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Pubbl. Sab, 12 Set 2015

L´istituto dell´affidamento in prova al servizio sociale

Giuseppe Guida Petraglia


Panoramica dell´istituto dell´affidamento in prova ai servizi sociali. Disciplina e novità introdotte


Il decreto legge 146/2013 cd svuotacarceri, convertito in legge 10/2014, ha innovato la previgente disciplina riguardante l'istituto dell affidamento in prova al servizio sociale, consentendo di accedere a tale beneficio non solo ai condannati in via definitiva che devono scontare una pena non superiore a 3 anni ma anche ai condannati ad una pena non superiore ai 4 anni di reclusione.

Il decreto legge 146/2013 cd svuotacarceri, convertito in legge 10/2014, ha innovato la previgente disciplina riguardante l'istituto dell affidamento in prova al servizio sociale, consentendo di accedere a tale beneficio non solo ai condannati in via definitiva che devono scontare una pena non superiore a 3 anni ma anche ai condannati ad una pena non superiore ai 4 anni di reclusione.

Mi riferisco al nuovo comma 3 dell art. 47 ord. pen., il quale cosi recita: "l affidamento in prova può, altresì, essere concesso  al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro  anni  di  detenzione,  quando  abbia   serbato,   quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare  ovvero  in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di  cui  al comma 2”.

Ma cerchiamo di spiegare brevemente l'istituto: l'affidamento in prova è una misura alternativa alla detenzione e si applica a quei soggetti condannati con sentenza passata in giudicato, già in fase di esecuzione. Si tratta di affidare il condannato ad un servizio sociale, esterno all’istituto penitenziario, per il periodo di pena residua, stante la sussistenza di determinati presupposti incentrati su una valutazione di concreta efficacia rieducativa e di idoneità preventiva del beneficio penitenziario.

L’intento deflativo del nuovo comma 3 bis dell’art. 47 ord. pen. è evidente tanto dal titolo della legge di conversione (“Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”) quanto dai lavori preparatori; tuttavia appare poco chiara la ragione della disarmonicità sistematica, che l'aumento del limite di pena in presenza del quale si può accedere al beneficio, ha creato.

Infatti, il d.l. 146/2013 non ha modificato l’art. 656 coma 5 c.p.p. riguardo la possibilità, per il magistrato del pubblico ministero, di sospendere l’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati in stato di libertà che potrebbero beneficiare di una misura alternativa alla detenzione.

Oggi la sospensione dell’ordine di esecuzione è riconosciuta solo per i condannati in stato di libertà che abbiano riportato una pena definitiva inferiore a 3 anni (così da poter chiedere l’affidamento in prova); a 4 anni solo per la detenzione domiciliare; a 6 anni per l’affidamento in prova speciale c.d. “terapeutico” (artt. 90 e 94 del testo unico sugli stupefacenti).

Dunque, per i soggetti liberi che siano stati condannati ad una pena detentiva in carcere compresa tra 3 e 4 anni e che intendano godere della misura alternativa più ampia, ai sensi del nuovo comma 3 bis dell’art. 47 ord. pen., non é prevista alcuna sospensione dell’ordine di esecuzione, per cui l’ingresso in carcere è necessario per poi poter chiedere il beneficio.

Si tratta di un distorto meccanismo che é passibile di dichiarazione di illegittimità costituzionale in riferimento sia all’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza e principio di ragionevolezza) sia all’art. 27 comma 3 Cost. (finalità rieducativa della pena).

Innanzitutto, la mancata sospensione dell’ordine di carcerazione per i soggetti liberi condannati a una pena detentiva compresa tra i 3 e i 4 anni determina un’ingiustificata disparità di trattamento tra condannati liberi e condannati detenuti in carcere, in favore di questi ultimi.

Inoltre, è intaccato il c.d. principio di ragionevolezza delle leggi ancorato al principio di uguaglianza, dal momento che una modifica legislativa avente un intento di deflazione carceraria dovrebbe sia favorire l’uscita dal carcere per i soggetti già privi della libertà sia evitare l’ingresso di quelli, in stato di libertà, che vengano colpiti dalla definitività del titolo esecutivo di condanna. 

Infine, è minata, a mio avviso, anche la finalità rieducativa della pena, dato che un così celere ingresso in carcere, volto alla concessione dell’affidamento in prova, non avrebbe alcun contenuto risocializzante.

Mi chiedo, quindi, se questa incongruenza è destinata a trovare il suo giusto epilogo a seguito di un controllo della Corte Costituzionale, nel caso  in cui ad esempio un Tribunale di Sorveglianza ne sollevi la relativa questione, oppure alla correzione ad opera di un più assennato legislatore.