• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mer, 30 Set 2015

La forza dirompente de ´Dei delitti e delle pene´ di Cesare Beccaria

Modifica pagina

Maria Pina Di Blasio


Il vigore dei canoni ermeneutici scolpiti nel più celebre trattato di diritto penale.


Sommario: 1. Brevi note introduttive. – 2. Da dove nasce questo “Libretto”? –  3. I profili utilitaristici e contrattualistici presenti in Dei delitti e delle pene. – 4.  ‹‹L’infame crociuolo della verità››. - 5. Contro la pena di morte. – 6. Considerazioni conclusive

 

1.   Introduzione. - Se guardiamo al corso della storia umana si può riscontrare come per secoli il problema se fosse o non fosse lecito condannare a morte un colpevole non si è nemmeno posto. Infatti, bisogna giungere all’Illuminismo, nel cuore del Settecento per trovarsi per la prima volta di fronte ad un serio e ampio dibattito sulla liceità della pena capitale[1].

La poliedricità del problema della pena di morte, spesso, nei tempi meno recenti intrecciato con quello della tortura, ed il suo trascendere, per sua intima natura, la sfera del diritto e della politica criminale ne hanno fatto, nel corso dei secoli, un punto di incrocio tra opposti orientamenti e astratte convinzioni filosofiche e giuridiche.

Considerata semplicemente dagli antichi ordinamenti una pena tra le pene, probabilmente in ragione di organizzazioni sociali più esposte a turbative del consorzio, provenienti non tanto dall’interno, ma dall’esterno del gruppo, l’ammissibilità, e per questa via la legittimità e l’opportunità della pena di morte è stata sottoposta a revisione critica, nell’età moderna, dal pensiero illuministico, che ha fatto della battaglia contro la pena capitale, soprattutto attraverso il libro di Beccaria, uno dei capisaldi dell’affermazione delle civili libertà.

La pena di morte è stata giustificata nei tempi tanto dall’assolutismo di stampo hobbesiano, attraverso l’attribuzione del ruolo di garante della giustizia e della sicurezza, quanto dall’utilitarismo ottocentesco; lo stesso Bentham[2] esalta la funzione preventiva della pena capitale.

Quindi, fino alla svolta illuministica, la filosofia, tanto quella classica quanto quella medievale, non percepiva affatto la pena di morte come un problema, come una fonte di perplessità, ma la considerava piuttosto come un atto dovuto, come una naturale manifestazione dell’animo umano o, dal punto di vista pubblico, come una naturale prerogativa del potere.

San Tommaso, il grande teologo filosofo della cristianità, scrive, nella sua Summa Theologiae: ‹‹Se l’uomo è pericoloso per la comunità, e per qualche peccato è causa della sua rovina, lodevolmente e giustamente lo si uccide, affinché sia conservato il bene comune così come il medico amputa con giusta ragione l’arto incarnito. Allo stesso modo chi governa la città uccide utilmente gli uomini nocivi, che con le proprie azioni minacciano l’ordinata convivenza dei cittadini››[3].

Affermava inoltre che, condannare a morte significava purificare l’intera comunità, allontanare il male, impedire che il suo germe infettasse la parte sana del gruppo sociale. L’eliminazione fisica del criminale assumeva un significato di generale espiazione del torto commesso. Peraltro, condannare a morte significava anche svolgere una funzione giuridico - politica, strumentale al mantenimento e al rafforzamento del potere politico.

Si trattava di un cerimoniale per ricostruire la sovranità, per un istante ferita. E tale sovranità la si riaffermava soltanto manifestandola in tutto il suo splendore, con l’esecuzione pubblica[4].

E’ per questo che fino al ‘700 la pena capitale, così come i supplizi, veniva inflitta sempre pubblicamente, spesso addirittura dove aveva avuto luogo il crimine, così che attraverso la spettacolarizzazione della uccisione si riaffermasse il potere statuale e si lanciasse un messaggio chiaro ai potenziali criminali.

Platone, nell’antichità classica, occupandosi del problema, aveva tentato, nel Protagora, di coniugare l’umano elemento sociologico con il divino, affermando che «è un comando divino uccidere, come una piaga sociale, gli individui incapaci di pudore e giustizia». I rei di particolari reati, in primo luogo, di omicidi volontari, dovevano morire, sentenziava Platone[5].

Ad un principio assoluto ed universale risponde per Kant la legge che governa la pena di morte[6]. Il filosofo si occupa a lungo del diritto penale e della pena di morte ne La metafisica dei costumi, apparsa nel 1785. Per Kant, che imputa a Beccaria di muovere da un ‹‹affettato sentimentalismo umanitario nel sostenere la illiceità della pena di morte›› connessa peraltro ad un’erronea lettura del contratto sociale circa la necessità del consenso dell’individuo a farsi punire, la sanzione penale costituisce un imperativo categorico, un comando incondizionato, assoluto[7].  Il principio che la pubblica giustizia deve seguire nello stabilire il grado della pena è quello dell’uguaglianza.

Per tale via, Kant perviene ad una concezione retributiva: se un individuo ha ucciso deve morire, perché la sola uguaglianza tra il delitto e la punizione, proporzionata alla malvagità propria del criminale, consiste nella morte inflitta giuridicamente, una morte, però, si affretta a precisare Kant, spogliata di qualsiasi forma di tortura, che degraderebbe l’umanità della persona.

Eliminato dalla pena di morte ogni profilo utilitaristico, il filosofo sostiene che perfino in una comunità che va estinguendosi è necessario mandare a morte l’ultimo omicida. Di qui, l’idea secondo cui, l’uomo d’onore si distinguerà da quello volgare poiché, sottostando a tale imperativo, preferirà esso stesso la morte a qualsiasi altro mezzo di punizione.

Retributivismo assoluto, ancorato alla legge morale, nella concezione kantiana, e rifiuto, dunque, di ogni configurazione utilitaristica della pena, come di ogni altro elemento teologico.

In tal modo il concetto di retribuzione, lo ius talionis, ha consentito di giustificare la pena di morte quale efficace strumento di tutela della collettività.

Retributivistica, ma in senso prospettivamente diverso, è anche la concezione di Hegel, che incrociò gli anni della sua vita con quelli di Kant, e che si occupò della pena di morte nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto (1821).

Per Hegel, che rifiuta anch’esso una giustificazione della pena sulla base del criterio di mera utilità, la pena realizza, nel quadro del suo ordine dialettico ‹‹diritto, reato, pena››, la restaurazione dell’ordine giuridico violato. Il reato è violazione del diritto, è negativo in quanto ha negato il diritto e la pena è negazione della negazione: ed è retribuzione perché è restaurazione del diritto violato.

Sul problema della pena di morte anche Hegel criticò Beccaria: come Kant, anche il filosofo di Stoccarda muove dal contratto sociale, alla cui concezione Hegel contrappone la sua dottrina dello Stato. Lo Stato, è in quanto tale, legittimato a pretendere anche la vita, e ad esigerne il sacrificio. ‹‹L’annientamento del delitto è il taglione››[8].

In tale prospettiva, alla concezione retributiva morale di Kant, si contrappone una concezione retributiva giuridica, anche se, in quella di Hegel i confini restano fluidi, costituendo, lo Stato, nella concezione hegheliana, la ‹‹sostanza etica››.

Anche Francesco Carrara, fondatore della ottocentesca Scuola Classica del diritto penale, ammette, nel suo Programma del corso di diritto criminale, la pena di morte. Ma, in questo giurista, probabilmente per influenza del pensiero di Cesare Beccaria, il problema della pena di morte conosce un'altra dimensione: quella dell’entità dell’uso che di tale strumento di punizione deve farsi.

Ove si prescinda da Voltaire, il quale, con lo sguardo rivolto ai processi più eclatanti del suo tempo, condannava la pena di morte eminentemente in quanto inflitta per modesti delitti, Beccaria compare incontestabilmente all’orizzonte della storia della pena di morte come l’uomo di pensiero nel quale si opera una svolta nella stessa impostazione critica di tale questione.

Prima di Beccaria, il problema, essenzialmente, ove si eccettuino rare voci di dissenso, particolari ed isolate, era quello perché ‹‹rispondere sì›› alla pena di morte, ossia la motivazione da dare alla soluzione implicitamente positiva del problema.

Dopo Beccaria, il problema diventa quello di rispondere ‹‹sì›› o ‹‹no››, e, di seguito, ‹‹perché›› alla ammissione, nell’ordine giuridico,  della pena di morte.

In effetti, fino a quel momento, morire per mano del boia era considerato come un fatto del tutto naturale, come un accadimento rientrante nel normale ciclo vitale di uno stato civile. Chi si rendeva colpevole di determinati reati doveva essere privato del suo bene più caro e più prezioso, la vita.

Si può, pertanto, correttamente sostenere che il dibattito sulla pena di morte, ossia sull’opportunità di mantenerla e di applicarla o abolirla definitivamente, affonda le sue radici nella modernità. Il suo inizio può essere datato 1764, anno in cui Cesare Beccaria dà alle stampe il celeberrimo Dei delitti e delle pene.

Quel che Beccaria scrisse non veniva scritto per la prima volta[9], ma venne scritto per la prima volta in un’epoca finalmente pronta a recepire le idee riformistiche e pensare di dar loro concreta attuazione.

Nell’opera, come si vedrà, per la prima volta, vengono sollevati in maniera sistematica seri dubbi sulla legittimità della pena capitale, di fatto ritenuta come pena inutile ed inefficace al suo scopo, mediante tutta una serie di argomenti ancora oggi utilizzati dagli abolizionisti di tutto il mondo.

Anche se non sono mancate opinioni diverse, è parere diffuso che il maggior contributo storico dell’Illuminismo sia stata la riforma in senso umanitario del diritto penale.

Nel Settecento, nei paesi europei, la pena capitale veniva applicata a un numero altissimo di comportamenti, che includeva i ‹‹delitti›› detti ‹‹religiosi›› (bestemmia, sacrilegio, eresia, magia), nonché delitti quali il furto o la falsificazione di monete, considerato crimine di ‹‹lesa maestà››. Nel caso di delitti più gravi, inoltre, quali la ‹‹lesa maestà››, appunto, nonché  i delitti di sangue, la morte era accompagnata da tormenti come il supplizio della ruota o i morsi di tenaglie roventi.

La posizione degli illuministi sui delitti religiosi fu radicale: una cosa era il ‹‹peccato›› (trasgressione della legge religiosa o morale), altra il ‹‹delitto›› (violazione di una norma del diritto penale). L’Illuminismo, da questo punto di vista, contribuì anche al processo di laicizzazione del diritto.

Altrettanto netta e unanime fu la presa di posizione contro i supplizi che accompagnavano le esecuzioni, ma la questione della pena di morte registrò posizioni assai diverse. Contro di essa, come si è detto, si pronunciò in primo luogo Beccaria, nel 1764. E lo fece basandosi su due ordini di argomentazioni, l’uno basato sulla teoria del contratto sociale, l’altro di natura utilitarista.

La teoria dell’origine contrattuale dello Stato consente a Beccaria di sostenere che, se è vero che gli uomini, per evitare uno stato di continua belligeranza, hanno rinunciato a una parte della loro libertà mettendola nel ‹‹pubblico deposito›› che forma la sovranità di una nazione, essi lo hanno fatto per necessità[10].

Il secondo argomento, di tipo utilitaristico, consiste nella confutazione dell’idea che la pena di capitale ottiene efficacia deterrente: quel che impressiona, e può indurre a evitare di delinquere, non è l’esecuzione in sé; assai più di questa ha effetto deterrente ‹‹il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti››[11]. Alla pena di morte, dunque, va sostituita la prigione a vita.

A favore o contro la pena di morte. Il nostro dilemma ancora oggi, dilemma reso particolarmente urgente sia dall’utilizzo massiccio e spesso indiscriminato che ancora oggi viene fatto della pena di morte in moltissimi Paesi civili[12], sia dalle ormai quotidiane richieste di pena di morte per i terroristi internazionali.

La sua abolizione, in tutti quei Paesi che ancora la applicano non è solo una esigenza dell’individuo o del rafforzamento ulteriore della sua sfera di inviolabilità, ma costituisce sempre più una necessità storica ed universale ed il punto di approdo della nostra epoca, nell’incontro di diverse civiltà.

Norberto Bobbio, il grande filosofo contemporaneo, acceso abolizionista, ha scritto in una sua relazione congressuale, dal titolo Contro la pena di morte, che la ragione ultima per opporsi alla pena di morte rimane un comandamento fondamentale: quello di ‹‹non uccidere››. Esso individua un cammino della civiltà, seppur irto di ostacoli e contraddizioni, volto verso l’abolizione totale della pena di morte dal teatro della storia[13].

 

2.  Da dove nasce questo “Libretto”?

Nonostante siano trascorsi oltre duecentocinquanta anni dalla pubblicazione de Dei delitti e delle pene, deve riconoscersi ancora oggi la lungimiranza e l’attualità del suo pensiero[14]. Lo dimostra il fatto che, se in molti Paesi la pena di morte è stata abolita, questo è avvenuto in nome di Cesare Beccaria; e che dovunque questa battaglia si combatte, la si combatte nel nome di Cesare Beccaria.

Il suo libro obbliga, infatti, ad ardua lettura non soltanto perché offre una serie di proposizioni giuridiche di carattere innovativo, ma perché rappresenta una prima trattazione organica del diritto e della procedura penale. Il testo illustra, riassume e divulga il pensiero illuminato di numerosi predecessori filosofi e giuristi, e soprattutto rappresenta, ed è importante evidenziarlo, la prima decisa presa di posizione contro la tortura e la pena di morte.

L’opera non nasce dal vuoto. Non solo in Francia, per l’azione dei philosophes, che aveva preso la testa del movimento riformatore, a cui direttamente Beccaria si richiamava, ma anche in vari stati italiani, si erano pubblicate opere da cui affiorava una diffusa condizione di malessere nei confronti dell’amministrazione della giustizia  di allora[15].

Giova ricordare che Cesare Beccaria è il nonno di Alessandro Manzoni. Questa circostanza non è del tutto priva di rilevanza storica. In realtà, I Promessi Sposi hanno al suo interno un tormento morale, che poi diventa un tormento letterario e narrativo. Dal punto di vista strutturale, benché si tratti di un romanzo popolare e non di un trattato di diritto criminale (come lo si chiamava allora), affronta, attraverso le travagliate vicende dei suoi personaggi, il problema della giustizia[16]. Ripercorrendo la storia si noterà che Manzoni ha un’idea della giustizia del suo tempo come qualcosa di inefficace, da riformare, spesso, applicata male[1]  ma che però, alla fine, deve trionfare, come infatti, trionfa[17].

Del romanzo e del suo autore, Andrea Galgano scrive - «La strada del romanzo, che egli, uomo dell’Ottocento, innova, percorre il dipanarsi dell’esistente nel tempo e nei processi della storia»[18]. I Promessi Sposi si aprono e si chiudono nel segno della giustizia. A rimarcare la centralità del tema, che ripercorre tutto il romanzo, Andrea Galgano scrive: «A Manzoni stava a particolarmente a cuore il problema della giustizia. Non è un caso se la parola “giustizia”compare fin dall’introduzione. Lo studioso spiegherà poi che: «tutta la parte introduttiva sembra un set cinematografico. E’ come se Manzoni conoscesse le tecniche cinematografiche. Introduce il racconto come se stesse facendo delle riprese dall’alto di tutto ciò che c’è per poi scendere giù, su uno specifico personaggio» [19].

E ancora, «Alessandro Manzoni prende di petto la questione della giustizia, sia nel suo romanzo popolare, I Promessi Sposi che nella Storia della colonna infame»- così dirà Davide Rondoni[20].

Se non può dirsi certa, perché nessun nesso dai causalità lo dimostrerebbe, l’influenza del nonno sul giovane Alessandro Manzoni, sicuramente un’influenza del clima illuministico vissuto e respirato dal nonno, è presente nelle sue opere.  Questo dato appare più evidente se si considera che Manzoni, quasi contestualmente ai I Promessi Sposi, scrive la Storia della colonna infame, una storia di “mala giustizia”[21] in cui ripropone, nello spirito del libro del nonno, dell’ingiustizia commessa dall’allora Stato spagnolo in Lombardia, nei confronti di un presunto autore del reato che viene torturato, squartato e portato a morte per ordine dello Stato stesso.

A partire da un’altra trattazione breve, relativa ai problemi della giustizia, Dei difetti della giurisprudenza, pubblicata nel 1742 da Ludovico Antonio Muratori, nella quale si denunciava il groviglio della legislazione italiana del secolo e l’incongruenza della sua pretesa fedeltà al codice giustinianeo, e si affermava l’opportunità di combattere gli eccessi di interpretazione delle leggi da parte dei giudici, il cui compito avrebbe invece dovuto limitarsi ad applicarle, alcuni autori avevano richiamato l’attenzione su singoli problemi della giustizia penale e sulla necessità di emendare manchevolezze e degenerazioni, così come altri si erano rifatti nelle loro considerazioni all’Esprit de lois di Montesquieu, mettendo a confronto le tesi da lui propugnate con la grave realtà della situazione italiana[22].

Ma nulla poteva paragonarsi, e non solo in Italia, alla forza prorompente di questi quarantasette capitoletti beccariani, che prendevano di petto non questo o quel problema, ma il problema della giustizia penale nella sua interezza, con un linguaggio semplice e lineare che chiunque avrebbe potuto comprendere e far proprio.

Questa chiarezza espositiva accomunava l’opera con la sostanza della rivoluzione intellettuale e linguistica che l’illuminismo stava attuando, e costituiva senza dubbio la sua radicale novità; ed è per questo che Dei delitti e delle pene si impose immediatamente: spirito di umanità e chiarezza di esposizione in una materia che interessava l’universalità delle persone.

E fu certo l’aver avvertito subito quale carica contestativa contenessero quei capitoli a creare attorno all’autore e al suo libro il silenzio del mondo della giustizia, l’isolamento da cui Beccaria dovette sentirsi circondato, nella sua stessa città: reazione comprensibilmente gelida, in particolare da parte di coloro che la giustizia l’amministravano, ai quali i Delitti sferrava un attacco frontale in quella consequenzialità di affermazioni così palesemente eversive delle condizioni in cui versava la giustizia in quel momento[23].

E’ tutto il sistema processuale dell’epoca nella sua struttura ad essere contestato da Beccaria: le accuse segrete, la custodia preventiva, che l’autore limita ai casi tassativamente stabiliti dalla legge, onde evitare ogni arbitrio da parte del giudice, le prove, di cui tenta anche una classificazione, il valore delle testimonianze e dell’interrogatorio dell’imputato.

Si trattava di accuse rivolte contro una prassi della giustizia penale che pretendeva dall’accusato non la prova della sua innocenza, ma dall’accusatore quella della colpevolezza, attraverso confessioni strappate con la tortura. Accuse che miravano quindi ad abolire la pena capitale, ritenuta a quel tempo un efficace deterrente e insostituibile strumento per garantire la sicurezza delle istituzioni e la difesa della proprietà, ritenuta fondamentale.

A Milano, in particolare, Beccaria e molti altri intellettuali, avevano quotidianamente sotto gli occhi un sistema di giustizia che nella sostanza si traduceva nella negazione della stessa.

Una raccolta di Constitutiones promulgata nel 1541 da Carlo V; i medievali statuti criminali delle città; il Corpus iuris giustinianeo, nella parti specificatamente dedicate allo ius criminale: queste, in ordine di precedenza, erano le fonti del diritto penale lombardo del Settecento, cioè i testi ove i giudici dello Stato di Milano reperivano le norme in materia di delitti e delle pene[24].

A questo sistema normativo, connotato da un evidente eccesso di particolarismo, si aggiungeva la sterminata legislazione prodotta dai governatori spagnoli, i decreti, i dispacci e gli ordini dei sovrani austriaci.

Si trattava di testi assolutamente inutilizzabili, se interpretati nel loro significato letterale, ma di cui ciò nonostante i giudici si servivano, interpretandone non tanto il significato delle norme, ma avvalendosi di vecchie interpretazioni fatte in precedenza dai grandi criminalisti medievali.

Questo fenomeno di sostituzione dell’opinione dell’interprete al testo legislativo interpretato, tipico del vecchio regime di diritto comune, era particolarmente diffuso soprattutto nei casi in cui era in gioco un precetto di diritto penale romano. Qui non vi era norma su cui non si fosse formata una copiosa giurisprudenza dottrinale e giudiziale che svuotava il testo e, riducendolo spesso a mero involucro formale, l’aveva progressivamente riempito di significati del presente, attualizzandolo.

E’ soprattutto a questa giurisprudenza che i giudici ispirano le loro decisioni. Si trattava di una giurisprudenza irta di opinioni contrastanti fra le quali il giudice si aggirava alla ricerca di una tradizione interpretativa consolidata o di una regola dottrinale più autorevole delle altre.

E’ evidente che, in simile sistema di giustizia penale, il delinquente veniva condannato a morte non in ossequio alla legge, ma sulla base di una interpretazione giurisprudenziale della stessa. Questa altro non era che un’opinione, formatasi nel corso del tempo, sulla fattispecie in questione e che i giudici milanesi accoglievano tradizionalmente come la più autorevole.

Voluminoso, opinabile, controverso e opera di molte menti: così si presentava il diritto penale lombardo. Formalmente era un corpo di leggi, ma sostanzialmente era una tradizione di opinioni[25].

In particolare a Milano, le fonti documentarie danno un quadro sufficientemente preciso della giustizia penale[26].

Le pene presentavano una certa gradazione. Si andava dalla sanzione pecuniaria all’esilio dallo Stato, e si saliva poi, lungo tutta la scala delle punizioni, costituita dalla: ‹‹catena infame, la casa di correzione, il carcere, la galera, (cioè la condanna al remo per più anni o perpetua), la fustigazione, i tratti di corda, il taglio della mano e l’impiccagione, quest’ultima sostituita dal taglio della testa per i nobili, la cui esecuzione avveniva in un  luogo separato, mentre per gli altri avveniva in piazza Duomo››[27].

Nel caso della pena capitale, il Senato poteva deliberare che l’esecuzione fosse accompagnata da alcuni inasprimenti scelti accuratamente dall’arsenale punitivo, come lo strascinamento a coda di cavallo fino al patibolo, i colpi di tenaglia rovente da infliggersi durante il cammino verso il luogo del supplizio, l’arruotamento, lo squartamento, l’esposizione della testa mozza del giustiziato in una gabbia di ferro nel luogo dove era stato commesso il delitto.

La ferocia delle leggi penali si ravvisava persino nelle punizioni previste per reati minori, punizioni che, se anche non causavano la morte del condannato, lo colpivano nell’intergità fisica, provocandogli atroci mutilazioni[28].

Rifacendosi alla tradizionale dottrina del castigo esemplare, la pena di morte doveva agire simultaneamente come retribuzione del delitto commesso e come strumento di intimidazione, che dissuadesse i consociati da propositi criminosi. Come compenso per il delitto commesso e come deterrente, la pena doveva essere severa ed eseguirsi necessariamente in pubblico, accompagnata dagli opportuni rituali.

Sotto il profilo strettamente penalistico, le Constitutiones milanesi contemplavano circa trenta figure di delitto cosiddetto ‹‹atroce››, cioè da punirsi con la pena di morte[29]. Ma la casistica era tutt’altro che tassativa, perché in realtà i reati effettivamente repressi con la sanzione capitale erano molti di più, poiché non era raro che venissero puniti come atroci crimini che di per sé non lo erano affatto. Per il furto, ad esempio, la legge non profilava l’atrocità e quindi non prevedeva per questa figura criminosa la pena dell’impiccagione, ma se il colpevole fosse stato recidivo o avesse rubato con particolare destrezza o rubato un bene di particolare valore, tale delitto veniva considerato atroce, e come tale punito, con la pena capitale.

Quanto ai riti di esecuzione, alcuni registri giudiziari documentano lo svolgimento delle operazioni[30].

Quando il condannato giungeva sul luogo dell’esecuzione, trovava ad attenderlo una folla enorme di persone, pronte ad assistere all’evento come se fosse uno spettacolo imperdibile. Se poi il delitto era stato catalogato dal Senato come ‹‹atroce››, l’esecuzione si trasformava in una vera e propria festa punitiva, altrettanto atroce, che si svolgeva secondo le precise indicazioni contenute nella sentenza di condanna[31].

In questo modo, la giustizia si impadroniva del corpo del condannato in un crescendo di atti sacrificali: il colpo di sbarra sul petto, lo strangolamento, la frattura delle ossa di gambe e braccia, la fissazione del corpo sulla grande ruota di cui il cadavere era ridotto a seguire la forma geometrica, l’innalzamento della ruota sul palo. E poi, a fine giornata, il rito terminava con l’ingabbiamento del capo mozzato del giustiziato e con la sua esposizione nel luogo in cui è stato commesso il delitto.

Si trattava di un sistema di giustizia implacabile, che non rinunciava ad uno solo degli atti del rito che l’esecuzione della pena capitale completava. Giustizia che doveva rivelare la propria onnipotenza e mostrare a tutti che ad essa nessun trasgressore avrebbe potuto sfuggire[32].

Ed è per questo motivo che, all’esecuzione delle sentenze di condanna a morte in piazza, era invitato ad assistere il pubblico milanese.

Rito integralmente scritto, segreto, inquisitorio, il processo penale lombardo d’ancien régime costituiva un meccanismo assolutamente antigarantistico. Due tratti di fondo lo caratterizzavano: l’assenza della presunzione di innocenza dell’imputato[33] e la preminenza incontrastata dell’inquisitore sull’inquisito.

L’intera macchina processuale si muove secondo la logica di sistema basato sulle prove legali, in cui una preordinata gerarchia di certezze giudiziali tiene luogo del libero convincimento del giudice. E in questo contesto la confessione, regina di tutte le prove, domina incontrastata.

Ma anche due testimonianze dirette, concordanti e di fonte attendibile costituiscono, per i giudici milanesi, la prova ‹‹piena›› per eccellenza.

Nell’ipotesi in cui non vi fossero questi due presupposti per la condanna, l’inquirente poteva comunque raccogliere una serie di presunzioni, di indizi, di prove cosiddette ‹‹semipiene››, che opportunamente combinate e cumulate potevano costituire altrettanti trampolini per la galera o per una delle varia pene corporali previste.

Era dunque in questa situazione che si trovava la legislazione penale a Milano e in Italia nella prima metà del XVIII secolo: sproporzione tra pena e reato, abuso dell’applicazione della pena capitale e inasprimenti inutili e crudeli delle punizioni anche per reati anche più lievi[34].

E’ su questo impervio terreno culturale, in questo ambiente ostile, che prende avvio la lunga riflessione del Beccaria fino alla stesura de Dei delitti e delle pene.

 

3.   I profili utilitaristici e contrattualistici presenti in Dei delitti e delle pene

Nelle pagine dell’opera è possibile scorgere un costante tentativo, da parte dell’autore, di armonizzare le ragioni della difesa sociale con quelle dell’umanitarismo garantistico, grazie all’elaborazione di una riforma in chiave general - preventiva della prassi penalistica dei suoi tempi.

Tale progetto innovatore si basa su di una concezione utilitaristica dell’uomo e delle ragioni del suo vivere in società, concezione che si propone di poter appunto conciliare le esigenze della difesa sociale con quelle della tutela dell’individuo, e propugna una visione di una difesa sociale efficace ma al tempo stesso rispettosa della dignità umana.

Gli argomenti adoperati da Beccaria per contrastare la pena di morte si fondano, per un verso, sul principio del contratto sociale, e per l’altro, mediante un ragionamento utilitaristico, poggiano sulla minore efficacia preventiva della pena capitale rispetto al carcere a vita.

Il libro Dei delitti e delle pene si apre con l’affermazione della nota formula utilitarista: ‹‹La massima felicità divisa sul maggior numero››[35]. Questo deve essere il fine essenziale di tutta l’attività sociale e il principio informatore di tutte le leggi, le quali altro non sono che convenzioni a cui gli uomini pervengono per salvaguardare reciprocamente i loro diritti e le proprie rispettive sfere di azione.

Dal concetto utilitaristico della felicità del massimo numero d’individui particolari e dal concetto di contratto sociale come strumento per il perseguimento di quel fine, scaturisce il fondamento del diritto di punire[36]

Il contratto sociale, per Beccaria, rappresenta la volontà di tutti i singoli individui, che ad esso sono pervenuti per difendere i propri interessi. Dunque, il diritto sovrano di punire i delitti si fonda sulla necessità di difendere la sicurezza pubblica dalle violazioni dei singoli. ‹‹Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzione possibile, quella che sola basti ad indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire››[37].

Se il punto di partenza è quello della massima utilità sociale e della salvaguardia dei diritti dei singoli, per Beccaria il fine della pena non può che essere quello ‹‹d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali››[38].

E, dal momento che anche il reo possiede un’individualità che va riconosciuta e rispettata, la pena dovrà essere la minore possibile, in quanto strettamente necessaria al raggiungimento dello scopo, che è l’utilità sociale.

Una volta provata la colpevolezza del reo, la pena deve essere stabilita in modo tale che il male inflitto all’imputato sia superiore all’utile che egli poteva ricavare dal delitto. Ogni eccesso è da considerarsi ingiusto.

E per ‹‹giusto›› Beccaria non intende ‹‹null’altro che il vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari, che senza di esso si scioglierebbero nell’antico stato d’insociabilità. Tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste per loro natura››[39].

Quanto alla misura entro cui certi comportamenti assurgono a delitti, l’unico criterio possibile è quello del ‹‹danno sociale››, cioè sono tali solo quelle condotte in grado di produrre un danno agli individui riuniti nel corpo sociale; qualunque altro criterio, come l’intenzione del delinquente o la gravità del peccato, è infondato e comunque impossibile da seguire per l’imperscrutabilità dell’animo del delinquente[40].

Beccaria si scagliò, inoltre, violentemente, contro l’interpretazione della legge, quale causa di incertezza nell’applicazione delle pene, contro la non chiarezza delle norme e le ingiustizie perpetrate sistematicamente nei confronti del cittadino.

Una sanzione efficace ed umanitaria è il prodotto, secondo Beccaria, di una legislazione tesa a razionalizzare e ad addolcire la prassi penalistica e di un’attività del giudice volta ad applicare in modo quasi meccanico quanto prescritto dalla norma penale.

Il giudice non può mai procedere ad un adattamento o a un temperamento della legge, ma deve limitarsi alla pura e semplice applicazione della stessa[41].

In questo senso Beccaria condivide con la maggior parte degli illuministi la concezione sillogistica delle sentenze, il ritenere il giudice semplice ‹‹bocca della verità››, negando la centralità dell’interpretazione delle norme giuridiche.

Per ogni delitto che si dovesse verificare, sostiene Beccaria, il giudice, nell’applicazione della legge e nell’eventuale irrogazione della sanzione, deve ricorrere ad un sillogismo perfetto, in cui la maggiore deve essere la legge in generale; la minore l’azione conforme o meno alla legge; la conseguenza la libertà o la pena[42].

E in conseguenza di ciò, la legge deve essere formulata con la massima chiarezza, senza lasciare spazio alcuno all’interpretazione soggettiva del giudice, alle sue opinioni, alle sue passioni[43].

Inoltre, ogni uomo deve poter conoscere la legge e sapere in anticipo le conseguenze derivanti dalla sua trasgressione: di qui la necessità della sua divulgazione.

Tutto il trattato è pervaso da elementi utilitaristici che si combinano con quelli contrattualistici; la pena è concepita come il mezzo che lo Stato adotta per difendersi da chi commette reati, i quali sono concepiti in modo del tutto laico, come offese allo Stato sovrano stesso.

 

4.  ‹‹L’infame crociuolo della verità››

Beccaria svolge una serrata e articolata argomentazione per confutare il ricorso alla tortura, come prova volta ad accertare la commissione di un reato o a provare la denuncia di complicità o di delitti non ancora avvenuti o scoperti[44].

Ricollega il problema della tortura a quello della confessione, alla quale mirava l’impiego della ruota, delle tenaglie e di altri strumenti simili. Ne sottolinea la crudeltà corporea, evidenziando come questa annulli e frantumi la persona dell’imputato e trasformi in non credibile ogni confessione strappata con il dolore[45].

L’autore considera la tortura, in fase istruttoria, un insulto al processo stesso, la manifestazione di un profondo disprezzo per la legge, come l’interruzione irrimediabile della giustizia nel momento stesso in cui la si vuole o la si vorrebbe amministrare.

Afferma la sua contrarietà per motivi di giustizia, perché la tortura violerebbe il fondamentale principio della presunzione di innocenza. ‹‹Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso che egli abbia violato i patti con i quali le fu accordata››[46].

La tortura consiste in un’afflizione e, pertanto, questa pena sine lege è inaccettabile, poiché è necessariamente una pena sine iudicio; infatti, o il delitto è certo o è incerto; se è certo, non gli si può comminare altra pena se non quella stabilita dalla legge, e allora sono inutili i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; ma se è incerto, non deve tormentarsi un innocente, perché tale è, secondo le leggi, un uomo di cui i delitti non sono stati provati.[47]

Premesse queste indiscutibili ragioni di principio, che da sole varrebbero a proclamare l’inaccettabilità della tortura, Beccaria sottopone quest’ultima al vaglio del principio di utilità.

La prassi torturatoria, retaggio di tempi di barbarie, è da rigettarsi poiché non è operativa, in quanto non ottiene il fine che persegue, ossia l’accertamento della verità. Anzi, induce a false confessioni, ponendo su di un diverso piano il forte e il debole, ed è quindi ‹‹il mezzo sicuro per assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti››[48].

Peraltro, osservando l’inutilità della tortura, Beccaria constata come tale afflizione non potrebbe neppure apparire come esemplare, poiché per tradizione si svolge in segreto.

Poiché gli uomini sono dominati dalle sensazioni e reagiscono cercando sempre di rifuggire dal dolore, l’esito della tortura, alla fine, è una questione di temperamento e di puro calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione alla sua robustezza e alla sua sensibilità.

Ma ‹‹l’infame crociuolo della verità›› è da rifiutarsi anche per motivi di umanità, perché genera la paradossale conseguenza per cui l’innocente è posto sicuramente in condizioni peggiori rispetto al colpevole[49]. Quest’ultimo, infatti, laddove riesca a resistere al dolore può sperare di evitare la giusta punizione; ma l’innocente, invece, anche qualora non confessi il falso per sottrarsi alla tortura, la subirà comunque.

Né vale a giustificazione l’idea che la tortura possa produrre  l’eventuale emenda del colpevole, ‹‹purgando l’infamia››. Tale ipotesi, inaccettabile all’interno di una visione laica del diritto penale, è fuorviante: il dolore non emenda l’infamia e non purifica agli occhi della collettività colui che vi è sottoposto, al contrario cagiona una reale infamia a chi ne è vittima[50].

Con un argomento di grande efficacia retorica, Beccaria sottolinea come gli stessi torturatori non credano fino in fondo a quanto compiono; la storia e la prassi dei tribunali dimostra che l’inutilità, se non l’ingiustizia della tortura, negli ultimi tempi, è fortemente avvertita.

Quanto alla confessione, questa, estorta con la tortura, non può essere presa in considerazione ai fini dell’accertamento della verità se poi non è confermata, a tortura cessata, dal giuramento.

Per Beccaria, l’essenza della tortura non sta tanto nel dolore che provoca, quanto nell’attentato, perpetrato mediante il dolore, al segreto della coscienza e, quindi nella violazione della libertà spirituale dell’imputato.

Contro le pratiche torturatorie, l’autore non si attesta però su posizione completamente radicali, nel senso che non ne esclude il ricorso in via assoluta. Del resto, una dimostrazione della limitata radicalità della confutazione della tortura ci è offerta dallo stesso Beccaria, che ne ammette l’utilizzo, anche se limitato ad una particolare circostanza: essa è da infliggersi al testimone reticente, cioè a colui che, nell’interrogatorio, si ostina a non rispondere[51].

 

5.   Contro la pena di morte

Veniamo ora alle argomentazioni propugnate da Beccaria che più suscitano interesse ai fini del presente contributo, cioè quelle che fondano la sua tesi abolizionistica.

Un intreccio di motivi di principio e di utilità sembra caratterizzare anche la disamina dell’opportunità della comminazione ed irrogazione della pena capitale, condotta in Dei Delitti e delle pene[52].

Beccaria si chiede se la pena di morte sia ‹‹veramente utile e giusta››[53] ed inizia la sua indagine ricercando un plausibile fondamento del diritto della società di condannare a morte un cittadino.

Per la sua esposizione, parte ricercando dapprima una ragione di principio, consapevole forse che solo quest’ultima potrebbe fornire un valido argomento per l’abolizionismo. Successivamente, però, ravvisa tale ragione nell’ipotesi contrattualistica.

Ponendo a fondamento del diritto di punire l’idea contrattualistica della pena, l’autore sostiene l’illegittimità della pena capitale, ritenendo che il massimo dei beni, quale quello della vita, non potrebbe mai formare oggetto di transazione, non solo perché ritenuto primario, ma anche perché indisponibile, in quanto è sottratto alla volontà dei singolo.

Beccaria nega al magistrato il diritto di uccidere un membro della società, in quanto nessuno può delegare ciò che ha di più caro: la propria vita. 

Solo Dio è padrone della vita degli uomini, lui solo può toglierla o donarla. Non si può cedere o delegare ciò che non si possiede. E la vita, essendo un dono non sopprimibile, non deve neppure essere oggetto di contrattazioni. Di conseguenza, nessun sovrano può avere il diritto di uccidere, e nessun cittadino dovrebbe affidargli il diritto sulla propria vita[54].

In tal modo, Beccaria nega in radice il principio della legittimità della pena di morte, e lo fa servendosi dell’argomento fondato sull’origine contrattuale dello Stato[55].

La sua costruzione, fondata su principi contrattualistici, gli consente di pervenire al principio fondamentale della assoluta inviolabilità del diritto alla vita e del rispetto della persona umana.

La pena di morte, non essendo in nessun caso un diritto, costituisce ‹‹una guerra della nazione contro un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere››.[56] Escludendo il tempo dell’anarchia o della rivoluzione e riferendosi solo ‹‹al tranquillo regno delle leggi››, non vi è necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la morte rappresenti l’unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti.[57]

Su questi postulati si connota tutto il discorso sulla sua tesi abolizionistica; l’opportunità della pena di morte viene  vagliata alla luce della concezione general -preventiva della funzione e dei limiti delle sanzioni.

La sua concezione dell’uomo e delle ragioni del suo vivere in società lo portano a denunciare l’inopportunità del ricorso alla pena di morte; essa non svolgerebbe un’adeguata azione intimidatrice, né in sede di comminazione nei confronti di chi sia tentato di commettere il delitto né in sede di esecuzione nei confronti dei cittadini-spettatori e, di conseguenza, essa non è né efficace né utile.

La pena, inoltre, deve essere applicata nel più breve tempo possibile: ‹‹Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile››. Sarà giusta perché eviterà al colpevole i tormenti dell’incertezza e non lo priverà della libertà, in attesa delle sentenza, più del necessario; più utile perché quanto minor tempo passa tra il delitto e la sua punizione, tanto più è efficace e duratura per l’uomo[58].

Ma, prima di comminare la pena, bisogna essere sicuri della colpevolezza dell’accusato e questa la si deve ricercare con metodi più civili ed umani di quelli usati nei tribunali: dunque, bando alle accuse segrete, alla tortura, ai giuramenti a proprio danno richiesti al reo, all’arbitrio del magistrato[59].

I processi devono essere pubblici; è necessaria la presenza di una giuria; deve essere possibile ricusare i giudici, nessuna prova deve essere segreta; è necessario che i testimoni siano credibili e numerosi (non essendo sufficiente prova di colpevolezza la testimonianza di uno solo); infine occorre accordare all’accusato la possibilità di discolparsi, dandogli il tempo e i mezzi necessari a ciò, senza che però ne soffra la pronta applicazione della pena.

Una volta accertata la colpevolezza, la pena deve essere applicata immediatamente e senza alcuna speranza di impunità da parte del condannato, essendo l’infallibilità, e non la crudeltà della punizione, uno dei freni maggiori al delitto[60].

Per Beccaria, la prontezza e la durata della pena hanno un maggiore effetto dissuasivo rispetto alla sua intensità, poiché ‹‹la sensibilità dell’uomo è mossa più facilmente da poche ma replicate impressioni che non da un forte ma passeggero movimento›› [61].

L’atrocità stessa della pena fa sì che aumenti l’audacia nel compiere misfatti, che gli animi si incalliscano e non provino alcun timore di queste pene crudeli, ‹‹basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è superfluo e tirannico››[62].

La pena di morte, quindi, non costituisce affatto un’efficace controspinta nei confronti di chi è, per malvagità o condizione sociale, portato al delitto, e non lo è nemmeno nei confronti della generalità dei consociati.

La sanzione capitale potrebbe anche suscitare compassione o apparire come uno spettacolo: nel primo caso, non contribuisce affatto a rafforzare il senso di obbligatorietà giuridica e l’essenziale fiducia nelle istituzioni; nel secondo caso, indurisce gli animi rendendoli paradossalmente insensibili alla sofferenza[63].

A Beccaria pare assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà e che puniscono l’omicidio, ne commettano poi esse stesse uno per distogliere il cittadino dal commettere reati[64].

Circa la legittimità della pena di morte, l’autore osserva che il diritto di comminare la morte non può dipendere dall’alienazione in virtù della quale si è passati dallo stato di natura alla società: gli individui hanno sì ceduto minime porzioni di libertà, ma fra queste non può essere compresa la vita. D’altra parte, tale cessione non avrebbe potuto aver luogo, perché incompatibile con la stessa legge naturale, che non consente al singolo nemmeno la possibilità di uccidersi e di disporre della propria vita[65].

Perciò, la pena di morte non è e né può essere giuridicamente legittima, e non è nemmeno un diritto, ma è una guerra della nazione contro il cittadino perché giudica utile e necessaria la distruzione del suo essere[66].

Va sottolineato, però, come il ricorso alla pena di morte non è da Beccaria sempre e comunque condannato, anzi, in due casi viene esplicitamente giustificato e ammesso.

La prima ipotesi riguarda il caso in cui potrebbe apparire insufficiente privare con il carcere la libertà ad un individuo per impedirgli di nuocere allo Stato, perché egli, pur prigioniero, ha  tali relazioni e tale potenza da mettere in pericolo la sicurezza della nazione, cosicché  solo distruggendo la sua esistenza si può evitare che egli possa produrre una rivolta pericolosa per la forma di governo stabilità.

Questa circostanza, però, non rientra nel quadro normale della vita dello Stato: non si è in presenza dello Stato di diritto, in cui vige il ‹‹tranquillo governo delle leggi››, in cui il governo è sorretto dal consenso dei cittadini e il potere è affidato al sovrano, ma costituisce, al contrario, un caso del tutto particolare ed eccezionale, una situazione di guerra, quando ‹‹i disordini tengono luogo delle leggi››[67].

Più esattamente, in questa circostanza si verifica un ritorno allo stato di natura, perché il patto sociale si è rotto e i rapporti tra gli uomini sono regolati dalla legge del più forte.

Per Beccaria, finché c’è società civile, non vi è necessità alcuna di mettere a morte un cittadino; quando tale necessità si ravvisa è perché la società civile non c’è più, il patto si è infranto e il corpo sociale si è diviso.

Il secondo caso in cui può ritenersi necessaria la pena di morte cade, invece, entro il quadro del normale funzionamento di uno Stato: l’esecuzione di un cittadino potrebbe essere ritenuta necessaria quando si rivelasse utile e deterrente, cioè quando la sua morte costituisca l’unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti[68].

Naturalmente, questi due casi, al loro eventuale presentarsi, devono essere attentamente vagliati e valutati per evitare di condannare un innocente. E’ comunque preferibile prevenire i delitti, anziché punirli: questo deve essere lo scopo primario di ogni legislazione [69].

Per valutare la portata dell’intenzione umanitaria di Beccaria, è opportuno vagliare l’alternativa proposta alla pena capitale.

Egli suggerisce di sostituire la condanna a morte con i lavori forzati nei quali il reo, ridotto a ‹‹bestia di servigio››, fornirà un duraturo esempio dell’efficacia del sistema giuridico, proponendosi come esemplare freno nei confronti dei delitti[70].

Il lavoro forzato gli appare una pena dotata di tutti gli auspicabili requisiti che una pena dovrebbe avere, primo fra tutti, quello di essere protratta nel tempo, sembrandogli così decisamente meno inaccettabile rispetto alla pena capitale. Peraltro, la reclusione a vita ha il vantaggio di non rendere irreparabili gli errori giudiziari.

Tuttavia, non bisogna ravvisare una motivazione sentimentale nella proposta di sostituire i lavori forzati alla pena capitale; al riguardo, infatti, lo stesso Beccaria precisa che non si tratta di sentimenti di compassione per i condannati a morte quella che spinge alla soppressione della stessa.

Il problema è che il potere costituito deve ricercare la modalità punitiva più utile, ovvero più efficace benché possibilmente dolce, e la pena ai lavori forzati può rispondere a varie esigenze, prima fra tutte la correzione del reo: questo perché, se la pena di morte è sicuramente più sbrigativa per disfarsi dei rei, non è però la più conveniente per reprimere i delitti.

All’affermazione che in nessun caso la pena di morte possa essere, in uno Stato di diritto, giusta, utile e necessaria, l’autore perviene facendo ricorso a motivazioni contrattualistiche e utilitaristiche insieme: i due filoni teorici che percorrono l’intera opera, trovano il loro punto di incontro proprio nel paragrafo XXVIII intitolato Della pena di morte.

Qui il contrattualismo e l’utilitarismo risultano particolarmente evidenti; la massimizzazione dell’utile incontra dei limiti imposti dal contratto sociale.

A questi limiti Beccaria aggiunge anche quelli che risultano dalla natura umana, come la sensibilità, le passioni, i sentimenti degli uomini, che dimostrano come il singolo sia sempre indotto da calcoli utilitaristici, che portano ad escludere che la pena di morte possa rappresentare una maggiore utilità per la società.

Ed è sempre qui che si può misurare la notevole differenza che intercorre fra l’utilitarismo di Beccaria e quello di Bentham, e in generale fra una teoria dell’utilità sottoposta a vincoli e la sua formulazione per così dire ‹‹pura››: infatti Bentham, occupandosi del problema della pena di morte, non si porrà nemmeno la questione se esista un diritto della società ad infliggerla, perché riterrà assurda l’introduzione di un diritto naturale limitante, nei suoi scopi, la legge positiva.

Alcuni autori di formazione cattolica, sostengono che l’abolizionismo di Beccaria non sia del tutto univoco, in quanto né la tortura né la pena di morte sono rigettate con solidi argomenti di principio. Il rifiuto della pena di morte, analogamente a quanto era accaduto per la tortura, si fonda su di una valutazione di operatività ed efficientismo che, per il suo carattere intrinsecamente relativo, non si dimostra idonea a salvaguardare fino in fondo il principio supremo della vita[71].  Inoltre, il reo sembra non essere mai inteso come soggetto, tanto è vero che la non irrogazione della sanzione capitale è condizionata alla sua riduzione o a bestia di servigio o addirittura, come suggerivano i coevi, ad oggetto da impiegarsi per rischiosi esperimenti scientifici.[72]

Si tratta di critiche molto dure che non tengono conto dell’obiettivo di fondo che si proponeva Beccaria, soprattutto quando pone a confronto il carcere a vita con la pena di morte.

Era l’uso, o meglio, l’abuso di quest’ultima pena che egli voleva contrastare, e per far ciò occorreva confutare il mito della sua maggiore efficacia a fini deterrenti. Beccaria si rendeva perfettamente conto delle difficoltà del suo assunto e delle prevedibili reazioni alla sua proposta abolizionista.

Di fronte all’abuso che a quell’epoca si faceva della pena di morte, largamente applicata per una serie di delitti per i quali appariva del tutto sproporzionata, come ad esempio, al furto, alla falsificazione di monete, al duello, Beccaria accentuava la penosa e triste condizione del condannato al carcere perpetuo, al solo fine di allontanare l’idea che la pena di morte potesse costituire un’insopprimibile mezzo di prevenzione contro certi delitti.

Solo così si possono spiegare le osservazioni sulle condizioni che devono caratterizzare il carcere perpetuo, altrimenti la discrasia in rapporto al fondamentale principio stesso della persona umana, che anima tutta l’opera di Beccaria, sarebbe veramente inaccettabile[73].

Il passeggero spettacolo della morte di un uomo ha minore efficacia intimidativa rispetto al ‹‹lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuta bestia di servigio, ricompensa con le sue fatiche la società offesa››[74].

Certamente oggi questi argomenti appaiono incompatibili con i principi che sovrintendono alla funzione della pena, e l’evidente contrasto con il principio di umanità verso il reo non poteva non essere colto dallo stesso Beccaria.

Ma la nobiltà della sua causa abolizionistica, che voleva a tutti i costi vincere, era tale che tutte le argomentazioni adoperate non possono non essere considerate strumentali alla esigenza di riaffermare l’indisponibilità del diritto alla vita.

Beccaria si rendeva conto che la causa abolizionista da lui patrocinata con tanto fervore lo avrebbe esposto agli attacchi dei sovrani[75], ai quali sottraeva un forte potere e, a tal fine, era costretto a prospettare la pesante condizione che caratterizzava il carcere perpetuo per dimostrare la sua maggiore efficacia preventiva rispetto alla pena di morte, che doveva necessariamente abolita, perché crudele e lesiva del diritto alla vita.

Sostenere, come fanno molti critici, che l’umanitarismo di Beccaria può essere ricondotto soltanto all’efficientismo utilitaristico della pena, e che per esigenze di prevenzione generale rischia di trascurare il rispetto dovuto ai diritti della persona, significa non tener conto la funzione strumentale del discorso sulla efficacia preventiva della pena di morte fatto da Beccaria[76].

Se è vero che l’Illuminismo in generale, come linea di tendenza, aveva sviluppato una concezione della pena basata su esigenze di prevenzione generale, Beccaria, tuttavia, in relazione allo specifico problema della pena di morte, era fermamente attestato sulla esigenza di affermare il principio della assoluta indisponibilità del diritto alla vita, per un profondo rispetto del valore dell’uomo[77].

L’argomento relativo alla minore efficacia preventiva della pena di morte rispetto al carcere perpetuo ha, come si è visto, una funzione esclusivamente strumentale e serviva al filosofo lombardo per sconfiggere il mito della necessità della pena capitale come massimo deterrente per la protezione della società[78].

Nel suo fremito umanitario e nel suo sdegno contro ‹‹l’inutile prodigalità dei supplizi, che non ha mai resi migliori gli uomini››[79], Beccaria fu per l’abolizione completa della pena di morte[80], ritenendo sufficienti pene più umane purché certe, sicure e prontamente applicate.

Anche quando fa riferimento alle due sole ipotesi in cui, eccezionalmente, è possibile l’applicazione della pena di morte, queste vengono prese in esame da Beccaria solo in via di mera ipotesi e proprio allo scopo di disattendere l’utilità di quella pena.

 

6. Considerazioni conclusive

Dall’indagine svolta si possono desumere alcune importanti indicazioni.

Da secoli la pena di morte convive in società dove l’uccisione dei propri simili è condannata come peccato. Secondo Beccaria, come visto, la pena non deve servire da espiazione ma deve risarcire la società proporzionalmente al danno che il colpevole le ha inferto. Il risultato dovrà, dunque, restituire alla società qualcosa di tangibile. L’esempio più diretto che si palesa agli occhi dell’autore è quello dei lavori forzati. La copertina della terza edizione del libro, scelta da Beccaria stesso, spiega il senso della radicale proposta messa in campo. C’è una minerva, simbolo della giustizia, che, invece di guardare il boia con le teste mozzate, dirige il suo sguardo verso una serie di attrezzi: zappe, seghe, martelli.

Nel 1786, 22 anni dopo la prima edizione de Dei delitti e delle pene, il Granduca di Toscana, Pietro Leopoldo abolisce la pena di morte. E’ il primo passo di un cammino che durerà fino ai giorni nostri.

Nel dibattito di quell’epoca, della metà del Settecento, sulla pena di morte, ci si chiedeva: può lo Stato condannare a morte l’autore di un reato commettendo lo stesso reato che l’autore del reato ha commesso? E’ un ragionamento dettato dalla ragione. Chi amministra la giustizia non può esercitare la violenza che può commettere qualunque altro criminale o qualunque altro autore di reato. Perché il criminale che viene arrestato e imprigionato nelle prigioni dello Stato, va punito con una finalità rieducativa, che è un idea attuale e assolutamente moderna. Erano questi i postulati dell’illuminismo lombardo.

In Italia, dopo varie vicende, la pena di morte è stata definitivamente abolita con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del 1948. La nascita, in epoca recente, di associazioni come Hamsty International avviene proprio nel quadro di un rinnovato rispetto dei diritti umani che ha nella lotta contro la pena di morte, uno dei suoi punti salienti.

Nonostante ciò, la pena capitale è ancora presente in molti paesi, a partite dagli Stati Uniti d’America, dove è in vigore in diversi Stati, anche se sta crescendo il numero di quelli abolizionisti, arrivando, con il Mariland a 18. L’Italia, a partire dal 1994, si è fatta promotrice di una moratoria che viene approvata dall’ONU con la risoluzione del 18 dicembre 2007. Ma ancora nel 2013 sono 22 i paesi in cui sono state eseguite condanne a morte, la maggioranza delle quali è avvenuta in Cina, Iran, Irak, Arabia Saudita, Stati Uniti d’America e Somalia. Sempre secondo i dati forniti da Amnesty Internatinal, oggi sono 140 i paesi abolizionisti per legge o nella pratica.

A 250 anni dall’uscita Dei delitti e delle pene, le parole di Beccaria sono ancora inascoltate in una parte consistente del mondo. Tuttavia, ancora oggi costituisce una cartina di tornasole in qualsiasi modo si voglia affrontare il problema. Se si discute di pena di morte dalle indicazioni contenute ne Dei delitti e delle pene non si può prescindere

Dalla lettura di frasi come “pena proporzionata a delitti e dettata dalle leggi” si evince un enorme senso di razionalità e di lucidità. E’ così che si chiude il libro di Beccaria. Poche pagine tutto sommato. Si chiude con un principio attualissimo: la giustizia deve essere pronta, necessaria e proporzionata in termini di pene da infliggere. Questo esalta il principio della razionalità della giustizia e della ragione che deve governare. La pena non deve essere una vendetta nei confronti di un soggetto che ha commesso un reato, non deve essere una condanna che va oltre i limiti concessi allo Stato che è quella di amministrarla la giustizia non di usarla come un arma in proprio.

Come si vede, si tratta di un pensiero che è di un’attualità impressionante. Ancora oggi si discute di queste contraddizioni. Come detto, negli Stati uniti, alcuni Stati hanno abolito la pena di morte ma in molti altri c’è. Quindi la pena di morte esiste. La giustizia deve punire il reato non vendicarsi del suo autore. Questo è un punto che ci ha insegnato Beccaria.

A conclusione di questa breve analisi de Dei delitti e delle pene, si riporta una testimonianza molto interessante. E’ un contributo in cui l’ex governatore di New York, Mario Cuomo, proprio partendo dalle parole di Cesare Beccaria, dimostra l’inefficacia e l’inutilità della pena di morte.

Aveva ragione Beccaria quando alcuni secoli fa disse “non è una pena draconiana ad avere effetto ma la certezza o, almeno la probabilità della sua certezza. Oggi, invece, se commetti un crimine è probabile che tu non venga catturato, se vieni catturato è probabile che tu non subisca un processo e se vieni processato è probabile che tu non venga condannato e se vieni condannato e probabile che tu non vada in prigione e se vai in prigione è probabile che tu non sconti l’intera pena. Sono molti quelli che pensano che, a questo punto, il crimine paga, perciò bisogna rendere più efficace l’intero sistema giudiziario. Ma costa troppo. Servono più poliziotti, più prigioni, più procuratori. E allora non si fa nulla. La gente si lamenta e cerca delle scorciatoie. E la scorciatoia più semplice, purtroppo è la pena di morte. Ricordo che quando ero governatore, molti mi dicevano “lei spreca i nostri soldi mantenendo in vita dei criminali”. E allora ero costretto a spiegare che costa molto meno mantenere in vita una persona piuttosto che ucciderla. Nel Nord Caroline, per esempio, una sentenza di morte costa circa 2 milioni e mezzo di dollari e altrettanto nello stato di New York. Naturalmente non per la corrente della sedia elettrica o per il veleno delle iniezioni letali, ma per tutte le procedure legali necessarie. Così, quelli che pensano di potersi nascondere dietro un discorso pratico, basato sul denaro pubblico, non possono più tirarsi indietro e sono costretti a parlare davvero di ciò che li motiva, cioè la voglia di vendicarsi. La vendetta, però, non è una buona soluzione. Bisogna andare oltre l’istinto. La risposta alla brutalità non deve essere altra brutalità. Non possiamo diventare tutti come bestie. Dobbiamo dimostrare a tutte queste persone che le loro convinzioni sono sbagliate e che vendicarsi, in molti casi, è assolutamente inutile[81].

 

Note e riferimenti bibliografici

  • Beccaria C., Dei delitti e delle pene, (a cura di) P. Calamandrei, Le Monnier, Firenze 1950
  • Beccaria C., Dei delitti e delle pene, prefazione di S. Rodotà, (a cura di) A. Burgio, Feltrinelli, Milano 2007
  • J. Bentham, , An introduction to the principles of morals and legislation (1789), in The works of J. Bentham, (a cura di) J. Browing, vol. I, New York 1962.
  • Bobbio N., Contro la pena di morte, in L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1997
  • Cavanna A., Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, in AA. VV., Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita promosso dal Comune di Milano, Cariplo - Laterza, Milano 1990
  • T. D’Aquino, Summa Theologiae, Edizioni Paoline, Roma 1962
  • Dostoevskij F. M., L’idiota , Einaudi, Milano 2005
  • Foucault  M., Sorvegliare e punire, nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993
  • Galgano A., Alessandro Manzoni e il movimento del mondo, in Frontiera di pagine, di Andrea Galgano – Irene Battaglini, L’Immaginale, Aracne 2013.
  • Moro T., L’Utopia o miglior forma di repubblica, Laterza, Bari 1963
  • Nicoletti  C. A., Sì, alla pena di morte?, Cedam, Padova  1997
  • Palombi E., Contro la pena di morte. Scritti di Francesco Carrara, Kluwer Ipsoa, Salerno 2001
  • Porciello A., Pena di morte, AA. VV., in Questioni di vita o di morte. Etica pratica, bioetica e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 2007
  • Kant I.  Fondazione della metafisica dei costumi, trad. (a cura di) V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994
  • Romagnoli S., Prolusioni, in AA. VV., Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita promosso dal Comune di Milano, Cariplo - Laterza, Milano 1990
  • Spirito U., Storia del diritto penale italiano. Da Cesare Beccaria ai nostri giorni, Sansoni, Firenze 1974
  • Venturi f., Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1969
  • Vocca O., L’evoluzione del pensiero criminologico sulla pena di morte. Da Cesare Beccaria al Codice Zanardelli, Jovene, Napoli 1984
  • Zanuso F., Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, AA. VV., in Cultura moderna e interpretazione classica. Temi e problemi di filosofia del diritto I, (a cura di) F. Cavalla, Cedam, Padova 1997
  • Zorzi R., Cesare Beccaria. Il dramma della giustizia, Mondadori, Milano 1996

 

 

[1] N. Bobbio, Contro la pena di morte, in L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1997, p. 178.

[2] J. Bentham, , An introduction to the principles of morals and legislation (1789), in The works of J. Bentham (a cura di) J. Browing, vol. I, New York 1962.

[3] T. D’Aquino, Summa Theologiae, Edizioni Paoline, Roma 1962, p. 64.

[4] M. Foucault, Sorvegliare e punire, nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, p. 53.

[5] C. A. Nicoletti, Sì, alla pena di morte?, Cedam, Padova  1997, p. 107.

[6] A. Porciello, Pena di morte, AA. VV., in Questioni di vita o di morte. Etica pratica, bioetica e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 2007, p. 268.

[7] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994,  p. 168-169.

[8]  A. Porciello, Pena di morte, cit., p. 271.

[9] Nel Cinquecento e nel Seicento, ad esempio, furono contrari alla pena di morte alcuni pensatori che (anche se, ovviamente, a quei tempi non era neppure concepibile un movimento abolizionista) contribuirono certamente, con le loro prese di posizione, a creare il clima nel quale un movimento del genere potè nascere. Ad esempio, Tommaso Moro, nella sua Utopia scrive che il crimine ha due cause sociali: la miseria e l’ignoranza. Per combatterlo bisogna eliminare queste cause. (T. Moro, L’Utopia o miglior forma di repubblica, Laterza, Bari 1963, p. 34).

[10] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (a cura) di P. Calamandrei, Le Monnier, Firenze 1950, pp. 164-166.

[11] Ivi,  p. 257.

[12] Come per esempio gli Stati Uniti e Cina, solo per citarne alcuni.

[13] N. Bobbio, Contro la pena di morte, cit., p. 199.

[14] S. Romagnoli, Prolusioni, in AA. VV., Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita promosso dal Comune di Milano, Cariplo - Laterza, Milano 1990, p. 3.

[15] R. Zorzi, Cesare Beccaria. Il dramma della giustizia, Mondadori, Milano 1996, p. 9l 8.

[16] M. P. Di Blasio, Diritto e letteratura: un inedito rapporto sinallagmatico. Tra Dostoevskij e Manzoni. Il Ruolo della letteratura nella formazione del giurista, su Camminodiritto.it.

16. Cfr. A. Galgano , Alessandro Manzoni e il movimento del mondo, in  Frontiera di pagine, Andrea Galgano – Irene Battaglini, L’Immaginale, Aracne, 2013.

[18] Cfr. A. Galgano , Alessandro Manzoni e il movimento del mondo, cit., p.220

[19] Andrea Galgano, poeta, saggigista e critico letterario, è docente di Letteratura presso la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, fondatore e direttore responsabile di «Frontiera_di_pagine_ magazine on_line», coordina il progetto di ricerca sul senso religioso in Giacomo Leopardi per International Foundation Erich Fromm e lo sviluppo dei processi di formazione letteraria nelle professioni intellettuali per la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm. Ha pubblicato un libro di poesie Argini (Lepisma editrice, prefazione di Davide Rondoni) ed è membro del comitato scientifico della collana “L’immaginale” per Aracne editrice, Roma, per la quale ha pubblicato  i saggi Mosaico (2013) e Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido (2014, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini), e assieme ad Irene Battaglini il volume Frontiera di Pagine (2013) che raccoglie saggi e interventi di arte, poesia e letteratura, e il catalogo Radici di fiume (Polo Psicodinamiche, 2013), un intenso percorso simbiotico di arte e poesia. In presente contributo è contenuto in M. P. Di Blasio, Diritto e letteratura: un inedito rapporto sinallagmatico. Tra Dostoevskij e Manzoni. Il Ruolo della letteratura nella formazione del giurista, su Camminodiritto.it. cit.,

che contiene sostanzialmente  la rendicontazione del Convegno Diritto e letteratura: un inedito rapporto sinallagmatico. Tra Dostoevskij e Manzoni, svoltosi nei giorni 29 e 30 giugno a Potenza, a cura del Prof. Andrea Galgano.

[20] D. Rondoni, Conferenza C’è giustizia a questo mondo?, Centro Asteria Milano, in https//youtu.be

[21] M. P. Di Blasio, Diritto e letteratura: un inedito rapporto sinallagmatico. Tra Dostoevskij e Manzoni. Il Ruolo della letteratura nella formazione del giurista, cit.

[22] Ivi, p. 99.

[23]Ivi,p. 100.

[24] A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, in AA. VV., Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, cit., p. 175.

[25] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, prefazione di S. Rodotà, a cura di A. Burgio, Feltrinelli, Milano 2007, p. 31.

[26] A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, op. cit., pp. 168 - 218.

[27] Ivi, p. 176.

[28] Era comminata la recisione della mano al falsario, quella del naso alle prostitute, la recisione del labbro al bestemmiatore, la fustigazione per manifestazioni di libero pensiero, la prigione a vita per gli autori e gli editori che con i loro scritti attaccavano lo Stato (O. Vocca, L’evoluzione del pensiero criminologico sulla pena di morte. Da Cesare Beccaria al Codice Zanardelli, Jovene, Napoli 1984, p. 4).

[29] Ibidem.

[30] A. Cavanna,  Giudici e leggi a Milano nell’età di Beccaria, cit.,  p. 177.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem.

[33] Questo vizio della procedura penale del tempo è puntualmente colto da Beccaria: un principio elementare di giustizia suggerisce che ‹‹un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice..›› (c. beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 60). Se invece si osserva la quotidiana realtà giudiziaria ci si accorge che qui tutto è capovolto: ‹‹Perché uno si provi innocente deve essere prima dichiarato reo›› (Ivi,p. 62).

[34] O. Vocca, Evoluzione del pensiero criminologico sulla pena di morte, cit., p. 5.

[35] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 35.

[36] U. Spirito, Storia del diritto penale italiano. Da Cesare Beccaria ai nostri giorni, Sansoni, Firenze 1974, p. 52.

[37]  C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 13

[38] Ivi, p. 54.

[39] Ibidem.

[40] Ivi, p. 47.

[41] Ivi, p. 42.

[42] Ibidem.

[43] Ibidem.

[44] Il tema è stato trattato con ampiezza da Pietro Verri, in P. VERRI, Osservazioni sulla tortura, saggio completato nel 1777 e pubblicato nel 1804, ma iniziato dal Verri nel 1764, anno di stesura di Dei delitti e delle pene.

[45] S. Romagnoli, in  Prolusioni, Cesare Beccaria tra Milano e L’Europa, cit., p. 8.

[46] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 60.

[47] Ibidem.

[48] Ibidem.

[49] Ivi, p. 64.

[50] Ivi, p. 62.

[51] Ivi, p. 64.

[52] F. Zanuso, Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, AA. VV., in Cultura moderna e interpretazione classica. Temi e problemi di filosofia del diritto I, a cura di F. Cavalla, Cedam, Padova 1997, p. 198.

[53] C. Beccaria,  Dei delitti e delle pene, cit., p. 73.

[54] Ivi, p. 38.

[55] La teoria contrattualistica dello Stato non porta necessariamente alla tesi abolizionistica della pena di morte. Infatti, alcuni autori, come Rousseau e Filangieri, convinti contrattualisti, non sono però promotori di un’abolizione completa della pena di morte.

[56] C. Beccaria,  Dei delitti e delle pene, cit., p. 89.

[57] Ivi, p. 88

[58] Ivi, p. 31.

[59] Ivi, p. 44.

[60] Ivi, p. 78.

[61] ibidem.

[62] Ibidem.

[63] Ivi, p. 56.

[64] Ivi, p. 83.

[65] Ivi, p. 80.

[66] Ibidem.

[67] Ibidem.

[68] Ibidem.

[69] O. Vocca, Evoluzione del pensiero criminologico sulla pena di morte, cit., p. 26.

[70] Scrive al riguardo Venturi: ‹‹Il lavoro forzato avrebbe risarcito la società dai danni subiti e non avrebbe violato il diritto di ciascuno alla propria vita. Soltanto così la società avrebbe risposto adeguatamente a quella ribellione, a quella rivolta, a quella volontà di tornare allo stato di natura in cui Beccaria vedeva la radice più profonda di ogni delitto›› (f. venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1969, p. 709).

[71] F. Zanuso, Utilitarismo e umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, cit., p. 205.

[72] F. Cavalla, La pena come problema. cit., pp. 83 - 84.

[73] E. Palombi, Contro la pena di morte. Scritti di Francesco Carrara, Kluwer Ipsoa, Salerno 2001, p. 2.

[74] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 81.

[75]  Anche se va ricordato che i principi umanitari espressi da Beccaria ne Dei delitti e delle pene, trovarono un’immediata concreta attuazione in Toscana, con il codice Leopoldino del 30 novembre 1786, per iniziativa di Leopoldo II, il quale aveva perfettamente assimilato e prontamente accolto i suoi richiami ad una giustizia meno crudele e più rispettosa della persona umana.

[76] E. Palombi, Contro la pena di morte. Scritti di Francesco Carrara, cit., p. 3.

[77] Ibidem.

[78] Ibidem.

[79] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 79.

[80] Contrariamente ad altri contrattualisti, come Jean-Jacques Rousseau, Gaetano Filangieri e Immanuel Kant.

[81] La grande storia, Beccaria:la scoperta della giustizia. http://www.raistoria.rai.it/articoli/cesare-beccaria-la-scoperta-della-giustizia.