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Pubbl. Lun, 2 Ago 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

La Corte costituzionale sul termine per l´impugnazione del riconoscimento del figlio

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Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



Il presente contributo analizza la recente sentenza della Corte costituzionale n. 133/2021, con l´intento di tracciare l´iter giurisprudenziale in tema di impugnazione del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio e porre l´accento su taluni punti-chiave. Da tale scenario emerge come i figli nati da genitori non coniugati non siano ancora stati equiparati del tutto a quelli nati nel matrimonio, malgrado l´introduzione dello stato unico di filiazione; parimenti, i genitori non coniugati risultano meno tutelati rispetto a uniti da vincolo matrimoniale.


ENG This paper analyzes the recent ruling on the Constitutional Court n. 133/2021, with the aim of tracing the jurisprudential process in terms of challenging the recognition of children born out of wedlock and emphasizing certain key points. From this scenary it emerges that children born to unmarried parents have not yet been fully equated with those born in marriage, despite the introduction of the single status of filiation; likewise, unmarried parents are less protected than those united by marriage.

Sommario: 1. Il caso di specie; 2. Le motivazioni della Consulta; 3. Cenni sul riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio; 3.1 L’impugnazione del riconoscimento; 3. 2 Il costante confronto con l’azione di disconoscimento della paternità; 4. Favor veritatis o favor minoris?; 5. Il riconoscimento del figlio nel contesto internazionale privato; 6. Il trattamento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio nei Paesi esteri; 7. Osservazioni conclusive.

1. Il caso di specie

La sentenza in commento prende le mosse da un giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, nel corso del quale il Tribunale di Trento solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, co. 3, c.c.[1], come modificato dall’art. 28, co. 1, del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154[2], in riferimento agli artt. 3, 76, 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà (CEDU).

L’art. 263, co. 3, c.c., è reputato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente che, per l’autore del riconoscimento, il termine per avanzare l’azione di impugnazione decorra dalla conoscenza della non paternità. Il giudice a quo comunica che l’annotazione del riconoscimento era avvenuta lo stesso giorno di nascita della bambina e che solo successivamente la madre aveva svelato all’autore di avere avuto una breve relazione con una terza persona. Sebbene tutti i soggetti coinvolti nel giudizio concordassero in ordine alla rimozione dell’atto di riconoscimento della paternità in contrasto con la verità biologica, il giudice rimettente rileva la decorrenza dei termini prescritti dall’art. 263, co. 3, c.c., sia per l’autore del riconoscimento, sia per la madre.

Il Tribunale di Trento si sofferma sul contrasto tra la norma codicistica e gli artt. 3 e 76 Cost. Con riguardo al primo, il giudice a quo reputa insussistente qualsiasi “ragionevole motivo per il quale il termine decorra dalla conoscenza della non paternità solo in caso di impotenza”. Egli, altresì, pone in luce l’irragionevole disparità di trattamento tra la disciplina che, ai sensi dell’art. 244, co. 2, c.c., regola i termini per avanzare l’azione di disconoscimento della paternità e la più rigorosa normativa prevista dal comma censurato per l’impugnazione del riconoscimento.

Nell’art. 244 c.c.[3], il termine annuale di decadenza dall’azione decorre dalla prova di una serie di fatti, tra cui la scoperta dell’adulterio della moglie al momento del concepimento; al contrario, l’art. 263, co. 3, c.c., “nulla prevede in relazione alla specifica ipotesi di ignoranza – da parte del padre – della relazione della madre con altri uomini al tempo del concepimento”.

Per quanto concerne l’art. 76 Cost., la disposizione codicistica risulterebbe in contrasto con quest’ultimo per eccesso di delega rispetto all’art. 2, co. 1, della l. 10 dicembre 2012, n. 219[4].

Infine, la disciplina sui termini di cui all’art. 263, co. 3, c.c., contrasterebbe con l’art. 117, co. 1, Cost., relativamente all’art. 8 della CEDU.

Nell’ottica della Corte EDU, l’esigenza di bilanciare, in maniera conforme al principio di proporzionalità, il diritto al rispetto della vita privata e familiare con ulteriori istanze contrapposte verrebbe pregiudicata da regole che in via preventiva limitassero la possibilità di contestare la paternità. In tale contesto, rientra l’ipotesi di attribuzione del mancato rispetto del termine per ragioni ignorate dal soggetto legittimato all’azione. Tale censura coinvolge entrambi i termini stabiliti per l’autore del riconoscimento dall’art. 263, co. 3, c.c.: quello annuale, fatta eccezione per il caso della scoperta dell’impotenza, che decorre dall’annotazione del riconoscimento, e quello quinquennale, che si computa sempre a partire da tale momento. 

2. Le motivazioni della Consulta

Una volta dopo aver ricostruito il quadro dei fatti, la Corte sottolinea lo spirito innovativo del d.lgs. n. 154/2013, mirante ad “eliminare ogni discriminazione tra i figli […] nel rispetto dell’articolo 30 della Costituzione”. Come evidenziato dalla stessa Corte, la modifica dell’art. 263 c.c. è stata accompagnata da incisivi interventi giurisprudenziali, finalizzati a concedere spazio al bilanciamento in concreto degli interessi in gioco, conferito alla valutazione giudiziale.

Nella sentenza n. 272/2017[5], avente ad oggetto la pratica della gestazione per altri, la Corte riconosce al giudice il potere di valutare se “l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore”, se l’azione di cui all’art. 263 “sia davvero idonea a realizzarlo”, e se “l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità”.

Nella più recente pronuncia n. 127/2020[6], incentrata sulla dubbia legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c. nella parte in cui esso ammette tra i legittimati ad impugnare il riconoscimento anche il padre che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza che il figlio non sia biologicamente suo, il Giudice delle Leggi statuisce che “l’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto […].

Entrando nel merito della decisione di interesse, la Consulta esclude una violazione dell’art. 76 Cost. In tale senso, essa segnala come la già citata legge delega n. 219/2012 “abbia eliminato ogni discriminazione tra figli, anche adottivi”, provvedendo a sostituire i riferimenti ai “figli legittimi” e “figli naturali” [7] con il solo richiamo ai “figli”. Con riguardo all’impugnazione del riconoscimento, la legge delega ha modificato positivamente la disciplina con “la limitazione dell’imprescrittibilità dell’azione solo per il figlio e con l’introduzione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione da parte degli altri legittimati”.

È necessario chiarire che al legislatore delegato non fosse prelusa la possibilità di mantenere separate azioni demolitorie dello status filiationis, purché non recasse alcun pregiudizio al figlio nato al di fuori del matrimonio.

Al contempo, la Consulta confessa che, in tema di eccesso di delega, è ormai costante l’approccio in virtù del quale “la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo”[8].

La Corte ritiene utile ricostruire l’iter evolutivo da cui è scaturita la norma che fa decorrere, per l’autore del riconoscimento, il dies a quo del termine annuale dalla scoperta dell’impotenza al tempo del concepimento.

Tale normativa discende da una traslazione meramente parziale, nel contesto del riconoscimento del figlio da genitori non coniugati, dalle regole prescritte per il disconoscimento della paternità del figlio nato fuori dal matrimonio.

In materia di disconoscimento della paternità, l’art. 235, c.c., successivamente abrogato, richiedeva al padre coniugato di dimostrare una serie di fatti idonei a superare l’allora presunzione di concepimento, ossia la non coabitazione in quel periodo, la dissimulazione della gravidanza o della nascita, l’impotenza e l’adulterio. La Corte dichiarava costituzionalmente illegittimo l’art. 244 c.c. nella parte in cui, regolando il termine di decadenza annuale, aveva omesso di considerare che esso potesse decorrere anche dalla scoperta dell’adulterio[9] e dalla conoscenza dell’impotenza[10].

Una volta dopo avere conformato la disciplina dei termini alle prove allora imposte dall’art. 235 c.c., la Consulta[11] dichiarava l’illegittimità costituzionale di tale norma nella parte in cui, ai fini dell’azione, subordinava l’esame delle prove tecniche sulla non paternità alla previa dimostrazione dell’adulterio.

Il d.lgs. n. 154/2013 ha abrogato l’art. 235 c.c., sostituito dall’art. 243-bis, per il quale “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre”.

Alla luce di ciò, emerge come sull’art. 263, co. 3, c.c., abbia preso a modello le regole dettate dall’art. 244 c.c.

La Corte costituzionale inaspettatamente ritiene fondate le questioni sollevate dal giudice a quo. Essa prende atto dell’irragionevole disparità di trattamento tra autori del riconoscimento, che possano provare l’impotenza, e autori del riconoscimento non colpiti da essa, che siano ugualmente venuti a conoscenza della non veridicità della paternità biologica, nel momento in cui sia decorso il termine annuale calcolato a partire dall’annotazione del riconoscimento.

Quanto appena denunciato, altresì, si pone in contrasto con la stessa volontà della Corte, per la quale è irragionevole far decorrere il termine annuale di decadenza dall’azione tesa ad impugnare lo status filiationis, laddove il padre ignorasse i fatti oggetto della prova. 

È palese – ad avviso della Corte costituzionale – l’irragionevole disparità di trattamento tra le regole riservate al padre intenzionato a far valere la verità biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle dettate per il padre diretto ad ottenere il disconoscimento di paternità. Il padre non unito in matrimonio, infatti, può comprovare solo l’impotenza, affinché possa decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso rispetto all’annotazione del riconoscimento; il padre coniugato, invece, può ricorrere ad ulteriori prove, sottraendosi così al dies a quo che, in caso contrario, decorre dalla nascita.

Infine, la Corte costituzionale nega il contrasto tra la disciplina sui termini di cui all’art. 263 c.c. e l’art. 117, co. 1, Cost., in rapporto all’art. 8 CEDU. Sebbene la giurisprudenza europea in casi precedenti[12] abbia escluso un bilanciamento proporzionato tra discipline volte a far decorrere un termine di decadenza per l’impugnazione dello stato di filiazione dal momento costitutivo dello stesso, la fattispecie oggetto del giudizio sottoposto al Giudice delle Leggi si riferisce ad un termine più lungo (quinquennale). In concreto, l’interesse dello status filiationis sacrifica l’interesse dell’autore del riconoscimento a far valere in via giudiziaria l’identità biologica.

3. Cenni sul riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio

In mancanza di vincolo matrimoniale, l’accertamento dello stato di filiazione è condizionato al riconoscimento dei genitori: tale atto può essere compiuto dal padre e dalla madre congiuntamente o separatamente.

La legge n. 219/2012 ha provveduto ad apportare rilevanti modifiche in tema di riconoscimento, a partire dalla denominazione di tale istituto, attualmente etichettato come “riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio”. 

Tale mutamento nominale riprende il principio sancito dall’art. 315 c.c., dal quale ne deriva che lo stato di “figlio nato fuori dal matrimonio” non può più essere inteso come distinto rispetto a quello di “figlio nato nel matrimonio”, ponendosi soltanto da formula descrittiva idonea a conformare le modalità di accertamento della filiazione alla prospettiva in cui avviene la nascita[13].

Oltre al profilo nominale, muta la natura sostanziale del riconoscimento, il quale è volto all’accertamento dell’unico stato di figlio, e non all’accertamento pubblico di un determinato status giuridico di filiazione, quello di “figlio nato fuori dal matrimonio”.

Con particolare riguardo all’art. 250 c.c., la riforma del 2012 non ha apportato sostanziali cambiamenti. Il fatto che il riconoscimento possa essere eseguito dal padre e dalla madre, congiuntamente o separatamente, pone in evidenza la natura volontaria dell’atto.

La scelta di legislatore italiano di escludere un accertamento automatico della filiazione sembra voler andare incontro alla figura materna, tutelando così il suo diritto a restare anonima. È opportuno segnalare che, al contrario di taluni ordinamenti europei accoglienti il brocardo latino mater semper certa est, quello italiano ha concesso alla madre la possibilità di non essere nominata all’atto di nascita[14]. Un punto cruciale attiene alla natura giuridica del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, tale da dividere la dottrina in più blocchi. Una corrente di pensiero propugna la tesi della natura negoziale dell’istituto, ritenendo configurabile il negozio giuridico tutte le volte in cui il soggetto non miri all’atto in sé, ma ad uno scopo estraneo all’atto stesso[15]. Altra parte della dottrina[16] reputa l’atto di riconoscimento come una dichiarazione di scienza; a tale teoria, si contesta il fatto di non essere in grado né di spiegare il carattere della dichiarazione, né di chiarire il motivo in virtù del quale la legge consente l’impugnativa per violenza o incapacità a seguito di interdizione[17].

Una posizione condivisa dalla giurisprudenza precedente la riforma del 2012, secondo la quale “il riconoscimento di un figlio come naturale integra non un atto di autonomia privata del genitore, bensì una dichiarazione di scienza, che è rivolta ad esprimere tale rapporto di discendenza, fondandosi sul fatto della procreazione”[18].

Un’ulteriore accreditata parte della dottrina[19] inquadra il riconoscimento tra i negozi di accertamento: con esso, il genitore si avvale del potere di conferire certezza giuridica all’evento della procreazione e al rapporto di filiazione.

Infine, vi è chi considera il riconoscimento come un atto di potere familiare attributivo dello stato di figlio naturale[20].

3.1 L’impugnazione del riconoscimento

Prima del recente intervento legislativo, l’impugnazione del riconoscimento, accordata a chiunque ne avesse interesse, era imprescrittibile. In una vicenda datata, la giurisprudenza costituzionale aveva ritenuto infondata la questione di legittimità dell’art. 263 c.c. per violazione dell’art. 3 Cost., sollevata sulla base del fatto che “mentre l’azione per l’impugnazione della veridicità del riconosci-mento del figlio naturale è imprescrittibile, invece l’azione di disconoscimento del figlio legittimo deve essere proposta entro i termini di decadenza”, data la mancata analogia tra la posizione del figlio legittimo “il cui status può essere contestato dal padre entro termini di decadenza stante la presunzione di paternità” e quella del figlio riconosciuto “il cui status è tutelato solo in considerazione della veridicità della filiazione”[21].

Negli ultimi anni, la giurisprudenza di merito è giunta a negare l’impugnativa a colui che aveva effettuato il riconoscimento in mala fede, equiparando tale azione ad una revoca, sostenendo che il figlio riconosciuto da diverso tempo era giustificato nel non assoggettarsi all’esame del d.n.a., laddove la richiesta provenisse da un parente del padre naturale deceduto, e dunque, per ragioni ereditarie[22].

Al fine di prevenire tali situazioni, si è avvertita la forte esigenza di modificare la disciplina dell’impugnazione del riconoscimento, limitando l’azione al solo figlio ed introducendo un termine di decadenza per l’esercizio della stessa da parte degli altri legittimati.

La riforma del 2012 “pecca” – a giudizio di chi scrive – nel trascurare l’ipotesi di scoperta tardiva da parte di colui ha effettuato il riconoscimento di rapporti sessuali intrattenuti all’epoca del concepimento dalla madre con terzi.

Un altro difetto consiste nella mancata citazione degli altri legittimati, i quali non necessariamente devono coincidere con quelli attualmente riportati dal Codice civile[23].

È opportuno segnalare che il riconoscimento non veridico, se avvenuto nella consapevolezza della sua falsità, delinea la fattispecie dell’alterazione di stato di cui all’art. 576 c.p. A tale proposito, l’introduzione di un vincolo temporale all’impugnazione del falso riconoscimento (cinque anni), potrebbe dare luogo ad una situazione particolare: il soggetto manterrebbe lo status di genitore, allo stesso tempo sarebbe perseguibile e condannabile per il reato commesso. In dottrina, è stato correttamente osservato che il soggetto potrebbe non solo mantenere la veste legale di genitore, ma potrebbe anche non decadere dalla responsabilità genitoriale[24].  

Appare imprecisa e superflua – ad avviso di chi scrive – la previsione secondo la quale “la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l'impotenza del presunto padre”. Essa sembra riferirsi all’impugnazione del riconoscimento paterno da parte della madre; tuttavia, tale figura rientra tra i soggetti legittimati ad impugnarlo nel termine di cinque anni.

Infine, sul piano transitorio, l’art. 104, co. 10, del d.lgs. n. 154/2013 prevede che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, nel caso di riconoscimento del figlio annotato sull’atto di nascita prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo, i termini per proporre l’azione di impugnazione, previsti dall’articolo 263 e dai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 267 del codice civile, decorrono dal giorno dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo”.

3. 2 Il costante confronto con l’azione di disconoscimento della paternità

Al pari dell’impugnazione del riconoscimento, anche il disconoscimento della paternità è stato oggetto di importanti modifiche da parte della riforma sulla filiazione. Il d.lgs. n. 154/2013 ha abrogato l’art. 235 c.c., relativo ai presupposti dell’azione, e racchiuso tutta la disciplina negli artt. 243-bis e 244 c.c.

Fino alla riforma del 2012, sull’attore incombeva l’onore di dimostrare una delle circostanze tassativamente riportate dalla legge: mancata coabitazione dei coniugi nel periodo del concepimento; impotenza o infertilità del marito in tale periodo, incompatibilità genetica tra il figlio ed il presunto padre.

Allo stato attuale, la prova è libera, purché l’attore dimostri che “non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio ed il presunto padre”. Sotto tale profilo, si ravvisa la prima rilevante differenza tra l’impugnazione del riconoscimento e l’azione di disconoscimento della paternità. Il riconoscimento, infatti, è impugnabile per tre cause: difetto di veridicità, incapacità dell’autore e violenza morale.

L’azione di disconoscimento diventa imprescrittibile ove proposta dal figlio; nell’impugnazione del riconoscimento è introdotto un termine di decadenza per tutti i legittimati diversi dal figlio. Nella prima il termine di decadenza è semestrale o annuale; nella seconda è annuale o quinquennale, a seconda dei casi. Come marcato in dottrina[25], tra il disconoscimento e l’impugnazione del riconoscimento vi è una differenza ancora più sottile: la legittimazione attiva dell’individuo che pretende di essere il padre genetico è esclusa nella prima, mentre è ammessa nella seconda. Da ciò ne deriva una grave discriminazione a danno dei figli nati fuori dal matrimonio, ingiustificabile in una legge che proclama l’unicità dello status di figlio[26].

4. Favor veritatis o favor minoris?

Nella sentenza n. 272/2017, l’interesse del minore si trasforma da criterio per valutare se proporre l’azione di stato, o resistere all’azione avanzata da altri, a criterio orientativo della decisione per risolvere il conflitto tra i contrapposti interessi pubblici e privati e il conseguente accoglimento o rigetto delle azioni di stato. I giudici costituzionali, infatti, si domandano se “l’interesse a far valere la prevalga sull’interesse del minore”.

È ormai consolidata la tesi secondo cui l’interesse del minore non coincide con l’accertamento della verità biologica: egli potrebbe manifestare interesse alla conservazione dello status anche se non veritiero[27]

È interessante notare che, nel corso del tempo, si è radicato un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la competenza a decidere sulla sussistenza e persistenza dell’interesse del minore ad agire compete anche al giudice che deve risolvere la controversia e non soltanto al giudice tenuto a nominare il curatore[28]. Tale visione risulta non conforme con il modello del codice di rito: la valutazione originaria della sussistenza dell’interesse del minore all’azione spetta al giudice della volontaria giurisdizione, unica sede in cui deve essere eventualmente contestata.

Appare opportuno interrogarsi in presenza di quali elementi il giudice possa ritenere sussistente l’interesse del minore.

A livello procedimentale, la dottrina prevalente riconosce specifica rilevanza all’ascolto del minore, in modo tale da appurare in concreto il suo interesse[29]. A livello contenutistico, emerge il dubbio se l’interesse del minore prevalga sulla verità genetica solo laddove dall’accoglimento dell’azione ne scaturisca un grave pregiudizio per il minore, ovvero tutte le volte in cui quest’ultimo si troverebbe in una condizione sfavorevole. Tra le opzioni sopracitate prevale la prima, alla quale si fa ricorso nell’affidamento esclusivo e per la limitazione dell’esercizio della responsabilità.

I tratti caratteristici delle azioni di stato mettono in discussione la prevalenza dell’interesse del minore ove l’attore sia portatore di interessi contrapposti a quelli del primo[30]. Vi sono casi in cui gli interessi dell’attore recedono rispetto agli interessi del minore: si pensi, al riconoscimento di quest’ultimo da parte di un soggetto cosciente del difetto di veridicità della filiazione. Al contrario, vi sono situazioni in cui gli interessi dell’attore appaiono meritevoli di tutela: si pensi, al genitore che scopre l’assenza del rapporto biologico e si attiva per contestare giudizialmente lo status filiale. Laddove ad agire in giudizio sia un terzo, di solito beneficiario di lasciti successori, assume incidenza la posizione della persona che fino a tale momento ha rivestito la carica di genitore, poiché risulta determinante sapere se questi desideri comunque mantenere il legame – o nell’ipotesi di decesso – l’avrebbe proseguito ove fosse stato consapevole dell’inesistenza del rapporto filiale. In mancanza di elementi a sostegno della decisione del genitore di continuare il rapporto, l’interesse della controparte, se meritevole di protezione, dovrebbe sorpassare l’interesse del minore.

È doveroso, invece, percorrere una strada diversa in difetto di bilanciamento legislativo tra l’interesse del minore e la ricerca della verità: in tale eventualità, il giudice è tenuto ad attuare una valutazione in concreto che tenga conto della situazione in cui verrebbe a trovarsi il minore in caso di successo dell’azione proposta dalla controparte.

In talune disposizioni di diritto interno (artt. 250, co. 2, 251 c.c.) emerge come l’interesse del minore sia un principio generale che penetri le azioni di stato.

Tale rilievo affiora anche in determinate previsioni sovranazionali (art. 24, co. 2[31], Carta dei diritti fondamentali dell’UE; art. 3, co. 1[32], Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989; art. 6[33] Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 1996).

In virtù del preminente interesse del minore, il giudice tende a conservare lo status di figlio, pur mancando il legame genetico con un genitore.

Il suddetto approccio è conforme al sistema della filiazione, ai principi ed ai valori che permeano: a parte la verità, anche l’assunzione della responsabilità, la rilevanza del legame affettivo, l’identità personale e la ragionevolezza (art. 3 Cost.). In caso di conflitto tra taluni di essi, appare opportuno procedere al bilanciamento[34]. Una parte della dottrina[35] sottolinea come il giurista debba sapere “catturare” i mutamenti del diritto, dal momento che essi influenzano l’interpretazione delle norme di legge, le quali assumono un senso ulteriore rispetto a quello letterale.

Dalle modifiche introdotte di recente è possibile cogliere due aspetti di rilievo: il rapporto di filiazione non biologico che si prolunga nel tempo è meritevole di tutela, tanto da giustificare la conservazione dello status di figlio; il diritto del genitore biologico di affermare la verità recede di fronte all’interesse del minore a non perdere il proprio stato.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 272/2017, giustifica il mantenimento dello status di figlio nei confronti della madre non biologica facendo leva sulla legge n. 173/2015, la quale valorizza, in materia di adozione, i “legami affettivi significativi e il rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria”. A supporto del principio di conservazione, la Corte evoca le note pronunce della Corte EDU, le quali riconducono agli artt. 8 e 14 della CEDU la garanzia del migliore interesse del minore. Occorre chiarire che, ai fini della conservazione dello status di figlio, è decisiva l’estensione dell’interpretazione dell’espressione “vita familiare”[36] associata all’interesse. Quest’ultima, infatti, non coinvolge soltanto il coniugio e la parentela, ma anche il legame solido e duraturo tra il genitore non biologico ed il minore. 

È opportuno segnalare il consolidamento giurisprudenziale della relatività del “principio di biologicità”, il quale ha favorito la conservazione dello stato di figlio, non ravvisando una linea rigorosa che imponga la formazione di una famiglia con prole legata biologicamente ai genitori. In definitiva, ove lo stato di figlio sia sorto in un altro Stato, tramite una tecnica riproduttiva contestata in Italia, è necessario riporre attenzione al legame tra le parti implicate.

5. Il riconoscimento del figlio nel contesto internazionale privato

L’art. 35 della legge 218/1995 stabilisce che le condizioni per il riconoscimento del figlio sono regolate dalla legge nazionale del minore al momento della nascita o, se più favorevole, dalla legge nazionale della persona che realizza il riconoscimento, nel momento in cui ciò si verifica; la previsione prosegue specificando che “se tali leggi non prevedono il riconoscimento si applica la legge italiana”[37]. Sotto tale profilo, sembra che il legislatore intenda fare riferimento a tutti quei casi in cui l’ordinamento interessato non consenta di procedere al riconoscimento del figlio, ossia alla dichiarazione unilaterale di volontà del genitore volta ad affermare la sussistenza del proprio legame con il figlio. 

In particolare, la suddetta disposizione trova margine negli ordinamenti che non concedono il riconoscimento di un rapporto di filiazione siccome “nato fuori dal matrimonio”.

Alla luce di ciò, la giurisprudenza italiana, in taluni casi, non ha applicato la legge straniera ostativa al riconoscimento del figlio nato da genitori non uniti in matrimonio. A tale proposito, si segnala una decisione della Cassazione[38], nella quale risulta implicato un padre, di nazionalità egiziana, impossibilitato al riconoscimento della figlia nata da una relazione con una donna peruviana, in virtù della propria legge nazionale. La Corte, invocando un suo precedente, sostiene che il diritto di riconoscere il figlio naturale minore, già riconosciuto dalla controparte, costituisce un diritto soggettivo primario, garantito dall’art. 30 Cost. Nell’ottica della Cassazione, la previsione egiziana, che non riconosce la categoria dei figli naturali, contrasta nettamente con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano.

Si presenta complesso il caso in cui il riconoscimento è previsto, come istituto, nell’ordinamento straniero, ma a condizioni ben più rigide di quelle stabilite nell’ordinamento italiano. Come osservato in dottrina[39], si potrebbe alludere all’ipotesi in cui il riconoscimento sia ostacolato dalla mancanza del consenso dell’altro genitore, non ammettendo l’ordinamento straniero la possibilità di un’autorizzazione sostitutiva del consenso dell’altro genitore, nell’interesse del figlio. Da una lettura scrupolosa dell’art. 35 e delle altre norme correlate si esclude l’applicazione immediata della legge italiana, riservando al giudice la valutazione delle specifiche circostanze. 

L’intento del legislatore di promuovere l’attribuzione al figlio naturale di uno status familiae emerge palesemente nella parte dedicata alle condizioni per il riconoscimento del figlio (“o se più favorevole”).

A livello strutturale, la norma subisce lievi modifiche: è abrogato l’aggettivo “naturale”; tuttavia, al contrario dell’ambito civilistico (art. 250 ss. c.c.), non è adottata l’espressione “figlio nato fuori dal matrimonio”. L’obiettivo perseguito dal legislatore è, infatti, un altro: adeguare l’art. 35 alla nuova formulazione dell’art. 33 che disciplina lo stato di figlio[40].

È opportuno segnalare come l’art. 35 si limiti a definire il riconoscimento del figlio naturale, nulla prevedendo in merito alla relativa contestazione.

In nome del favor filiationis, si potrebbe ritenere necessaria la fondatezza della contestazione alla luce di entrambe le leggi, ma è preferibile[41] rifarsi alla stessa legge sulla base della quale è stato in concreto effettuato il riconoscimento.

6. Il trattamento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio nei Paesi esteri

Dalla sentenza n. 133/2021 affiora come i figli nati fuori dal matrimonio siano ancora pregiudicati e non allineati ai figli c.d. legittimi.

È occasione opportuna per comprendere se ciò valga solo a livello territoriale o invece interessi il contesto sovranazionale. Innanzitutto, occorre segnalare che la Commission on european family law[42] ha formulato i Principles del diritto di famiglia europeo, orientati al principio di unicità dello stato di figlio.

La maggior parte degli Stati europei è stata interessata da riforme sostanziali, in ragione dell’evoluzione sociale e culturale dell’istituto familiare: il modello tradizionale della “società naturale” è stato superato in virtù dell’incremento delle separazioni e dei divorzi, del consolidamento delle famiglie c.d. di fatto, sia eterosessuali sia omossessuali e della comparsa sulla scena giuridica delle famiglie c.d. ricostituite, generate dal fallimento di un precedente rapporto.

In Francia, la materia della filiazione è stata revisionata[43] dalla Ordonnance n. 2500-759 del 4 luglio 2005. Quest’ultima ha abolito la distinzione tra filiazione legittima e filiazione naturale, unificando in un titolo rubricato “De la filation” la normativa sulla filiazione. A fronte del crescente numero dei figli nati fuori dal matrimonio, essa ha introdotto lo status unico di figlio, abrogato l’istituto della legittimazione per successivo matrimonio, e soprattutto, uniformato la disciplina del riconoscimento. Infine, il legislatore francese ha esteso i termini per tutte le azioni in materia di filiazione e per tutti i legittimati a dieci anni.

In Germania, l’iter di parificazione tra figli legittimi e naturali, iniziato con la legge federale del 19 agosto 1969 sulla condizione giuridica dei figli nati fuori dal matrimonio (Gesetzüber die rechtliche Stellung der nichtehelichen Kinder)[44], ha trovato definitiva attuazione con la successiva legge di riforma del diritto di filiazione del 16 dicembre 1997 (Kindschaftsrechtsreformgesetz)[45]. Quest’ultima, modificando per intero il Titolo II del Libro IV, ha introdotto lo status unico di figlio. Il sistema instaurato nell’ordinamento tedesco, entrato in vigore nel 1998, privilegia da una parte la verità biologica su quella costituitasi in base al mero fatto dell’esistenza del matrimonio tra la madre ed il presunto padre, dall’altra l’interesse del figlio a non rimanere privo di status per l’inoperatività delle presunzioni[46].

Emblematico è lo scenario inglese, dove l’equiparazione tra i due status di figli non è avvenuta esplicitamente, in quanto permane la storica distinzione tra figlio legittimo e naturale. In origine, al figlio illegittimo (c.d. nullius) non era riconosciuto alcun rapporto giuridico con entrambe le parti; essi non avevano diritto al mantenimento, non potevano vantare pretese ereditarie, e sul piano sociale, erano considerati reietti. In seguito ad una prima ondata di riforme[47], il Family Law Reform Act del 1987, intento ad ottenere una piena parificazione tra figli legittimi e naturali, soppresse il termine “illegittimate”, attribuendo a quest’ultimi la possibilità di ereditare anche dai parenti.

Tuttavia, essa non si interessò di abrogare l’espressione “filiazione naturale”, mantenendo dunque la contrapposizione con la filiazione legittima. Allo stato attuale, non sussiste un istituto corrispondente al riconoscimento. Un sottile mutamento si è avuto più di recente con l’Adoption and Children Act (2002), in virtù del quale il padre acquista la “parental responsibility”[48], ove registri congiuntamente con la madre (alla quale è riconosciuta automaticamente) la nascita del figlio. In tale caso, si presume la paternità; viceversa, alla figura paterna è consentito stipulare un “parental responsibility agreement” o conseguire un ordine di responsabilità genitoriale per via giudiziaria (parental responsibility order)[49].

Infine, in Spagna, la “filiación no matrimonial” è stata posta sullo stesso piano di quella “matrimonial” (art. 108 código civil) [50].

In nome dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE – vincolante per i Paesi membri con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – la maggior parte dei legislatori europei hanno adottato iniziative finalizzate ad eliminare ogni discriminazione tra le due categorie di figli, introducendo, in prevalenza, una regolamentazione unitaria del rapporto di filiazione. Tuttavia, si esclude l’armonizzazione del diritto europeo della famiglia, data la diversa sensibilità dei legislatori nazionali e delle sottostanti strutture sociali e culturali[51].

7. Osservazioni conclusive

Alla luce dello scenario delineato, l’intervento della Corte costituzionale, ad avviso di chi scrive, risulta opportuno, così come appaiono ben argomentate le motivazioni.

Oltre alla disparità di trattamento rispetto alla persona a cui è consentito di provare la propria impotenza, desta particolare preoccupazione il mancato allineamento tra la posizione del genitore coniugato e quello non unito in matrimonio.

Tale circostanza deve indurre a riflettere sulla necessità di conformare la figura del genitore ai mutamenti sociali, nonché di ripensare la “genitorialità”.

Nella sentenza in commento, la Corte costituzionale pone in risalto un aspetto peculiare: l’insufficiente protezione giuridica riservata al genitore non unito in matrimonio.  

Nel corso degli anni, la dottrina, più volte, ha sottolineato come la riforma del 2012 non abbia concesso una valida soluzione a tutti i problemi (specialmente di carattere processuale)[52], limitandosi ad abrogare la superata distinzione tra figli legittimi e figli naturali.

Per tale motivo, il termine “figlio” non tollera più “specificazioni, qualificazioni ed attribuzioni di sorta”[53].

Una considerazione che vale – a parere di chi scrive – anche per il genitore: si avverte, infatti, la necessità di prestare particolare considerazione al rapporto affettivo genitore-figlio, più che soffermarsi sulle esigenze del singolo componente.

Si tratta di una condizione imprescindibile: la mancata realizzazione di essa preclude il superamento di qualunque disparità di trattamento all’interno del contesto familiare.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Ai sensi dell’art. 263, co. 3, c.c.: “L'azione di impugnazione da parte dell'autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Se l'autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza […]”.

[2] “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”.

[3] Ai sensi dell’art. 244, co. 2, c.c.: “Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l'adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza”.

[4] “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”.

[5] Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272. Si veda, F. ANGELINI, Bilanciare insieme verità di parto e interesse del minore la Corte costituzionale in materia di maternità surrogata mostra al giudice come non buttare il bambino con l’acqua sporca, in Costituzionalismo.it, n. 1, 2018; G. MATUCCI, La dissoluzione del paradigma della verità della filiazione innanzi all’interesse concreto del minore (Nota a sent. Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272), in Forum di Quaderni Costituzionali, 2018; G. BARCELLONA, La Corte e il peccato originale: quando le colpe dei padri ricadono sui figli. Brevi note a margine di Corte cost. 272 del 2017, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2018.

[6] Corte cost., 25 giugno 2020, n. 127. Si veda, A. CANDIDO, Favor veritatis o favor minoris? L’impugnazione del riconoscimento scientemente non veritiero in una recente pronuncia della Corte costituzionale, in Osservatorio costituzionale, n. 6, 2020; E. FRONTONI, Interesse del minore e poteri del giudice anche in caso di “riconoscimento di compiacenza”, in Nomos-Le attualità del diritto, n. 2, 2020. 

[7] Sul tema, si veda L. LENTI, Lo stato di figlio: l'eguaglianza dei figli nati nel matrimonio e fuori dal matrimonio, in Minori giustizia, n. 2, 2014, 20-34.

[8] Si veda, in tale senso, Corte cost., 24 settembre 2015, n. 194; Corte cost., 23 giugno 2014, 182; Corte cost., 14 marzo 2014, n. 50 (su tale sentenza, si veda E. ANDREOLI, Una recente sentenza della Corte in materia di delega legislativa, tra elasticità e resistenza del modello costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2014); Corte cost., 22 novembre 2018, n. 212 (per un commento, si veda A. LORENZETTI, La Corte costituzionale decide sul cognome comune delle persone unite civilmente: legittima la disciplina transitoria che intende il cognome comune come mero nome d’uso, in Diritti Comparati, 2018).

[9] Corte cost., 6 maggio 1985, n. 134.

[10] Corte cost., 14 maggio 1999, n. 170.

[11] Corte cost., 6 luglio 2006, n. 266.

[12] Si veda, in tale senso, Corte EDU, 10 gennaio 2007, Paulìk contro Slovacchia; Corte EDU, 24 febbraio 2006, Shofman contro Russia; Corte EDU, 10 settembre 2018 Doktorov contro Bulgaria.

[13] Così, S. TROIANO, Le innovazioni alla disciplina del riconoscimento del figlio naturale (art. 250 c.c., come modificato dall'art. 1, comma 2°, l. n. 219/12), in Le nuove leggi civili commentate, M. C. BIANCA (a cura di), n. 3, 2013, 451 e ss.

[14] Ai sensi dell’art. 30, co. 1, del d.p.r. n. 296/2000: “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della madre di non essere nominata”.

[15] F. D. BUSNELLI, La disciplina dei vizi del volere nella confessione e nel riconoscimento dei figli naturali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, II, 1235 ss.

[16] C. FURNO, Osservazioni in tema di riconoscimento della prole naturale, in Riv. dir. proc., 1939, II, 38.

[17] In tale senso, si veda D. BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, I, Torino, 1950.

[18] Cass. civ., 20 novembre 2003, n. 17627.

[19] Così, M. C. Bianca, La famiglia, Milano, 2005, 353.

[20] A. CICU, Il diritto di famiglia. Teoria generale, Roma, 1914, 228 ss.; ID., La filiazione. Corso di diritto civile, Milano, 1926-1927, 183.

[21] Corte cost., 18 aprile 1991, n. 158.

[22] Trib. Roma 17 ottobre 2012.

[23] Come osservato da G. FERRANDO, La legge sulla filiazione. Profili sostanziali, in Jus Civile, n. 3, 2013, 147.

[24] Così, S. ALBANO, Omogeneità sostanziale dell’azione di disconoscimento della paternità e dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, in Filiazione. Commento al decreto attuativo, a cura di M. BIANCA, Milano, 2014, 58.

[25] Così, L. LENTI, J. LONG, Diritto di famiglia e servizi sociali, Torino, 2014, 217.

[26] L. LENTI, Matrimonio e stato dei figli, in Genitori e figli: quali riforme per le nuove famiglie, a cura di G. LAURINI, G. FERRANDO, Assago, 2013, osserva che “fondare l’attribuzione di diritto della paternità sulla convivenza invece che sul matrimonio permetterebbe di disinnescare qualche controversia sulla paternità”.

[27] In tale senso, si veda E. QUADRI, Accertamento della filiazione e interesse del minore, in Famiglia e diritto, 2003, 95.

[28] Cass., 3 aprile 2017, n. 8617; Cass., 22 dicembre 2016, n. 26767.

[29] G. CORAPI, La tutela dell’interesse superiore del minore, in Diritto delle successioni e della famiglia, n. 3, 797. Per un approfondimento sul diritto all’ascolto, si veda V. MALFA, L’ascolto del minore alla luce della legge n. 219/2012, in Iura & Legal Systems, n. 2, 2015, p. 15.

[30] Come avallato da U. SALANITRO, Azioni di stato, interesse del minore e ricerca della verità, in Familia, 2019, 528-531.

[31] Ai sensi dell’art. 24, co. 2, Carta dei diritti fondamentali dell’UE: “In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.

[32] Ai sensi dell’art. 3, co. 1, Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”.

[33] Ai sensi dell’art. 6 Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 1996: “Nei procedimenti che riguardano un minore, l'autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve esaminare se dispone di informazioni sufficienti ad fine di prendere una decisione nell'interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali […]”.

[34] A tale proposito, la Corte costituzionale sostiene che “in tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame”.

[35] A. GORGONI, Art. 263 cod. civ.: tra verità e conservazione dello status filiationis, in La nuova giurisprudenza civile commentata, a cura di G. ALPA, P. ZATTI, n. 4, 2018, 543.

[36] Sul punto, si veda M. G. PUTATURO DONATI, Il diritto al rispetto della “vita privata e familiare” di cui all’art. 8 della CEDU, nell’interpretazione della Corte Edu: il rilievo del detto principio sul piano del diritto internazionale e su quello del diritto interno, in europeanrights.eu, 2015.

[37] Legge 31 maggio 1995, n. 218 (“Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”).

[38] Cass., 28 dicembre 2006 n. 27592.

[39] O. LOPES PEGNA, Riforma della filiazione e diritto internazionale privato, in Rivista di diritto internazionale, n. 2, 2014, 411.

[40] Sulle differenze tra tali regimi, si veda C. HONORATI, La nuova legge sulla filiazione e il suo impatto sul diritto internazionale privato, in Studi in onore di Giuseppe Tesauro, a cura di U. LEANZA, A. TIZZANO, T. VASSALLI DI DACHEENHAUSEN, R. MASTROIANNI, P. DE PASQUALE, & R. CICCONE, Napoli, 2751.

[41] C. CAMPIGLIO, La filiazione nel diritto internazionale privato, in Trattato di diritto di famiglia., a cura di G. COLLURA, L. LENTI, M. MANTOVANI, Milano, Vol. II, 2012, 748.

[42] La Commissione sul diritto di famiglia europeo (CEFL), istituita il 1° settembre 2001, è composta da esperti di diritto di famiglia e diritto comparato provenienti da tutti gli Stati dell’Unione Europea. Tale organo ha il compito di predisporre, a livello teorico e pratico, l’armonizzazione del diritto di famiglia in Europa. Per un approfondimento, si veda A. PERA, Il diritto di famiglia in Europa. Plurimi e simili o plurimi e diversi, Torino, 2012, 15-19; M. G. CUBEDDU, La dimensione europea del diritto di famiglia, in Trattato di diritto di famiglia. Famiglia e matrimonio, a cura di G. FERRANDO, M. FORTINO, F. RUSCELLO, Vol. I, 2011, 107-110.

[43] Sul tema, si veda J. HAUSER, La réforme de la filiation et les principes fondamentaux, in Droit de la famille, 2006; M. SCHULZ, Filiation et nom, Paris, 2009. 

[44] In particolare, essa abroga il § 1589 II BGB, per il quale il figlio naturale non è parente del padre.

[45] Sul punto, si veda D. HENRICH, La riforma della filiazione in Germania, in Annuario del diritto tedesco, a cura di S. PATTI, Milano, 1998, 33 ss.; A. DIURNI, La riforma del IV del libro del BGB: il nuovo diritto di filiazione, ivi, 47 ss.

[46] M. G. STANZIONE, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, Torino, 2015, 155.

[47] Si tratta delle seguenti riforme: Legitimacy Act (1926), Legitimacy Act (1959), Family Law Reform Act (1969).

[48] Si ricordi che, il predetto concetto è stato introdotto dal Children Act del 1989, riforma cruciale del diritto di famiglia inglese.

[49] In tale senso, M. MORETTI, La filiazione nell’ordinamento giuridico inglese: the status of the child, in Annali del dipartimento jonico, 2018, 189, evidenzia come tale sistema abbia finito per accentuare le differenze di trattamento e suddividere i figli in tre categorie: i figli di genitori coniugati, a cui sono riconosciuti i diritti derivanti dall’esercizio congiunto della parental responsability; i figli nati fuori dal matrimonio, soggetti ad un atto volontaristico del padre diretto a conseguire l’attribuzione di quel complesso di obblighi e di potestà derivanti dalla parental responsability; i figli di nati fuori dal matrimonio, sottoposti esclusivamente alla parental responsability della madre.

[50] Ai sensi dell’art. 108 del código civil: “La filiación puede tener lugar por naturaleza y por adopción. La filiación por naturaleza puede ser matrimonial y no matrimonial. Es matrimonial cuando el padre y la madre están casados entre sí. La filiación matrimonial y la no matrimonial, así como la adoptiva, surten los mismos efectos, conforme a las disposiciones de este Código”.

[51] R. PICARO, Stato unico della filiazione. Un problema ancora aperto, Torino, 2013, 84.

[52] Sul punto, si veda P. LOVATI, A. M. SCODITTI, R. RIGON, Rapporti genitori-figli: la riforma della filiazione, in La coppia e la famiglia di fatto dopo la riforma della filiazione, a cura di P. LOVATI, R. RIGON, Torino, 2014, 52-54.

[53] Così, V. CARBONE, Riforma della famiglia: considerazioni introduttive, in Fam. e dir., n. 3, 2013, 228.