Il Consiglio di Stato sull´abbandono dei rifiuti della società fallita e gli obblighi del curatore
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Vincenzo Visone
Lo studio focalizza l´attenzione sugli obblighi di bonifica e rimozione dei rifiuti, contemplati dal Codice dell´Ambiente, e la loro applicabilità alla figura del Curatore fallimentare. Si è inteso approfondire un tema controverso, oggetto di attenzione di una recente sentenza dell´Adunanza Plenaria, al fine di rilevare anche sotto tale profilo la rilevanza del bene giuridico ambiente e l´evidente influenza del diritto europeo nella materia ambientale.
Sommario: 1. Premessa; 2. Il diritto all’ambiente, qualche riflessione preliminare; 3. L’Italia e il diritto all’ambiente: un breve excursus; 4. Dall’art. 117, comma 2, lett. s) della L. n. 3/2001 all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 (T.U. Ambiente); 5. La responsabilità del curatore fallimentare: aspetti dottrinali e giurisprudenziali; 6. La sentenza n. 3/2021: il curatore fallimentare e l’onere di smaltimento rifiuti abbandonati; 7. Conclusioni.
1. Premessa
Da tempo, dottrina e giurisprudenza s’interrogano su temi legati all’ambiente e su quelle condotte che ne possano compromettere la salubrità. L’immissione di rifiuti[1] nell’ambiente è contemplata in diverse disposizioni del d.lgs. n. 152/2006 che comportano conseguenze diverse sotto il profilo della rilevanza amministrativa, civile e penale. Di questo quadro composito si sono occupate dottrina e giurisprudenza non sempre con risultati univoci.
Per tale motivo si ritiene opportuno focalizzare l’attenzione sulla recente sentenza n. 3 del 26 gennaio 2021 del Consiglio di Stato, resa in Adunanza Plenaria che, analizzando il profilo degli obblighi soggettivi, sancisce il principio secondo il quale gli oneri del ripristino di quei territori dove sono stati abbandonati dei rifiuti e dello smaltimento di questi ultimi (di cui all’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006) ricadrebbero sul Curatore fallimentare[2]. Decisione, questa, che si è posta in linea di discontinuità con l’orientamento giurisprudenziale prevalente, seppure non privo di contraddizioni.
L’approccio adottato dal Massimo Consesso nel 2021 che s’inserisce, di fatto, nel solco di una precedente sentenza, la n. 10/2019, permette, grazie a una prospettiva rinnovata, di ampliare la platea di soggetti sui quali si possono far ricadere gli obblighi di bonifica di un’area inquinata, ponendo un significativo principio di diritto relativo all’individuazione di chi sia responsabile dell’abbandono rifiuti, e dunque obbligato alla loro rimozione, indipendentemente da una sua diretta responsabilità.
2. Il diritto all’ambiente: qualche riflessione preliminare
Il termine “ambiente” è una parola polisemica alla base di diverse riflessioni di carattere ecologico, socio-economico, sanitarie, culturali e giuridiche[3]. Sul concetto di ambiente e sul suo significato non esiste, né in dottrina né in giurisprudenza, unanimità di vedute e le posizioni a riguardano restano a tutt’oggi alquanto divergenti[4].
Prima di qualsiasi ragionamento giuridico, ecologico o socio-economico l’ambiente è stato oggetto di riflessione da parte dei filosofi ambientali i quali, ragionando in termini di entità fisiche, specie, eco-sistemi e biomi regolati da leggi analizzabili empiricamente - ancora prima che s’iniziasse a parlare di crisi ecologica - posero una serie di questioni sul tavolo della discussione intellettuale. Dalla filosofia all’ecologia la problematica ambientale si trasformò in una questione giuridica e iniziò a farsi spazio l’idea che vivere in un ambiente salubre fosse un diritto inalienabile dell’uomo. Partendo dal presupposto che l’ambiente fosse un bene immateriale unitario, la giurisprudenza arrivò ad affermare l’esistenza di un diritto soggettivo all’ambiente salubre, affermazione, tuttavia, che fu preceduta da un accesissimo dibattito dottrinale, giurisprudenziale e culturale[5], peraltro non ancora sopito.
Se volessimo rintracciare le origini del diritto internazionale all’ambiente, dovremmo tornare indietro di circa due secoli, verso la metà del XIX secolo, periodo nel quale la riflessione filosofica-ecologista, in concomitanza con l’accelerarsi dell’industrializzazione e il manifestarsi delle sue conseguenze negative sull’ambiente, cominciò a farsi più intensa[6]. Fu proprio in quel periodo, infatti, che gli Stati iniziarono a dotarsi di legislazioni ad hoc per regolare la tutela all’ambiente tramite una serie di prime convenzioni internazionali in materia; anche se, va detto, si trattò, per lo meno all’inizio, di accordi bilaterali stipulati non tanto per la salvaguardia dell’ambiente quanto per finalità utilitaristiche[7]. A questi primi “timidi” tentativi ne seguirono molti altri ma, per un cambiamento decisivo in materia, si dovette attendere la nascita delle Nazioni Unite (1945) e degli Organismi a essa connessi[8]. Fu a partire da quel momento, infatti, che fu possibile, anche in materia ambientale, cominciare ad adottare un approccio concertato a livello internazionale.
Dopo la Carta di San Francisco del 1945[9] e lo Statuto dell’Onu, entrambi del 1945[10], nel cui Preambolo si legarono i diritti dell’uomo al valore della persona umana, nel 1948, grazie all’Unesco, fu organizzata una conferenza internazionale interamente dedicata ai temi ambientali che si concluse con la nascita dell’International Unione for the Protection of Nature (IUPN)[11]. Negli anni successivi, tutta una serie di eventi, tra cui il lancio dell’atomica e l’affondamento della petroliera Torrey Canyon (1967)[12], sensibilizzarono la società scientifica e civile a prendere consapevolezza degli effetti nocivi legati all’industrializzazione e dei rischi che questa apportava all’ambiente e all’uomo e questo portò a emettere diverse dichiarazioni, carte e accordi di livello europeo a tutela dell’ambiente. Si fece sempre più chiara l’idea che proteggere l’ambiente significasse difendere l’uomo e ciò portò alla formazione di un corpus di regole internazionali in materia ambientale che divennero oggetto di pronunce giurisprudenziali che sancirono il divieto a qualsiasi Stato di «usare o permettere che si usi il proprio territorio in moto tale da provocare danni al territorio di un altro Stato o alle persone e ai beni che vi si trovino»[13].
Dalla fine degli anni Sessanta e nei decenni successivi si assistette a una continua evoluzione del diritto all’ambiente salubri; di fondamentale importanza fu la Conferenza di Stoccolma del 1972, pietra miliare nella storia del diritto internazionale all’ambiente, che, tra l’altro, si pose come obiettivo quello di elaborare delle linee guida per l’azione dei Governi e le organizzazioni internazionali preposte alla tutela dell’ambiente[14]. Alla fine della Conferenza furono adottati alcuni strumenti non vincolanti, ma particolarmente importanti dal punto di vista storico e scientifico, tra cui un Piano d’Azione (composto da 109 Raccomandazioni)[15] e una Dichiarazione di Principi sull’Ambiente Umano[16] che, ancora oggi, sono ritenuti delle linee guida fondamentali per la tutela e il miglioramento dell’ambiente presente e delle generazioni future[17]. Fecero seguito una serie di Conferenze e Meeting a livello internazionale che dalla Rio (1992) a Glasgow nel 2020 hanno continuato a individuare degli obiettivi globali, come l’Agenda 2030, tra la tutela dell’ambiente.
La giurisprudenza dei diversi paesi europei si è sforzata, soprattutto a partire dalla Conferenza di Stoccolma (1972), di tradurre nel modo più chiaro possibile il rapporto uomo-ambiente a livello giuridico. Ogni realtà nazionale ha percorso strade diverse nel risolvere via via le emergenze legate alla protezione ambientale e, pur avendo presente le linee guida in materia adottate dal diritto internazionale, diversi sono stati i percorsi intrapresi a livello nazionale per metodi, approcci e prospettive dell’interprete[18]. Ruolo fondamentale è stato giocato in questo processo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha spinto la dottrina a interrogarsi sull’esistenza di un “diritto umano all’ambiente salubre” sebbene non se ne trovi traccia all’interno della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo[19].
La Corte di Strasburgo si è dimostrata particolarmente dinamica nei confronti della tutela del diritto all’ambiente e, fin dai primi anni Ottanta, ha elaborato una serie di decisioni a favore della tutela dell’ambiente atte a giustificare l’interferenza degli Stati in una serie di diritti (come quello di proprietà) individuati dalla Convenzione stessa e questo in virtù del fatto, come nel caso Fredin vs. Svezia, che «nelle società moderne la protezione dell’ambiente è un’esigenza di crescente importanza»[20], sentenza alla quale potrebbero essere aggiunti numerosi altri leading case[21].
Sebbene, dunque, a livello europeo il diritto internazionale dell’ambiente trovi origine nei primi anni Settanta, nel tempo si è assistito, all’interno delle varie realtà nazionali, della nascita di un significativo corpus di norme in materia spesso sotto forma di regimi giuridici estremamente articolati e complessi la cui eterogeneità è stata solo in parte ridimensionata dal fatto che furono inserite all’interno dei Trattati sull’ambiente delle disposizioni che presentavano una maggiore articolazione rispetto alla logica command and control[22] e che istituivano un sistema di premi, sanzioni e procedure il cui obiettivo era quello di vincolare gli Stati ad adottare condotte più rigide a tutela dell’ambiente[23].
Nel frattempo si è andata sviluppando una giurisprudenza che, attraverso un’interpretazione teleologicamente orientata delle proprie disposizioni, ha collocato la tutela degli interessi ambientali all’interno delle posizioni giuridiche soggettive da esse garantite e, in questo senso, come si è detto, un ruolo determinante l’ha giocato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo alla quale si è andata affiancando la Corte di Strasburgo che resta il primo Tribunale internazionale ad aver sancito ufficialmente l’esistenza di una connessione diretta tra tutela dei diritti umani e protezione dell’ambiente, quindi a stabilire una connessione tra ambiente e salubrità[24].
3. L’Italia e il diritto all’ambiente
In Italia l’ambiente si pose come problema istituzionale nel decennio ‘60-’70, anche se fu solo a partire dagli anni ’80 che esso entrò nelle grandi tematiche pubbliche e istituzionali[25]. Dopo l’incidente dell’ICMESA di Seveso (luglio ’76)[26], quando la Commissione parlamentare d’inchiesta si ritrovò a fare i conti con un sistema normativo in materia ambientale estremamente frammentario, al quale peraltro facevano riscontro una pluralità di enti con funzioni particolari circoscritte al proprio settore, fu chiara l’impossibilità di stabilire, giuridicamente parlando, delle responsabilità chiare e precise rispetto a quanto accaduto a Seveso e che ciò non poteva che avere effetti negativi sulla sicurezza per la salute collegata all’ambiente e alla sua gestione da parte dei poteri pubblici o privati[27]. Bisognerà attendere il 1977, tuttavia, per un primo assetto funzionale nei controlli ambientali[28], fu istituito, infatti, il Ministero dei beni culturali e ambientali[29] e, dopo circa dieci anni, con Legge n. 349/86, il Ministero dell’Ambiente[30]. In seguito, con Legge n. 142/90, fu assegnata alle Province un nuovo e importante ruolo nel settore dei controlli ambientali; quindi, il referendum del 1993 eliminò quel collegamento che era stato istituito tra protezione ambientale e sanità pubblica[31]. Ciò, tuttavia, creò un vuoto normativo[32] e organizzativo in materia di controlli ambientali che venne colmato dal legislatore con la Legge n. 61/94, istitutiva dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente ANPA, con compiti di coordinamento nei riguardi delle altre Agenzie Regionali e provinciali, ARPA e APPA[33].
Nel frattempo, in ambito europeo, si era andata rafforzando la convinzione che il problema della tutela ambientale dovesse essere affrontato in maniera coordinata, che fosse giunto il momento di superare il metodo normativo del controllo a favore di uno premiale e volontaristico. Una parte della dottrina italiana, però, ancora nel 1994, evidenziava il fatto che il controllo pubblico restava lo strumento fondamentale di tutela ambientale[34]. Fu il d.lgs. n. 300 del 1999 a dettare la nuova disciplina delle agenzie nell’ordinamento giuridico italiano, affidando, con l’art. 39, all’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT) la responsabilità di occuparsi delle attività tecnico-scientifiche di interesse nazionale relative la protezione ambientale[35]. Infine, il d.lgs. n. 262/06 attribuì all’APAT la personalità giuridica.
In Italia, inoltre, un ruolo fondamentale nella valorizzazione e tutela dell’ambiente è stato giocato anche dalla Pubblica Amministrazione alla quale sono stati demandati una serie di compiti tra cui quello di controllare l’attività dei privati, rilasciare le autorizzazioni per gli interventi sull’ambiente e porre in essere quelle attività che richiedono cautele ambientali[36]. Giuridicamente parlando, gli studiosi del diritto amministrativo, pur occupandosi di ricostruire e sistematizzare le tante discipline imposte dal legislatore a tutela dell’ambiente (molte delle quali incentrate proprio sul ruolo strategico della Pubblica Amministrazione) si sono dimostrate consapevoli che la questione ambientale finiva per sfidare le categorie su cui era stato costruito l’intero sistema giuridico in materia. Ciò portò all’elaborazione di una nuova teoria giuridica dell’ambiente che fu la chiave di volta per l’evoluzione giurisprudenziale costituzionale, di quella del giudice ordinario e amministrativo[37].
Oggi, però, nonostante i notevoli passi avanti compiuti in materia di diritto all’ambiente e di diritto all’ambiente salubre, la dottrina continua a evidenziare la difficoltà di inquadrare la problematica all’interno di schemi condivisi, fatto, questo, che pone in essere una serie di dubbi sui sistemi giuridici moderni e sulla loro capacità di «rispondere alle sollecitazioni che provengono da una materia, nella quale si incontrano e si scontrano pretese individuali di varia natura e rilevanza (dal diritto alla salute al diritto di iniziativa economica per citare quelle chiamate in causa con più frequenza) che hanno ad oggetto un bene collettivo dai contorni non bene definiti, qual è l’ambiente»[38]. A detta di Fracchia la difficoltà rilevata dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana deriva dalla visione eccessivamente antropocentrica con cui l’Italia si è approcciata al problema, tale che ambiente e uomo sono diventati due termini antitetici; la tradizionale centralità dell’individuo nel diritto in campo ambientale, a detta di Fracchia, ha impedito di ricostruire un diritto soggettivo all’ambiente e ha fallito rispetto alle esigenze di definire il fondamento delle pretese della natura in quanto tale[39].
La dottrina amministrativa, dimostrandosi consapevole di queste difficoltà, propose una ricostruzione giuridica dell’ambiente che finì per spostare l’attenzione dai diritti di tutela ambientale ai doveri giuridici, arrivando a sostenere che l’ambiente andasse inteso come bene giuridico oggetto di un dovere di protezione. Per passare dall’antropocentrismo dei diritti a quello dei doveri, la dottrina ha evidenziato la necessità di dover confrontarsi al rapporto tra uomo e natura in termini relazionali e dinamici[40]. Il passaggio, tuttavia, fu tutt’altro che lineare e indolore e necessitò di una Riforma del dettato costituzionale per subire un’accelerazione significativa; capirne i motivi, tuttavia, impone un approfondimento sul rapporto tra la nostra Costituzione e il tema ambientale.
La Costituzione italiana, a differenza di più recenti testi costituzionali[41], fino alla citata riforma costituzionale approvata con legge Cost. n. 3 del 2001 (sulla quale torneremo in seguito), non conteneva nessun articolo che facesse riferimento in modo diretto ed esplicito alla tutela ambientale, assenza dovuta al fatto che, nel 1947, i problemi legati al degrado ambientale non erano particolarmente sentiti. I Costituenti, per questo motivo, non si occuparono del problema ambientale; per loro il termine “paesaggio” indicava le bellezze naturali e il panorama, e la sua tutela si riduceva alla conservazione dello scenario naturale secondo i precetti contenuti nella legislazione di tutela delle bellezze naturali (L. n. 1497/1939)[42]. All’interno della Costituente, tuttavia, va ricordato l’intervento per certi aspetti “profetico” dell’onorevole Cavallotti il quale, in chiusura del suo discorso, si augurò che l’Assemblea Costituente, scevra da qualsiasi ideologia, potesse sancire «il diritto alla salute per il popolo italiano, sulla base della solidarietà, contro qualsiasi speculazione, contro qualsiasi sopraffazione ed egoismo […]»[43].
Sebbene il legame indissolubile tra salute, libertà e uguaglianza venisse sancito dall’approvazione dell’art. 32 Cost. (24 aprile 1947)[44], in seguito, la scelta dei Costituenti di inserirlo all’interno dei rapporti etico-sociali, portò la dottrina a sottovalutarne a lungo la portata e a ritenerla una norma programmatica, la cui attuazione andava rimandata, di volta in volta, al legislatore venturo[45]. Prima che la giurisprudenza di merito e costituzionale, tuttavia, assegnasse precettività all’art. 32 Cost. e ne equiparasse la struttura a quella del diritto alla libertà, bisognerà aspettare fino ai primi anni Settanta[46]; come ebbe a evidenziare Montuschi, cominciò, in quel periodo, la cosiddetta «rivitalizzazione del nucleo precettivo dell’art. 32»[47] e questo in virtù del fatto che s’impose l’idea che non potesse esserci una reale contrapposizione tra diritti di libertà personali e sociali[48].
Dopo un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale, si arrivò alla conclusione che la norma, da una parte, fosse programmatica in virtù dell’imposizione al legislatore di proporre azioni volte alla tutela e salvaguardia della salute in una società in costante evoluzione, e, dall’altra, contestualmente precettiva in virtù del fatto che il cittadino ha il diritto di farla valere sia come bene personale sia come bene collettivo. In seguito, tuttavia, la norma tese a modificarsi prestandosi a interpretazioni che, alternativamente, la considerarono norma ora programmatica ora precettiva. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 88 del 1979, stabilì che il bene salute, tutelato costituzionalmente dall’art. 32, andava ricompreso «tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione»[49].
4. Dall’art. 117, comma 2, lett. s) della L. n. 3/2001 al all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 (T.U. Ambiente).
A partire dagli anni Ottanta, si iniziò ad assistere a una crescente sensibilizzazione istituzionale ei confronti della tutela ambientale[50] seguita da una vera e propria proliferazione normativa in materia, molto spesso giudicata da una parte della dottrina, caotica, disorganica e di stampo eccessivamente tecnico[51]. Molto importante, al riguardo, furono i tentativi sistematici della giurisprudenza costituzionale la quale cercò di ancorare la nozione di ambiente al tessuto costituzionale, con il risultato, però, di delineare una nozione di ambiente in generale e di diritto all’ambiente salubre in una posizione, per così dire, intermedia tra la più ampia tutela dell’ambiente e la tutela della salute che ne ha fatto parlare in termini di un «diritto trasversale»[52], risultato della combinazione di più norme costituzionali in forza della loro interpretazione evolutiva. La giurisprudenza costituzionale riconobbe all’ambiente come «primario e assoluto e principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale»[53] un valore indispensabile della collettività[54].
Negli anni Novanta[55], quando al diritto alla salute fu riconosciuto dal nostro ordinamento un valore supremo, in numerose sentenze la salute fu considerata un bene primario e, di conseguenza, interamente tutelabile non solo a livello pubblicistico ma anche privatistico[56]. Da parte sua la dottrina prevalente continuò a confermare la sua adesione alla teoria di un diritto alla salute come diritto composito, posto in una “terra di nessuno”, a fronte delle tante letture della norma costituzionale[57], ma la situazione, di lì a poco, avrebbe subito un’incredibile accelerazione quando, con la Riforma del titolo V della Costituzione, la parola “ambiente” venne inserita all’interno della Carta e, per la prima volta, fu inserito nell’art.117, comma 2, lett. s) la materia ambientale[58].
L’inserimento della tematica ambientale nel riparto di competenze tra Stato e Regioni ha prodotto una serie di inevitabili conseguenze: prima di tutto l’ambiente ha trovato finalmente riconoscimento in una norma positiva di livello costituzionale, secondariamente la sua qualificazione in termini di materia affidata alla potestà legislativa esclusiva statale ha anticipato, per lo meno nelle intenzioni, una significativa riorganizzazione dei rapporti tra fonti statali e fonti regionali nel settore ambientale, adombrando il pericolo di una netta inversione di tendenza rispetto al modello di governo dell’ambiente che si era faticosamente affermato in precedenza.
Alla L. n. 3/2001 fecero seguito una serie di ulteriori interventi normativi tra cui la Legge delega 15 dicembre 2004, n. 398[59], quindi il d.lgs. n. 195/2005, con cui l’Italia diede attuazione alla Direttiva 2003/47CE, e, soprattutto, il d.lgs. n. 152/2006 (Testo Unico Ambientale) all’interno del quale l’art. 192 rubricato “Divieto d’abbandono”. Rileva evidenziare che la tematica della responsabilità per abbandono rifiuti rientra tra gli aspetti della più ampia categoria di tutela dell’ambiente che, soprattutto nel nostro Paese, ha richiamato più volte negli ulti anni l’attenzione del legislatore che è stato chiamato a intervenire con misure tempestive, adeguate ed efficaci. In seguito, sulla materia della gestione dei rifiuti tornò a esprimersi più volte il legislatore il quale, con il d.lgs. n. 4/2008, introdusse una serie di nuovi articoli nel Codice dell’Ambiente, quindi con il d.lgs. n. 205/2010 (in recepimento della Direttiva 2008/98/Ce)[60], quindi con la L. n. 154/2016 e, da ultimo, con il d.lgs. n. 116/2020 (attuazione della direttiva 2018/851/UE) ha che ampliato la platea dei soggetti sottoposti al regime di responsabilità (inserendosi in quel pacchetto sull’economia circolare)[61].
I principi generali enunciati dal T.U.A., attuativi di una serie di articoli sanciti costituzionalmente dagli artt. 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 e in ottemperanza e rispetto delle direttive comunitarie in materia, si sono posti l’obiettivo di trovare un equilibrio tra soddisfacimento dei bisogni umani, la salvaguardia dell’ambiente e la tutela delle generazioni future. In quest’ottica la tutela dell’ambiente, al cui interno rientrano la materia dei rifiuti abbandonati e il ripristino dei luoghi inquinati, è diventata una delle priorità di una serie di soggetti pubblici e privati, di persone fisiche e giuridiche il cui operato si è dovuto ispirare, quindi, a principi di precauzione, prevenzione e correzione[62] secondo la logica comunitaria del “chi inquina paga” (Direttiva 2004/35/CE)[63]. Rileva evidenziare che nella parte IV del Codice dell’Ambiente sono elencate quelle norme il cui obiettivo è la tutela dell’ambiente e della salute umana in modo da prevedere e ridurre gli impatti negativi che l’abbandono o una mala gestione dei rifiuti possono produrre. All’art. 177, comma 4 si specifica che «I rifiuti sono gestiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e, in particolare, a) senza determinare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo nonché per la fauna e la flora; b) senza causare inconvenienti da rumori e odori; c) senza danneggiare il paesaggio o i siti di particolare interesse, tutelati in base alla normativa vigente»[64].
In accordo a quanto stabilito dalla Direttiva comunitaria 2008/98/CE, il legislatore ha previsto una gestione conforme a principi di «precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti» (art. 178, comma 1 e successivi aggiornamenti)[65]. Oltre a individuare criteri e priorità di gestione, il Codice dell’Ambiente ha indicato una gerarchia di azioni da porre in essere per limitare la produzione di rifiuti e ridurre il loro grado di nocività (art. 179 e ss.).
Un altro punto nodale del Codice è stato quello di individuare tre livelli di responsabilità del proprietario del sito inquinato tra cui quella che riguarda l’abbandono e il deposito incontrollato di rifiuti su e nel suolo (art. 192, 3° comma), quella relativa al proprietario del sito d’interesse preminentemente pubblico per la riconversione industriale (ex art. 252 bis, 2° comma) e 3) quella inerente all’onore reale gravante sui siti contaminati (art. 253). Per quanto riguarda l’art. 192, rubricato “Divieto di abbandono”, si specificano i tipi di divieti e si stabiliscono le sanzioni amministrative pecuniarie e penali per chi li violi, stabilendo che, in questo caso, il soggetto è tenuto «a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi»[66].
La normativa, oltre a indicare condizioni di sicurezza e a sostenere attività di riciclaggio e recupero, individua nella figura del Sindaco (art. 192, comma 3) il soggetto che, laddove sussistano determinati potenziali presupposti problematici, può disporre con un’ordinanza[67] alcune operazioni finalizzate alla rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti e il ripristino dello stato dei luoghi. Si tratta di oneri che ricadono sul soggetto che si è reso direttamente responsabile di una serie di azioni, tra cui abbandono di rifiuti o a coloro, amministratori o rappresentanti di persona giuridica, che «siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni» (art. 192, comma 4). Come avremo modo di argomentare, la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2021, ampliando la platea di soggetti “tenuti in solido” a rispondere agli obblighi connessi alla salvaguardia dell’ambiente, vi ha ricompreso la figura del curatore fallimentare[68].
5. La responsabilità del Curatore fallimentare: aspetti dottrinali e giurisprudenziali
La questione dell’abbandono e del deposito incontrollato di rifiuti sul suolo è stata, nel tempo, ampiamente dibattuta a livello dottrinale e giurisprudenziale, non solo in ambito amministrativo, ma anche civile e penale, sia a livello nazionale che comunitario[69]. In base al tenore dell’art. 183, lett. f) del d.lgs. n. 152/2006, per “produttore di rifiuti” si deve intendere il produttore iniziale, ossia quel soggetto la cui attività produce scarti o chi, modificando la composizione di rifiuti già esistenti si rende “nuovo produttore”. In seguito, tuttavia, con l’entrata in vigore del d.l. 4 luglio 2015, n. 92, recante Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, l’art. 1 ha modificato la previgente nozione individuando come “produttore di rifiuti” colui che attivamente li produce (art. 183, comma 1, lett. c) il quale, secondo il Codice dell’Ambiente, è «il produttore dei rifiuti o il soggetto che li detiene» dunque chi li detenga per conto proprio o di terzi[70].
Una parte della dottrina ha evidenziato che per capire la portata giuridica della suddetta disposizione sarebbe necessario rifarsi all’art. 1140 c.c., rubricato Possesso, secondo il quale «Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa», quindi il possesso fisico della cosa (corpus) unito all’animus rem sibi habendi[71]. Tuttavia, per altra parte, la nozione di “produttore di rifiuto” desta diverse perplessità[72] e, secondo alcuni, sarebbe opportuno operare una distinzione tra “possesso” e “detenzione” in quanto in quest’ultima il soggetto si troverebbe in rapporto materiale con il corpus senza, però, avere l’intenzione di appropriarsene in virtù di un’assenza di interesse[73].
Altra dottrina ha sottolineato che, secondo il dettato dell’art. 183 del d.lgs. n. 152/2006, deve sussistere sia l’elemento oggettivo (corpus) sia quello immateriale (animus)[74], altra dottrina, con diretto riferimento al tema dei rifiuti, ha sottolineato che se, in alcuni casi, detenzione e produzione rifiuti coincidano, la prima, a differenza della seconda, integri gli estremi di una situazione possessoria[75], mentre altra parte ha ritenuto che «una conferma della sufficienza anche del solo rapporto con il rifiuto per l’acquisto della qualità di detentore, si trova nel sistema di funzionamento della qualifica di produttore» la cui nozione «ha una valenza che non presuppone necessariamente la materialità del rapporto con il rifiuto per essere acquisita dal suo titolare, ritenendosi invece sufficiente anche il mero rapporto giuridico. Ma il produttore è anche il primo detentore del rifiuto prodotto, con la conseguenza che dove è sufficiente il solo rapporto giuridico con il rifiuto per far assumere il primo status di produttore, medesimo presupposto deve ritenersi sufficiente per l’assunzione dello status di detentore»[76]. La questione, in sostanza, ha dato adito a diverse posizioni sulle quali è intervenuta più volte, e spesso in modo discordanti, la giurisprudenza nel tentativo di individuare conseguenti responsabilità[77].
Nel 2017, ad esempio, il Tribunale di Milano[78], ha sostenuto che il Curatore non andava considerato come un detentore qualificato di rifiuti abbandonati, concorde in questo senso con una sentenza del Consiglio di Stato dello stesso anno[79], così come, riferendosi ai beni del fallito, la Cassazione aveva precedentemente stabilito che il fallimento non sospendeva il possesso ma consegnava i beni al curatore il quale ne diventava “detentore” e non possessore[80]. Veniva escluso, pertanto, che il Curatore fallimentare fosse sia detentore (corpus e animus) dei rifiuti che sono stati abbandonati dal fallito, tuttavia sulla questione dell’abbandono di rifiuti sono state emesse diverse disposizioni in ambito amministrativo, penale e civile.
In ambito amministrativo, ad esempio, il TAR Toscana ha ritenuto, nel passato, che il Curatore andasse considerato il destinatario di un’ordinanza di rimozione rifiuti e questo perché, quando viene dichiarato fallimento, il soggetto si trova privato della possibilità di disporre dei propri beni i quali vanno a confluire nella massa fallimentare che deve essere gestita dal curatore[81]; in seguito, sempre il TAR Toscana modificò in modo radicale indirizzo arrivando a stabilire che i rifiuti che erano stati prodotti dall’imprenditore fallito non andavano intesi come “beni” che potevano essere acquisiti alla procedura concorsuale, arrivando, così, a sostenere l’illegittimità dell’ordine di rimozione imposto al Curatore[82].
Nel frattempo, tuttavia, si sono andate delineando nuove prospettive rispetto alla materia che, pur non confliggendo, si sono distinte per il fatto di focalizzarsi su aspetti differenti. Da una parte, infatti, si è insistito sulla «univoca, autonoma e chiara responsabilità»[83], arrivando a considerare legittimo l’ordine che imponeva di rimuovere i rifiuti e di ripristinare lo stato dei luoghi acquisiti alla procedura concorsuale soprattutto nei casi in cui ciò abbia causato danni particolarmente gravi all’ambiente (come nel caso di sversamento di liquidi pericolosi); dall’altra, invece, si è imposto un orientamento secondo il quale la responsabilità in capo al Curatore doveva limitarsi ai rifiuti che si trovavano ed erano stati prodotti nel corso della gestione provvisoria[84]. Indirizzo, questo, che sarebbe stato confermato a distanza di qualche anno dal Consiglio di Stato[85] e dalla giurisprudenza di merito che negò l’obbligo da parte del Curatore fallimentare di assumere particolari condotte attive per risolvere problemi causati dall’abbandono rifiuti posti in essere dall’imprenditore fallito, sempre che, naturalmente, non avesse proseguito l’attività, situazione, questa, che lo avrebbe escluso «dalla legittimazione passiva dell’ordine di bonifica»[86]. Nella stessa direzione si espresse il Tar di Salerno che fece «salva l’eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull’abbandono dei rifiuti»[87], tema che sarebbe stato sottolineato anche da numerose altre sentenze[88].
A livello giurisprudenziale, quindi, si è assistito al formarsi di un quadro piuttosto composito che ha teso ad assegnare l’obbligo della rimozione, e conseguente ripristino ambientale dei luoghi, a chi si era reso responsabile del loro abbandono in solido con il proprietario del terreno, ma anche al titolare di altro diritto reale, o personale di godimento, si pensi a un affittuario o a un locatore, solo nel caso in cui fosse possibile ravvisare in capo a quest’ultimo una responsabilità a titolo di dolo o di colpa. Sulla questione, nel 2014 con sentenza n. 3274 si è espresso il Consiglio di Stato il quale ha stabilito che «il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare»[89] e che, di conseguenza, l’azienda sottoposta a procedura concorsuale, pur continuando a mantenere la soggettività giuridica e la titolarità del patrimonio, era impossibilita a farne uso avendone subito lo spossessamento (art. 42, R.D. n. 267/1942)[90].
Una parte della dottrina ha evidenziato che le azioni dell’imprenditore dichiarato fallito perdono di efficacia nei confronti dei creditori [91] mentre il curatore (art. 31 R.D. n. 267/42), assumendo l’amministrazione dei suoi beni, si trova nella condizione di poterne disporre; il che, tuttavia, non ne fa un «rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell’amministrazione del suo patrimonio per l’esercizio di poteri conferitigli dalla legge»[92].
A tale proposito una parte della giurisprudenza ha convenuto sul fatto che affidare al curatore, a fini conservativi, l’onere di amministrare il patrimonio dell’imprenditore dichiarato fallito non implicava che ricadessero su di lui gli obblighi che, in origine, erano a carico dell’imprenditore (anche se questi si riferissero a rapporti ancora pendenti all’inizio della procedura fallimentare). Come ha evidenziato una parte della dottrina, in linea con questo orientamento giurisprudenziale, non sono ravvisabili in capo al curatore obblighi generali di subentro in situazioni giuridiche passive di cui era gravato l’imprenditore fallito; dal che ne consegue che si possono ravvisare nei confronti del fallimento un fenomeno di successione, «il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, […] della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa»[93].
Sebbene questo orientamento si sia, nel tempo, consolidato, non sono mancate pronunce[94] anche in senso contrario, le quali, adottando un concetto dilatato di “detenzione”, sono andate incontro al diritto comunitario (Direttiva 2008/98/CE, art. 1, §. 1) secondo il quale i costi relativi alla gestione dei rifiuti possono essere sostituiti, oltre che dal produttore iniziale, anche da quello che, in una fase intermedia, li detiene o da chi li ha detenuti precedentemente secondo la logica del “chi inquina paga”[95]. Secondo il diritto comunitario, dunque, detenere dei rifiuti fa sorgere immediatamente un’obbligazione che presenta un doppio divieto, ossia, da una parte, quello di abbandonare rifiuti e, dall’altra, quello di smaltirli. Secondo la Corte di Giustizia nel caso in cui norme interne impedissero di eseguire tale obbligazione, verrebbe vanificato l’effetto delle disposizioni di livello comunitario[96].
A detta del Tar di Brescia, a parte il proprietario sul cui terreno sono stati abbandonati, senza che ne abbia responsabilità, dei rifiuti, unico a poter invocare l’esimente interna dell’art. 192, comma 3 del T.U.A.[97], è il curatore fallimentare che ne ha assunto la custodia e che non può non farsene carico; orientamento, questo, che ha trovato conferma in una sentenza del Consiglio di Stato n. 3672/2017[98]. In seguito, tuttavia, si è assistito a un tornare in auge della posizione precedente che assegnava «alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell’impresa»[99]. In un’altra pronuncia il Consiglio di Stato ha negato che fosse possibile attribuire al curatore l’obbligo di ripristinare i luoghi in quanto «la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell’impresa fallita»[100].
Recenti sentenze amministrative hanno confermato l’orientamento prevalente[101] anche se la giurisprudenza si è divisa sul tema dell’amianto, ritenendo, che «non si tratta di individuare il responsabile dell’inquinamento ma di intervenire con urgenza a tutela della salute pubblica con obblighi a carico dell’attuale detentore, anche se è il curatore fallimentare»[102] dovendosi applicare, in quel caso, il principio di “chi inquina paga” sempre che non si possa dimostrare che l’inquinamento è stato causato dal precedente proprietario[103].
Gli obblighi del curatore fallimentare in materia di bonifica di rifiuti sono stati oggetto non solo di giudizi amministrativi ma anche civili e penali. La numerosità delle pronunce in ambito civile, tuttavia, rende complesso l’individuazione di un orientamento. Tuttavia, mentre nel 1993 il Tribunale di Lucca aveva sentenziato perentoriamente che spettava al Sindaco e non al curatore fallimentare «provvedere allo smaltimento dei rifiuti tossici o speciali rivenuti nel patrimonio fallimentare»[104], orientamento confermato una decina di anni dopo dal Tribunale di Mantova secondo cui «il curatore fallimentare non può considerarsi destinatario dell’obbligo di ripristino ambientale dell’area occupata dalla società fallita non essendogli addebitabile alcun comportamento colposo nell’abbandono dei rifiuti»[105], mentre assegnava all’Ente Pubblico l’obbligo di bonificare l’area. Più recentemente, il decreto del Tribunale di Milano, sezione fallimentare, ha ulteriormente chiarito il concetto di “detentore” assegnandogli l’aggettivo di “qualificato”[106] (allineandosi all’orientamento prevalente in ambito amministrativo citato)[107] e negando che il costo della bonifica possa ricadere sul Curatore fallimentare (o sui creditori).
La giurisprudenza penale, da parte propria, si è occupata principalmente di fabbricati, al cui interno era presente dell’amianto, di società poste a procedura fallimentare. La Suprema Corte ha stabilito che «la norma incriminatrice invero, sanziona penalmente l’abbandono o il deposito incontrollato di rifiuti solo se imputabile ai ‘titolari di impresa” o ai “responsabili di enti”»[108] e questo perché si tratta degli unici soggetti obbligati a gestire i rifiuti legati alla loro attività imprenditoriale, riconoscendo ai soggetti “comuni”, secondo quando previsto dall’art. 255 del Codice dell’Ambiente, una semplice ammenda di natura amministrativa; se, però, l’azienda viene dichiarata fallita, allora, in tal caso, la responsabilità del titolare si trasferisce al curatore. È stato affermato che non «si tratta, in questi casi, […] di estensione analogica, ma di interpretazione teleologica della norma incriminatrice, secondo la quale, nella soggetta materia, il ruolo del curatore non può ridursi a quello di soggetto “comune”»[109]. La Suprema Corte concludeva che lo spossessamento conseguente al fallimento non scongiurava né la protrazione né la reiterazione del reato e questo in virtù del fatto che i danni prodotti dai rifiuti composti di amianto continuavo ad aumentare anche a seguito del fallimento.
La maggior parte dei dubbi si è posta in rapporto ai sempre più numerosi casi di rifiuti abbandonati da soggetti di cui non era nota l’identità. In tal caso, in base all’art. 192 del T.U.A., i Sindaci hanno dovuto adottare delle ordinanze per imporre ai proprietari di ripristinare i terreni danneggiati; situazione, questa, che ha indotto parte della giurisprudenza ha individuare un perimento all’interno del quale far rientrare il concetto di “colpa” richiesta dall’art. 192 come elemento soggettivo minimo, alternativo al dolo, per dare legittimità all’ordinanza sindacale diretta al proprietario di un’area dalla quale dovevano essere rimossi dei rifiuti abbandonati. Sul punto si è espressa recentemente la sentenza n. 13606/2019 della Cassazione penale[110] che, pronunciandosi su un caso di accantonamento e sversamento di materiale di risulta da parte di ignoti, ha stabilito che l’atteggiamento di inerzia del proprietario del fondo non configurava una condotta illecita e che la medesima soluzione doveva essere adottata anche nel caso di un proprietario che non si attivi per rimuovere i rifiuti e questo in virtù del fatto che la sua responsabilità sussiste solo a fronte di un obbligo giuridico di contrastare il realizzarsi o il mantenere in atto un evento lesivo «che questi può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti». Dal che ne discende che oltre alla consapevolezza da parte del proprietario di un fondo che sullo stesso sono stati abbandonati dei rifiuti e la mancata attivazione per rimuoverli non integrano l’elemento di colpa (art.192, d.lgs. n.152/06) e che, quindi, un provvedimento che ordini la rimozione dei rifiuti basandosi solo sul titolo di detenzione, o di godimento dell’area, dovrà considerarsi illegittimo e potrà essere impugnato davanti al giudice amministrativo.
Dall’analisi della giurisprudenza amministrativa, civile e penale, di fatto, emerge, seppure da presupposti diversi, un orientamento prevalente secondo il quale sul Curatore fallimentare non grava alcun obbligo a smaltire i rifiuti che sono stati prodotti dall’azienda fallita e neppure è tenuto a bonificare zone contaminate dalla precedente attività (sempre che non ci si trovi nel caso di prosecuzione dell’esercizio provvisorio)[111]. Qualora, però, la condotta omissiva, o colposa, da parte del curatore non abbia aggravato la situazione ambientale, egli sarà ritenuto direttamente responsabile di tutti gli oneri derivanti dalla sua diretta condotta[112].
6. La sentenza n. 3/2021 del Consiglio di Stato in materia di responsabilità del Curatore fallimentare
Prima dell’Adunanza Plenaria n. 3/2001, il Consiglio di Stato si era espresso in materia di bonifica ambientale nella precedente Adunanza Plenaria n. 10/2019 che si era espressa sulla responsabilità di una società che, quantunque non responsabile o corresponsabile dell’inquinamento di un terreno, a seguito di un’incorporazione con la società autrice dell’illecito aveva con questa intrecciato una serie di rapporti giuridici, attivi e passivi[113]. Per chiarire il proprio responso il Consiglio di Stato, ancorando le proprie motivazioni all’art. 2504 bis, co. 1 c.c., aveva invocato il brocardo ius commoda eius et incommoda, «cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale».
Nella sentenza successiva, invece, venendo a mancare un fenomeno successorio in universum jus, non si era realizzata quella prosecuzione del patrimonio del soggetto estinto, compresi gli obblighi derivanti a fenomeni di inquinamento ambientale da abbandono rifiuti. L’Adunanza Plenaria, con sentenza n. 3 del 2021 ha individuato nel curatore fallimentare il soggetto cui fa capo l’onere di smaltire i rifiuti prodotti, e abbandonati, dall’azienda fallita e ripristinare la salubrità compromessa dei luoghi, accogliendo, così, la tesi che era già stata espressa dalla V sezione con ordinanza di rimessione n. 5454/2020.
Per ricostruire l’intera vicenda e capire le motivazioni che hanno portato al ribaltamento di quello che, a lungo, è stato l’orientamento giurisprudenziale prevalente, è, dunque, necessario partire dall’Ordinanza del 15 settembre 2020 n. 5454[114] della V Sezione del Consiglio di Stato che chiese all’Adunanza Plenaria di esprimersi sull’ipotetica perdita di rilevanza giuridica di una società dichiarata fallita e gli obblighi derivanti dall’art. 192 del d.lgs n.152/2006 anche qualora il curatore fallimentare si trovasse nella condizione di gestire e aveva la disponibilità materiale dei beni del fallito. La V sezione, richiamando la precedente sentenza n. 10/2019 e rispetto alla Direttiva n. 2004/35/CE, configurava la responsabilità ambientale come tale e non di posizione, in ogni caso oggettiva, orientamento, questo, che ha fornito una linea guida interpretativa per qualsiasi altra disposizione normativa domestica (Direttiva n. 2004/357CE).
Rivela, inoltre, individuare quale sia il perimetro oggetto della sentenza in commento per la quale il curatore non è personalmente “produttore” di rifiuti (ex art. 104 L.F.) ma che ne “subisce” la presenza, trattandosi di materiali di scarto generati prima della pronuncia di fallimento e che l’azienda sottoposta a procedura concorsuale non abbia smaltito. Il che, quindi, esclude il caso di rifiuti che siano stati prodotti o abbandonati da terzi nei confronti dei quali il curatore assume la posizione di “terzo incolpevole” il quale può essere obbligato alla rimozione dei rifiuti abbandonati o a ripristinare i luoghi solo se ha posto in essere una condotta dolosa o colposa[115].
La fattispecie in esame dalla sentenza n. 3 del 2021 ha preso le mosse da un’ordinanza contingibile e improrogabile con cui il Sindaco di un Comune nel quale si trovava un’area dove erano stati abbandonati dei rifiuti, lasciati incustoditi da un’azienda, aveva ordinato al Curatore fallimentare di attivarsi e procedere al recupero della zona contaminata e di predisporre un programma specifico per smaltire i rifiuti dopo averne portato a conoscenza gli uffici comunali competenti. Inoltre, l’Adunanza Plenaria ha evidenziato, richiamando il d.lgs. n. 22/1997, che le misure preventive erano «applicabili anche nei casi in cui le condotte di inquinamento siano state poste in essere prima della sua entrata in vigore, ha ammesso che le attività di bonifica possano essere imposte alla società non responsabile dell’inquinamento, che sia subentrata nella precedente società per effetto di una fusione per incorporazione»[116].
In seguito disciplinate dagli artt. 239 ss. del Codice dell’Ambiente, presentano in linea generale obiettivi volti a salvaguardare l’ambiente di fronte a qualsiasi situazione di eventuali danno o pericolo e che non si trovi presenza di alcuna sanzione dell’autore. Da questa prospettiva, dunque, la bonifica rappresenta uno strumento di natura pubblicistica che non vuole monetizzare la riduzione del relativo valore ma a permetterne il recupero materiale. Dal che ne deriva che la bonifica funge da meccanismo per reintegrare il bene giuridico che è stato danneggiato, funzione che appartiene alla responsabilità civile, il che rimanda al rimedio della reintegrazione in forma specifica secondo quanto disposto dall’art. 2058 c.c. (art. 18, 8° comma, L. n. 349/1986, abrogato dall’art. 318 T.U.)[117].
Si tratta, di fatto, di un orientamento in linea con la giurisprudenza comunitaria secondo cui la responsabilità del Curatore, nel momento in cui si appresta a bonificare i terreni di cui ha acquisito la detenzione a seguito dell’inventario fallimentare dei beni (artt. 87 e ss. L.F.), può, in modo analogo, tralasciare che sia accertata l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno constatato[118]. In conclusione, dunque, secondo quanto sostenuto dall’Adunanza Plenaria, è il Curatore fallimentare a doversi fare carico di ripristinare e smaltire i rifiuti che sono stati abbandonati secondo quanto disposto dall’art. 192 del d.lgs. n.152/2006 e dei costi che gravano sulla massa fallimentare[119].
7. Conclusioni
Il Codice dell’Ambiente, al quale va riconosciuto il merito di aver raccolto in un testo organico tutta la legislazione in materia, ha tralasciato una serie di settori ai quali rinviava e che sono stati normati da altri provvedimenti alcuni dei quali hanno recepito le direttive comunitarie[120]. Recentemente il Massimo Consesso è tornato a confrontarsi con il tema del danno ambientale, già approcciato con sentenza n. 10/2019, arrivando a fornire una chiave interpretativa che, oltre a introdurre nuovi e interessanti elementi nel generico schema logico-argomentativo elaborato in precedenza, ha ampliato la platea di coloro sui quali ricadono gli obblighi di bonifica di un sito sul quale sono stati abbandonati dei rifiuti con conseguente danno ambientale, facendo rientrare nel novero di quelli la figura del Curatore nel caso di sito appartenente ad azienda dichiarata fallita.
La sentenza n. 3/2021, che ha accolto la tesi già adottata dalla medesima sezione remittente, ha indicato una direzione a un orientamento spesso contraddittorio della giurisprudenza amministrativa, penale e civile che, sebbene in parte si fosse già espressa conformemente all’Adunanza Plenaria, non aveva mancato, soprattutto in primo grado, di accettare le motivazioni della curatela esimendola dall’onere di sgombero. La sentenza in commento, tuttavia, accogliendo un orientamento giurisprudenziale europeo ha dimostrato di far propri principi di prevenzione e responsabilità e, di conseguenza, ha riconosciuto all’Amministrazione di poter disporre in modo del tutto legittimo delle misure nei confronti dei Curatori fallimentari in modo che si facciano carico di smaltire rifiuti abbandonati e ripristinare luoghi inquinati. I giudici di Palazzo Spada, pertanto, hanno precisato che il Curatore dall’azienda fallita, diventa detentore (e gestore) dei beni della società, ossia dell’immobile inquinato sui quali esistono i rifiuti, e che, di conseguenza, debba farsene carico.
Secondo quanto disposto dall’Adunanza Plenaria, le misure introdotte con d.lgs. n. 22/97, ora disciplinate dal d.lgs. n.152/2006, artt. 239 ess., si pongono come obiettivo quello di salvaguardare l’ambiente inteso come bene da tutelare da qualsiasi pericolo o danno, non presentando alcuna matrice di sanzione dell’autore. Dal che ne discende che la bonifica da parte del Curatore fallimentare rappresenta uno strumento pubblicistico il cui fine è quello di recuperare il valore del bene giuridico che è stato leso.
Quale puntuazione conclusiva è possibile, ancora un volta, affermare quanto la materia ambientale spinga l'ordinamento, in tal caso attraverso l'intervento della giursprudenza amministrativa, a superare questioni di ordine meramente formale, al fine di garantire la massima tutela all'ambiente, sotto l'egida e compulsata dalla forza normativa e assiologica, tradizionalmente pregnante in materia ambientale, del diritto comunitario.
[1] La bibliografia sulla nozione di ‘rifiuto’ è vastissima si rimanda, anche per i riferimenti ivi contenuti, a M. BENOZZO, L’interpretazione autentica della nozione di rifiuto tra diritto comunitario e nazionale, in Contratto e impresa/Europa, vol. 9, fasc. 2, 2004, 1118-1170.
[2] Ai sensi dell’art. 31 L.F. il curatore “ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato o del comitato dei creditori”. Rileva ricordare che con il d.lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019 è entrato in vigore il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza che si è destinato a sostituirsi alla vecchia legge fallimentare.
[3] C. DE SINNO (a cura di), Principi generali, Titolo III-Ambiente nell’ordinamento italiano, in A. BUONFRATE(diretto da), Codice dell’ambiente e normativa collegata, Torino, 2008, 67-70.
[4] Ex plurimis (in termini paesistici e culturali) L. BIGLIAZZI GERI, Divagazioni su tutela dell’ambiente ed uso della proprietà, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 496; G. ALPA, La natura giuridica del danno ambientale, in P. PERLINGIERI (a cura di), Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, Napoli, 1991, 108; (per una interpretazione del significato giuridico alle sole componenti di acqua, aria, suolo ed ecosistemi protetti) B. CARAVITA, Profili costituzionali della tutela dell’ambiente in Italia, in Politica del diritto, 1989, 578; (perla tutela dei valori territoriali propri della disciplina urbanistica) G. MORBIDELLI, Il danno ambientale nell’art. 18 L. 349/1986. Considerazioni introduttive, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 604). In dottrina, per la posizione a favore delle teorie pluraliste, secondo le quali il termine “ambiente” va inteso unicamente come medium linguistico tramite il quale rinviare a singoli beni che godono di una specifica tutela contro i fatti di inquinamento, ad esempio P. D’AMELIO, voce Ambiente (tutela dell’): diritto amministrativo, in Enc. giur., I, Roma, 1988, 2; M. S. GIANNINI, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15; mentre per le teorie moniste, che considerano l’ambiente come una res in grado di essere oggetto di diritti come quello relativo a un ambiente di vita salubre o di valore esistenziale, A. ANASTASI, Premesse ad uno studio per la qualificazione dell’ambiente naturale come bene giuridico, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, vol., I, I tomo, Milano, 1978, 2; S. PALAZZOLO, Sul concetto di ambiente, in Giur. it., 1989, IV, c. 304. Per un terzo orientamento dottrinale sintesi delle precedenti, M. BENOZZO, F. BRUNO, Legislazione ambientale, Milano, 2003, 1; in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione, anche la giurisprudenza costituzionale: Corte cost., sentenza 26 giugno 2002, n. 282, in Foro it., 2003, I, c. 394; Corte cost., sentenza 26 luglio 2002, n. 407 e Corte cost., sentenza 20 dicembre 2002, n. 536, entrambe Ivi, c. 688; Corte cost., sentenza 14 novembre 2007, n. 378, in Giur. cost., 2007, p. 6.
[5] P. CENDON, Ambiente salubre e violazioni ambientali, in Id., Il risarcimento del danno non patrimoniale, parte speciale, Milano, 2009, 1471-1501.
[6] S. BEATRICE, Ambiente e sviluppo sostenibile. Tra diritto internazionale e ricadute interne, in Percorsi costituzionali, fasc.3, 2016,589-610; M. CASTELLANETA, l’individuo e la protezione dell’ambiente nel diritto internazionale, in Riv.dir.inter., vol. 83, fasc.4, 2000, 913-964.
[7] Si pensi all’International Convention for the Protection of Birds Useful to Agricolture, Parigi, 19 marzo 1902 o il Treaty Between the United States and Great Britain Relating to Boundary Waters, Washington 11 gennaio 1909.
[8] Nonostante la mancata istituzione di un Ente specializzato, l’Onu affidò alla FAO la protezione delle risorse naturali. In seguito, il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) incluse i temi ambientali tra le competenze dell’Onu con la Risoluzione n. 32 (IV).
[9] Carta di San Francisco (1945), disponibile in http://www.studiperlapace.it/
[10] Statuto dell’Onu (1945), Capitolo I, articolo 1, punto 3, disponibile in http://www.unric.org/it/
[11] Nel 1956 fu rinonimata International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources (IUNC), disponibile in http://www.data.iucn.org/
[12] F. PELLEGRINO, Sviluppo sostenibile dei trasporti marittimi comunitari, Milano, 2009, 81 e ss.
[13] Si ricorda, in particolare, la pronuncia della Commissione di Arbitrato Mista USA-CANADA nella vertenza Trail Smelter dell’11 marzo 1941, in United Nations Reports of International Arbitral Awards (UNRIAA), vol. III, p. 1965 e ss.; G. A. HESS, The Trail Smelter, the Columbia River, and the Extraterritorial Applications of CERCLA, in Georgetown International Environmental Law Review, vol. XVIII, 1, 2005, 112-126.
[14] Conferenza di Stoccolma (1972), disponibile in http://www.ecoage.it/conferenza-stoccolma-1972.htm.
[15] Action Plan for the Human Environment (1972), disponibile in http://www.unep.org/ n
[16] Dichiarazione di Principi sull’Ambiente Umano, disponibile in http://www.a21italy.it
[17] Res. n. 2997 (XXVII), Institutional and Financial Arrangements for International Environmental Cooperation, 15 dicembre 1972.
[18] A.W. REITZE JR., Environmenal Policy – It is time for a New Beginning, in Columbia Journal of Environmental Law, 1989, 111.
[19] A partire dal 2004, tuttavia, la Corte Europea ha emanato una serie di sentenze innovative in materia di protezione degli interessi ambientali; si tratta di una serie di precedenti che hanno ampliato la possibilità di effettuare ricorsi di natura ambientale nel contesto della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’uomo. A. SAVARESI, Consiglio di Europa. Corte europea dei diritti dell’uomo in materia ambientale, disponibile in http://www.giuristiambientali.it
[20] Fredin vs. Svezia (n. 01), Application n. 12033/86, sentenza del 18 febbraio 1999.
[21] Ex plurimis: Lopez-Ostra vs. Spagna, Application n. 16798/90, sentenza del 9 dicembre 1994, Guerra e altri vs. Italia, Application n. 14967/89, sentenza del 19 febbraio 1998; Fadeyeva vs. Russia, Application n. 55723/00, sentenza del 9 giugno 2005; Kyrtatos vs. Grecia, Application. 41666/98, sentenza del 22 maggio 2003; Hatton e altri vs. Regno Unito, Application n. 36022/97, ECHR 2003 – VIII Sentenza dell’8 luglio 2003.
[22] Per un approfondimento V. JACOMETTI, Lo scambio di quote di emissione: analisi di un nuovo strumento di tutela ambientale in prospettiva comparatistica, Milano, 2010, 467 e ss.
[23] In particolare, J. BROWN WEISS (a cura di), Engaging Countries. Strengthening Compliance with International Environmental Accords, Cambridge, 2000.
[24] M. POSTIGLIONE, Giustizia e Ambiente Globale, Milano, 2001; M. R. ANDERSON, A. E. BOYLE, Human Rights Approaches to Environmental Protection, Oxford University Press, Oxford-New York, 1998.
[25] Per una bibliografia di diritto amministrativo sul tema fino al ‘90 si rimanda a A. GUSTAPANE, La tutela globale dell’ambiente, Milano, 1991, 15, nota 23.
[26] E. Al MURDEN, La responsabilità per esercizio di attività pericolose a quarant’anni dal caso Seveso, in Cont. impr.,vol. 32, fasc. 3, 2016, 647-662; B. POZZO (a cura di), Seveso trent’anni dopo: percorsi giurisprudenziali, sociologici e di ricerca, Milano, 2008.
[27] A. CROSETTI, I controlli ambientali: natura, funzioni, rilevanza, in Riv. giur. dell’amb., fasc. 6, 2007, 945-989; M. BOTTINI, Evoluzione della normativa in tema di controlli ambientali, in Riv.giur. dell’amb., fasc. 6, 1994, 777-794.
[28] D.P.R. n. 616/77 diede alla funzione amministrativa importanti compiti di tutela ambientale entro il più ampio settore dell’urbanistica; tuttavia non venne meno la frammentazione dei controlli tra i vari livelli di governo e la sovrapposizione delle competenze.
[29] In seguito ridenominato con L. n. 3/2001 “Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio” e poi con L. 17 luglio 2006, n. 233 “Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”.
[30] In precedenza va ricordato che la Legge n. 833/78 aveva stabilito una tappa importante nella materia ambientale, ricomponendo una funzione di controllo unitaria in capo al Servizio Sanitario nazionale e alle USL. La legge aveva assegnato all’Istituto superiore di Sanità e all’Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza del lavoro, molte responsabilità nella materia, congiuntamente con le Unità sanitarie locali.
[31] Il referendum, celebrato il 18 e 19 aprile 1993 su iniziativa dell’associazione Amici della Terra, sancì l’abrogazione delle norme della Legge 833/78 che attribuivano la gestione delle competenze tecnico-scientifiche di controllo e prevenzione dell’inquinamento ambientale al Servizio Sanitario nazionale e alle USL. E. DE MARCO, Istituzioni in cammino: scritti di diritto costituzionale italiano ed europeo, Milano, 2010, 35.
[32] Venne emanato prima il d.lgs n. 274/93 recante “Disposizioni urgenti sulla riorganizzazione dei controlli ambientali e istituzione dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente”, reiterato dal d.lgs n. 395/93 e poi dal d.lgs. n 496/93 che fu convertito in Legge n. 61/94 e successive modificazioni.
[33] Il Governo con d.lgs. n. 170/94 concedeva al Ministero dell’Ambiente di avvalersi nuovamente degli Istituti superiori di sanità e della sicurezza sul lavoro, per attuare una serie di attività connesse a determinati rischi industriali.
[34] M. BOTTINI, Evoluzione della normativa in tema di controlli ambientali, cit., 778.
[35] G. CANGELOSI, Tutela dell’ambiente e territorialità dell’azione ambientale, Milano, 2009, 99 e ss.
[36] S. NESPOR, B. CARAVITA , Diritto costituzionale dell’ambiente, in S. NESPOR, A. L. DE CESARIS (a cura di), Codice dell’ambiente, Milano, 2009, 101 e ss.
[37] R. DE LA SETA, La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista, Milano, 2000, 110.
[38] A. ZITO, I limiti dell’antropocentrismo ambientale e la necessità del suo superamento nella prospettiva della tutela dell’ecosistema, in D. DE CAROLIS, E. FERRARI, A. POLICE (a cura di), Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, 2006, 4-5.
[39] F. FRACCHIA, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, 1996, 120.
[40] N. RUSSO, Filosofia ed ecologia: idee sulla scienza e sulle prassi ecologiche, Napoli, 2000, 325.
[41] B. CARAVITA, La Costituzione dopo la riforma del titolo V, Torino, 2002.
[42] F. ARCADIO, Durata dei vincoli paesistici. Vincoli di cui artt. 2 e 3 della legge n. 1497/12939 e quelli di cui all’art. 2 della legge n. 1187/1968: differenze e conseguenze. Problematiche costituzionali, in N. rass. di leg., dott. e giur., vol. 76, fasc. 9/10, 2002, 1064-1066.
[43] Camera Dei Deputati, La Costituzione della Repubblica nei lavoratori preparatori della Assemblea costituente, vol. 2, 1976, 1134.
[44] A. SIMONCINI, E. LONGO, voce Salute, art. 32 Cost., in R. BIULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, 655-678.
[45] Sul punto V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1970.
[46] C. Cost., sentenza 18 dicembre 1987, n. 559, in Riv. it. dir. lav., 1988, II, 3; C. Cost., sentenza 14 luglio 1986, n. 184, in Giur. Cost., 1986, I, 1430; C. Cass., S.U., sentenza 6 ottobre 1979, n. 5172, in Foro It., 1979, I, p. 2303 con nota di LENER; C. Cost., sentenza 26 luglio 1979, n. 88, in Resp. civ. prev., 1979, 698, con nota di PONZANELLI; C. Cost. sent. 23 luglio 1974, n. 247, in Giur. It., 1975, I, 1; C. Cass., S.U., sentenza 21 marzo 1973 n. 796, in Foro amm., I, 1974, 26.
[47] L. MONTUSCHI, voce art. 32 Cost., in G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, M. BESSOE, Commentario alla Costituzione, Bologna, 1976, 146.
[48] P. FORNARI, La salute quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività nell’ordinamento costituzionale, in Quaderni amm., fasc. 2, 2008, 64-76; C. PANZERA, Legislatore, giudici e Corte Costituzionale di fronte al diritto alla salute (verso un inedito ‘circuito0 di produzione normativa?), in Dir. soc., 2004, 309-388; M. LUCIANI, Il diritto costituzionale alla salute, in Dir. soc., 1980, 768-779.
[49] C. Cost., sentenza 26 luglio 1979, n. 88 in Giur. Cost., 1980, I, 534 e ss.
[50] B. CARAVITA, Diritto pubblico dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 1990, 18 ss.
[51] B. CARAVITA, La bozza si disegno di legge generale in materia ambientale, in Riv. giur. amb., 1994, 325-526.
[52] F. MODUGNO, I nuovi diritti nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino, 1994, 2.
[53] C. Cost., sentenza 30 dicembre 1987, n. 641 in Foro it., 1988, 695-705 con nota di Giampiero, Il danno all’ambiente innanzi alla Corte Costituzionale. Tra gli altri commenti alla sentenza, V. ANGIOLINI, Costituzione e danno all’ambiente: grande problemaper una piccola contesa, in Dir. reg., 1988, 91 e ss.; A. POSTIGLIONE, Il recente orientamento della corte costituzionale in materiale di ambiente, in Riv. giur. amb., 1988, 104-108.
[54] Nella sentenza n. 617/1987 si leggeva che l’ambiente è «un bene immateriale unitario, sebbene si articoli in varie componenti […]. Il fatto che l’ambiente sia fruibile in varie forme e differenti modalità, così come possa essere oggetto di diverse forme che assicurano la tutela dei disparati profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario […]. L’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita» (C. Cost., sentenza 30 dicembre 1987, n. 617 in Giur. Cost., 1987, I, 3688).
[55] Si ricorda che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, si assistette a un aumento esponenziale delle leggi e dei decreti nella legislazione ambientale, tra cui la L. 349/1986, istitutiva del Ministero dell’Ambiente, la Legge-quadro n. 447/1995, sull’inquinamento acustico, il d.lgs. n. 22/1997 (modificato in seguito dal D.P.R. n. 120/2003) recante disciplina per la gestione dei rifiuti, la L. n. 308/2004 che conferì al Governo la delega per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale, delega che trovò attuazione nel d.lgs. n.152/2006 noto anche come Codice dell’Ambiente, quindi la L. 6 agosto 2008, n. 133 che istituì l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).
[56] Tra le altre, sentenza Cons. Stato, sentenza 2 giugno 1994, n. 218, in Giur. Cost., 1994, I, 691.
[57] R. FERRARA, voce Salute (diritto alla), in Noviss. dig. disc. pubbl., vol. XIII, Torino, 1997, 2 e ss.
[58] B. CARAVITA, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 2005, 13.
[59] L. LUGARESI, S. BERTAZZO, Nuovo codice dell’ambiente, Firenze, 2009, 169 e ss.
[60] G. ROSSI, Diritto dell’Ambiente, Torino, 2017, 296 e ss.
[61] C. FELIZIANI, La gestione dei rifiuti in Europa: un’analisi comparata, in Federalismi.it, n. 15, 2017, 1-28.
[62] F. BRUNO, Il principio di precauzione tra il diritto dell’Unione Europea e WTO, in Dir. giur. agr. amb., 2000, p. 569; P. BORGHI, Le declinazioni del principio di precauzione, in Riv. dir. agr., 2005, I, p.716; F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Milano, 2005.
[63] In dottrina, ex plurimis, per la “genesi” del principio si rimanda a V. PEPRETUA, La soluzione “all’italiana” della posizione del proprietario di un sito inquinato non responsabile dell’inquinamento: il suggello della Corte di Giustizia, nota Corte Giust. UE, 4 marzo 2015, in C-534/13, Fipa, in Giur. It., 2015, 1485; S. GRASSI, Problemi di diritto costituzionale dell’ambiente, Milano, 2012, 104 e ss.; G. LO SCHIAVO, La Corte di giustizia e l’interpretazione della direttiva 35/2004 sulla responsabilità per danno ambientale: nuove frontiere, in Riv. it. dir. pubbl. comm., vol. 21, fasc. 1, 2011, 83-138; B. POZZO, La direttiva 2004/35/CE e il suo recepimento in Italia, in Riv. giur. amb., vol. 25, fasc. 1, 2010, 1-80; E. ORLANDO, Prospettive e problematiche nella trasposizione della direttiva 2004/35/CE sulla prevenzione e riparazione del danno all’ambiente, in Riv. giur. amb., vol. 22, fasc. 3/4, 2007, 679-687.
[64] D. A. ROTTGEN, Gestione di particolari categorie di rifiuti, in A. FARLI', D. A. ROTTGEN, Codice dell’ambiente. Commentato. Aggiornato al D.L. 22 marzo 2021 n. 41, Milano, 2021, 146 e ss.
[65] Rileva evidenziare che, nel tempo, la parte IV del T.U.A. ha subito sostanziali modificazioni e aggiustamenti soprattutto in recepimento della normativa europea. Secondo quanto disposto dal d.lgs. n. 205/2010, cosiddetto “quarto correttivo” del T.U.A., che risponderebbe a sue esigenze principali, «Innanzitutto, esso intende adeguare l’ordinamento italiano alle prescrizioni contenute nella direttiva quadro sui rifiuti, visti i diversi casi di contrasto evidenziati dalla giurisprudenza (si pensi alle definizioni di rifiuto e di sottoprodotto). Il decreto intende poi perfezionare ed ottimizzare gli strumenti vigenti ed i relativi sistemi di controllo, per contrastare comportamenti illeciti e pericolosi, nell’obiettivo di ridurre gli impatti negativi derivanti dalla produzione e gestione dei rifiuti sulla salute umana e sull’ambiente. Sul piano dei principi, viene sostituito l’art. 178 TUA e arricchito e valorizzato il quadro normativo contenuto nella Parte IV, che assume così particolare risalto e autonomia sistematica […] Il nuovo art. 179 TUA introduce poi rigorosi standard ambientali, seguendo il concetto base della “gerarchia di rifiuti” previsto dalla direttiva europea». S. BENVENUTI, Raccolta, gestione e smaltimento dei rifiuti in Italia. La complessità del quadro normativo e del riparto delle competenze, in G. CERRINA FERONI (a cura di), Produzione, gestione, smaltimento dei rifiuti in Italia, Francia e Germania tra diritto, tecnologia, politica, Torino, 2014, 76-77.
[66] In materia di rifiuti la posizione dei soggetti che non risultano colpevoli rispetto alla loro produzione è stata oggetto di diverse pronunce e documenti di prassi. G. ATZORI, Chi (non) inquina paga? La giurisprudenza più recente sugli obblighi del proprietario incolpevole, in Ambiente & Sviluppo, 10, 2015, 557-564; F. GRASSI, La Corte di Giustizia conferma che sul proprietario “incolpevole” non grava l’obbligo di effettuare le attività di bonifica, in Riv. quad. dir. amb., 1, 2015, 206-339; B. POZZO, Misure di riparazione del danno ambientale in capo al proprietario non colpevole e applicazione ragione temporis della direttiva 2004/35: note a margine della recente sentenza 4 marzo 2015, nella causa C-534/13, in Riv. giur. amb., n. 1, 2015, 41-46.
[67] Sul punto ex plurimis, U. FANTIGROSSI, Un po’ di chiarezza sui poteri di ordinanza del Sindaco in materia di rifiuti [Nota a sentenza TAR LO Milano, sez. IV, 16 luglio 2009, n. 4379; TAR LO Milano, sez. IV, 2 settembre 2009, n. 4598], in Riv. giur. amb., vol. 25, fasc. 1, 2010, 164-166; F. LA TORRE, Consiglio di Stato: legittimo rimuovere il sindaco che non si adopera con ‘impegno eccezionale’ contro l’emergenza rifiuti, in Amm. it., vol. 65, fasc. 11, 2010, 1590-11591.
[68] Sul punto si era già espressa in maniera concorde una precedenza sentenza del Consiglio di Stato, si rimanda a C. FISCHIETTI, F. VANETTI, Cambio di rotta: il curatore fallimentare è obbligato a rimuovere i rifiuti abbandonati dal fallito [Nota a sentenza: Cons. Stato, sez. IV, 25 luglio 2017, n. 3672], in “Riv. giur. amb. vol. 32, fasc. 3, 2017, 727-730; contra una successiva sentenza sempre del Consiglio di Stato, L. D’ORAZIO, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti. Un sospiro di sollievo (Cons. di Stato, sez. 4, 25 luglio 2017, n 3672, Cons. Stato, sez. 4, 4 dicembre 2017, n. 5668), in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, vol. 40, fasc. 5, 2018, 593-601; C. Stato, 30 giugno 2014, n. 3274, in Il Fall., 2015, 488 con nota di APRILE, Amministrazione del patrimonio del fallito e obblighi del curatore in materia di ripristino ambientale.
[69] A. COVIELLO, Abbandono dei rifiuti e responsabilità del curatore fallimentare (Nota a sentenza) Cass. sez. pen., 1 ottobre 2008, n. 37282, in Dir. giur. agr., al. e amb., vol. 18 fasc. 5, 2009, 343-345; F. PERES, La responsabilità del curatore per l’abbandono dei rifiuti prodotti dall’impresa fallita (Nota a sentenza Cass. sez. III pen., 1 ottobre 2008), in Riv. giur. amb., vol. 24, fasc. 1, 2009, 180-184. Quest’ultimo segnalala precedente sentenza del 14 dicembre 2004, n. 48061 dove la C. Cass., sez. III penale, che aveva riconosciuto la responsabilità del curatore fallimentare sostenendo che «nel merito esisteva la prova che l’area in questione era stata sgomberata da rifiuti e materiali riscontrati nei precedenti sopralluoghi (nota del NOE n. 11/05 del 3 ottobre 2000) e comunque la società S. era fallita a partire dal 26 gennaio 1999, sicché la responsabilità nella custodia grava sul curatore fallimentare».
[70] M. BENOZZO, La gestione dei rifiuti, in A. GERMANO', E. R. BASILE, F. BRUNO, M. BENOZZO, Commento al Codice dell’ambiente, Torino, 2013, 582; P. PIACENZA, Definizioni e classificazioni (artt. 183-184), in M. BUCELLO, L. PISCITELLI, S. VIOLA (a cura di), VAS, VIA, AIA, rifiuti, emissioni in atmosfera. Le modifiche apportate al Codice dell’Ambiente dai decreti legislativi 128/2010 e 205/2010, Milano, 2012, 812 e ss.
[71] F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2011, 225.
[72] D. ROTTGEN, Gestione di particolari categorie di rifiuti, cit., 145.
[73] Ivi, p. 67.
[74] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, a cura di F. ANELLI e C. GRANELLI, Milano, 2011, 336.
[75] M. BUSA', P. COSTANTINO, La disciplina dei rifiuti, Santarcangelo di Romagna, 2012, 209 e ss.; M. D’ONOFRIO, S. CALTABIANO, Scarichi e rifiuti. Commentario degli illeciti penali, Santarcangelo di Romagna, 2009, 163 e ss.
[76] M. BENOZZO, La gestione dei rifiuti, cit., 594.
[77] F. BRUNO, M. BENOZZO, La responsabilità civile del detentore dei rifiuti: problemi interpretativi e prospettive, in Contratto e impresa, vol. 18, fasc. 1, 2002, 322-349.
[78] Trib. Milano, sez. fall., sentenza 8 giugno 2017, in Rass. Giur., n. 11, dicembre 2017, 144.
[79] Cons. di Stato, sez. V, sentenza 7 giugno 2017, n. 2724.
[80] Cass. civ., sentenza 4 settembre 2015, n. 17605, Rv. 636403; conforme Cass. civ. sez. II, sentenza 11 agosto 2005, n. 16853, in Giust. civ., Mass., 2005, 9.
[81] T.A.R. Toscana, sez. II, sentenza 28 aprile 2000, n. 780, in Fall. Soc., S. e Com. Pietrasanta, Ragiusan, 2000, f. 198, 125.
[82] T.A.R. Toscana, sez. II, sentenza 1° agosto 2001, n. 1318, in Fall., 2002, 1130.
[83] T.A.R. Brescia, sez. I, sentenza 9 gennaio 2017, n. 38.
[84] T.A.R. Liguria, sentenza 3 ottobre 2000, n. 1024 «Il curatore è immune da responsabilità per i danni causati durante la gestione dell'imprenditore fallito, perciò il terzo danneggiato deve insinuare il credito riconosciuto a titolo di risarcimento nel passivo del fallimento, ma risponde tuttavia direttamente dei danni causati durante il tempo della sua gestione, sicché è suo obbligo approntare tutti i mezzi necessari per evitare ogni possibile rischio».
[85] Cons. di Stato, sez. IV, sentenza 24 luglio 2003, n. 4238, in Foro it., Rep., 2004, voce Concorso a pubblico impiego, n. 85.
[86] Cons. di Stato, sentenza 5 giugno 2009, n. 3765; T.A.R. Toscana, sentenza 21 gennaio 2011, n. 137; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, sentenza 31 ottobre 2012, n. 385.
[87] T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, sentenza 13 ottobre 2020, n. 1383.
[88] T.A.R. Sicilia, Catania, sentenza 5 settembre 2018, n. 1764; T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, sentenza 27 maggio 2010, n. 3543; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, sentenza 18 ottobre 2010, n. 11823; T.A.R. Toscana, Firenze, sez. II, sentenza 17 aprile 2009, n. 66.
[89] Cons. di Stato, sez. V, sentenza 30 giugno 2014, n. 3274; Cons. di Stato, sentenza 16 giugno 2009, n .3885; Cons. di Stato, sentenza 12 giugno 2009, n. 3765.
[90] L. BREGANTE (a cura di), Le azioni a difesa della proprietà e del possesso, Torino, 2012, 459 e ss.
[91] A. CONCAS, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in diritto.it, 5 giugno 2019.
[92] Cass. civ., sez. I, sentenza 23 giugno 1980, n. 3926; conforme Cons. di Stato, sez. V, sentenza 12 marzo 2020, n. 1759; Cass. civ., sez. I, sentenza 14 settembre 1991, n. 9605; T.A.R. Cagliari, sez. II, sentenza 27 agosto 2019, n. 722; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, sentenza 03 marzo 2017, n. 520; T.A.R. Trento, sez. I, sentenza 20 marzo 2017, n. 93; T.A.R. Toscana, sez. 21, sentenza 21 gennaio 2011, n. 137.
[93] F. APRILEe, Amministrazione del patrimonio del fallito e obblighi del curatore in materia di ripristino ambientale, in Fall., 4, 2015, 491-495.
[94] T.A.R. Piemonte, Torino, sez. I, sentenza 2 gennaio 2019, n. 4; T.A.R. Piemonte, sez. I, sentenza 09 maggio 2018, n. 562; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, sentenza 12 maggio 2016, n. 669.
[95] Sul punto, A. SOLA, Oneri di bonifica e ruolo del proprietario incolpevole: applicazione del principio ‘chi inquina paga’ [Nota a sentenza] T.A.R. Lombardia-Brescia, Sez. 1, 15 gennaio 2021, n. 47], in Dir. e giur. agr., al. e dell’amb., vol. 39, fasc. 1, 2021, 1-9; M. RUSSO, ‘Chi inquina paga?”: la multiforme applicazione del principio della giurisprudenza nazionale in tema di ripartizione degli obblighi di risanamento ambientale, in Riv. Giur. dell’ed., fasc. 4, p.te 1, 2017, 889-922. Per la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, E. MASCHIETTO, La Corte di Giustizia conferma l’ammissibilità delle normative derogatorie in ‘peius’ al principio ‘chi inquina paga’: il caso dell’Ungheria [Nota a sentenza CGUE, sez. II, 13 luglio 2017, causa C-129/16], in Riv. giur. amb., vol. 32, fasc. 3, 2017, 490-500; C. CARRERA, La posizione di garanzia del proprietario del sito alla luce del principio ‘chi inquina paga’ [Nota a sentenza della Corte di Giustizia UE, sez. II, 13 luglio 2017, causa C-129/16], in Urb. app., vol. 21, fasc. 6, 2017, 818-823.
[96] CGUE. sez. IV, 3 ottobre 2013 - C-113/12, Brady, punti 74-75; CGUE, 7 settembre 2004, Van de Walle e alt., C-1/03, Racc. p. I-7613, punto 56; CGUE sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyon kuntaytynab hallitus, Racc. I-3533.
[97] L’esimente prevista all’art.192, comma 3 del d.lgs. n. 152/2006 può essere riconosciuta solo a favore dichi non sia detentore dei rifiuti, come nel caso del proprietario incolpevole del terreno. Sul punto Cons. di Stato, sez. IV, sentenza3 dicembre 2020, n. 7657 che ha affermato che «prima di ordinare la rimozione dei rifiuti abbandonati ed il ripristino dello stato dei luoghi, il Comune deve accertare l’elemento soggettivo (dolo o colpa) in capo al proprietario non responsabile dello sversamento dei rifiuti».
[98] F. VANETTI, C. FISCHETTI, Cambio di rotta: curatore fallimentare è obbligato a rimuovere i rifiuti abbandonati dal fallito, in Riv. Giur. Amb., vol. 32, fasc. 4, 2017, 727-730; A. GEREMEI, Abbandono rifiuti, curatore fallimentare obbligato a rimozione e ripristino, in Reteambiente.it, 27 gennaio 2021.
[99] T.A.R. Lombardia-Brescia, Sez. I, 9 gennaio 2017, n. 38.
[100] Cons. Stato, sentenza 4 dicembre 2017, n. 5668; per la dottrina, L. D’ORAZIO, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti. Un sospiro di sollievo, in Fall., 5, 2018, 586-681; F. VANETTI, Conflitto giurisprudenziale sugli obblighi del curato per l’abbandono di rifiuti [Nota a sentenza: Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5668], in Riv. giur. amb., vol. 33, fasc. 1, 2018, 158-160.
[101] T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, sentenza 13 ottobre 2020, n. 2595; TA.R. Sicilia, Catania, sez. I, sentenza 5 settembre 2018, n. 1764.
[102] T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, sez. I, sentenza 12 ottobre 2015, n. 441 il quale si era espresso nei seguenti termini «Il principio “chi inquina paga” dedotto dal ricorrente non è applicabile nel caso della materia “amianto” perché non si tratta di individuare il responsabile dell’inquinamento ma di intervenire con urgenza a tutela della salute pubblica con obblighi a carico dell’attuale detentore, anche se è il curatore fallimentare. Se nel caso d’inquinamento del suolo e/o delle falde prodotto da complessi industriali in seguito dismessi o ceduti ad altri imprenditori e riconvertiti o entrati a far parte di procedure concorsuali è applicabile il principio “chi inquina paga” a condizione, ovviamente, che si dimostri che l’inquinamento è stato provocato dal precedente gestore dell’impianto, nel caso dell’amianto la legge 257/1992 impone sorveglianza continua a tutela della salute e obbliga passivamente il soggetto che detiene il bene nel momento in cui si verificano le condizioni per l’applicazione della normativa speciale».
[103] Conforme T.A.R. Piemonte, sez. I, sentenza 09 maggio 2018, n. 562.
[104] Sebbene in sede civile le sentenze siano meno numerose, rileva ricorda la prima pronuncia del 1993, quando ancora era vigente il D.P.R. n. 915/1982, Trib. Lucca 5 novembre 1993, Fall. Gazzella Caris c. Sindaco Comune Lucca, in Giust. civ., 1994, I, p. 526 dove si stabiliva in modo perentorio che «Qualora, in sede di inventario, il curatore apprenda rifiuti tossici o speciali prodotti dall’imprenditore fallito, spetta al sindaco, come ufficiale del governo e non al curatore provvedere allo smaltimento degli stessi. Pertanto può essere concesso a favore del curatore un provvedimento di urgenza con il quale si ordini al sindaco di provvedere allo smaltimento dei detti rifiuti».
[105] Trib. Mantova, 6 marzo 2003, in Giur. Merito, 2003, p. 2280 con nota di Rosa Bian, Il curatore fallimentare non è obbligato al ripristino ambientale dell’area occupata dalla società fallita.
[106] Trib. Milano 8 giugno 2017, Est. D’Aquino, in ilcaso.it, 6 luglio 2017.
[107] Cfr. T.A.R. Brescia, sent. n. 669/2016, cit. e Cons. di Stato, sent. n. 3672/2017, cit.
[108] A. COVIELLO, Abbandono dei rifiuti e responsabilità del curatore fallimentare [Nota a sentenza] Cass. pen., sez. III, sent.1 ottobre 2008, n. 37282, in Dir. giur. agr., al. e amb., vol. 18, fasc. 5, 2009, 343-345.
[109] Cass. civ., sez. III, sentenza 1 ottobre 2008, n. 37282, cit.
[110] Cass. pen. sez, III, sentenza 28 marzo 2019 n. 13606.
[111] Ex plurimis T.A.R. Toscana, sez. II, sentenza 8 gennaio 2010, n. 8; C. Stato, 16 giugno 2009, n. 3 885, in Riv. giur. ambiente, 2010, p. 156 con nota di PERES, Obbligo di bonifica, accertamenti istruttori e presunzioni; C. Stato, sentenza 29 luglio 2003, n. 4328; T.A.R. Sardegna, sez. II, sentenza 11 marzo 2008, n. 395; T.A.R. Lazio, sentenza 12 marzo 2005, n. 304; T.A.R. Abruzzo, sentenza 17 dicembre 2004, n. 1393; T.A.R. Toscana, sez. II, sentenza 1° agosto 2001, n. 1318; contra C. Stato, sez. IV, 25 luglio 2017, n. 3672, in Fall., 2018, p. 586 con nota di D’ORAZIO, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti. Un sospiro di sollievo; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, sentenza 12 maggio 2016, n. 669.
[112] F. C. TEDESCHI, Adunanza Plenaria: ricade sul curatore fallimentare l’onere di ripristino e smaltimento dei rifiuti ai sensi dell’art. 192 D.lgs. n. 152/2006, in Diritto Amministrativo.it, anno XIII, n. 5, 2021.
[113] Cons. Stato, A.P., sentenza 22 ottobre 2019, n. 10, punto 8.4; sul punto M. LAGGIO, Obblighi di bonifica e contaminazioni pregresse: la decisione dell’Adunanza Plenaria, in Riv. giur. amb., 1, 2020, 156-177; D. MINELLI, Danno ambientale e obblighi di bonifica: la responsabilità della società incorporata, in Quad. amm., 2020, 56-71; R. LEONARDI, L’oggettivizzazione della responsabilità in tema di bonifiche ambientali e l’affermazione dell’ambiente come bene inviolabile, in Riv. giur. ed., 6, 2019, 1, 1548-1566.
[114] L. FACONDINI, All’Adunanza Plenaria l’attuazione del principio del “chi inquina paga”, in diritto.it, 21 ottobre 2020.
[115] P. PIZZA, Le regole per attribuire al curatore la qualifica di “detentore dei rifiuti” e per addossare i connessi oneri economici alla massa fallimentare, in ilfallimentarista.it, 23 marzo 2021; per una valutazione comparatistica si rimanda a C. CARRERAa, La Corte UE (de)limita l’incidenza del diritto europeo sulla disciplina delle bonifiche, nota a Corte Giust. UE, 4 marzo 2015, in C-534-13, Fipa, in Urb. e app., 2015 e citata bibliografia, par. nota 26.
[116] Sul punto E. FELICI, C. LEONARDI, Obblighi di bonifica del sito inquinato: he ha celato i rifiuti, il proprietario del fondo risponde a titolo di dolo con il soggetto che ha concretamente determinato il danno (anche se affittuario), in Riv. giur. amb. online, n. 19, marzo 2021, 1-3.
[117] R. CERRATO, Danno ambientale: definizione, riferimenti giurisprudenziali con eventuale riconoscimento, in diritto.it, 8 maggio 2020.
[118] CGUE, sez. II, 13 luglio 2017, C-129/16 Ungheria c. Commissione europea; L. AGUZZI, Curatela fallimentare e bonifica del sito inquinato, in dirittobancario.it, 11febbraio 2021.
[119] G. GABASSI, Gli obblighi ambientali del curatore fallimentare. Note a margine di C. Stato 3/2021, in Diritto della Crisi.it, 14 aprile 2021.
[120] Si pensi al d.lgs. 26 giugno 2015, n. 105 (attuazione della Direttiva 2012/18/UE), d.lgs. 14 marzo 2014 n. 49 (attuazione della Direttiva 2012/19/CE), d.lgs. 13 agosto 2010 n. 155 (attuazione della Direttiva 2008/50/UE), L. 26 ottobre 1995, n. 447 (Legge quadro sull’inquinamento acustico) e L. 22 febbraio 2001 n. 36 (Legge quadro in materia di inquinamento elettromagnetico).