, ancor prima della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, da G. Morbidelli, Il regime amministrativo speciale dell’ambiente, in Aa.Vv., Scritti in onore di Alberto Predieri, Giuffrè, Milano, 1996, 1121 ss.
[33] Si tratta di «materie non materie», nella perspicua definizione di A. D’atena, Diritto regionale, Giappichelli, Torino, 2013, II ed., 163. «Materie non materie», sostiene l’Autore, «le quali identificano competenze legislative dello Stato costruite in termini finalistici: in funzione, cioè, del fine e non dell’ambito di incidenza», e che, pertanto, «si presentano come competenze senza oggetto, chiamate a definire se stesse (o, più esattamente il rispettivo ambito di incidenza), mediante il proprio esercizio».
[34] Sul punto la dottrina non sembra esitare. Si veda, tra gli altri, S. Amorosino, Il “governo del territorio” tra Stato e Regioni ed enti locali, in Riv. giur. ed., n. 3/2003, 77 ss.; e M.A. Sandulli, Effettività e semplificazioni nel governo del territorio: spunti problematici, in Dir. Amm., 3/2003, 513-514.
[35] Tra i commentatori c’è, invero, chi sostiene che la tutela del paesaggio rientri nella competenza esclusiva residuale delle regioni. Si veda, ad esempio, S. Civitarese Matteucci, Ambiente e paesaggio nel nuovo titolo V della Costituzione, in Aedon, Rivista di arti e diritto on line, n. 1/2012.
[36] Specie a partire da Corte cost., sent. n. 151 del 1986. Esattamente vent’anni dopo, si veda, in modo ancora più univoco, Corte cost., sent. n. 182 del 2006. Del resto, anche se si osserva l’andamento del contenzioso in via principale, si scopre che molte delle questioni di legittimità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri hanno ad oggetto leggi regionali in materia di edilizia e urbanistica e sulla tutela del paesaggio. Cfr. A. Pertici, Il confronto politico nel giudizio sulle leggi in via d’azione, in G. Campanelli – F. Dal Canto – E. Malfatti – S. Panizza – P. Passaglia – A. Pertici (a cura di), Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti. Scritti degli allievi di Roberto Romboli, Giappichelli, Torino, 2010, 76.
[37] Secondo il giudice delle leggi, l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., e, dunque, le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, si pongono quale limite alla competenza legislativa regionale, anche se a Statuto speciale. Cfr. Corte cost., sent. n. 178 del 2018, Considerato in diritto 2.1, in riferimento alla Regione Sardegna. In merito all’«autonomia» di quest’ultima regione, si veda, da ultimo, A. Deffenu, Introduzione. Gli usi civici in Sardegna: un laboratorio per ripensare l’autonomia regionale, in Id. (a cura di), Giappichelli, Torino, 2021, XXI ss.
[38] Per una recente ricostruzione, si veda A. Iacoviello, La competenza legislativa regionale in materia di governo del territorio tra esigenze unitarie e istanze di differenziazione, op. cit., 360 ss.
[39] Si veda M. Asaro, La supremazia della pianificazione paesaggistica. (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, sentenza n. 2640), in AmbienteDiritto.it, fasc. n. 3/2021, 12 ss.
[40] Corte cost., sent. n. 74 del 2021, Considerato in diritto 3.2.2.
[41] Utili, in argomento, le annotazioni di G. Pagliari, La materia “governo del territorio” nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. giur. urb., 3-4/2014, numero speciale Uso e trasformazione del territorio. Dal Testo unico dell’edilizia al decreto “Sblocca Italia”, 317 ss.
[42] Operazione, questa, ormai da tempo legittimata dal giudice delle leggi. Si veda, ex plurimis, Corte cost., sent. n. 282 del 2002.
[43] Di qui la condivisibilità del ragionamento del supremo Consesso amministrativo, lì dove risolve l’antinomia tra le varie fonti regolanti la materia pianificatoria dando prevalenza al «criterio gerarchico» su quello «cronologico». Cfr. Cons. St., Sez. IV, 29 marzo 2021, sentenza n. 2640.
[44] Esigenza, questa, avvertita dalla dottrina anche in riferimento al diritto ambientale. Si veda S. Grassi, Ambiente e Costituzione, op. cit., 28 ss., secondo cui piuttosto che «introdurre il “diritto all’ambiente” in Costituzione», andrebbe «elaborata una legge (organica) sui principi per la tutela dell’ambiente».
[45] Del resto, come dicono i regionalisti, soltanto la legge dello Stato, definendo i «principi», assicura l’«unitarietà». Mentre le leggi regionali, attraverso i «dettagli», non possono che – al contrario – generare «differenziazione». In tal senso, M. Carli, Diritto regionale, Giappichelli, Torino, 2018, 101. E, come è stato opportunamente detto a proposito del c.d. «regionalismo differenziato», non bisogna dimenticare che esso «incide sulla forma di Stato e influisce sul punto di equilibrio tra principio di autonomia e principio di solidarietà anche territoriale». A precisarlo è A. Patroni Griffi, Regionalismo differenziato e uso congiunturale delle autonomie, in Diritto Pubblico Europeo Rassegna online, numero speciale 2/2019, 43. Così come, a monte, ad essere ulteriormente indebolito dal regionalismo differenziato potrebbe essere il ruolo riservato al Parlamento, «quale organo centrale nella determinazione dell’indirizzo politico». Così A. Saitta, Audizione resa il 13 giugno 2019 innanzi alla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale sull’attuazione e le prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, in Osservatorio AIC, fasc. 4/2019, 58 ss.
[46] Sul punto, si veda, nuovamente, M.G. Feola, Lineamenti di diritto urbanistico, op. cit., 7 ss.