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Pubbl. Mar, 23 Feb 2021

Esdebitamento: l´inopponibilità del decreto ingiuntivo non munito di esecutorietà ex art. 647 c.p.c.

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Angelantonio Pellecchia
Funzionario della P.A.Università degli Studi Suor Orsola Benincasa



Il Tribunale di Firenze con l´ ordinanza del 12 giugno 2020 ha sancito la non applicabilità della normativa fallimentare nell´ambito delle procedure da sovraindebitamento. Nello specifico, in tema di opponibilità del decreto ingiuntivo privo di esecutorietà ai sensi dell´articolo 647 c.p.c.


ENG The Court of Florence with the order of 12 June 2020 sanctioned the non applicability of the bankruptey legislation in the context of over indebtedness procedures. Specially, regarding the enforceability of the injuction without enforceability pursuant to article 647 of the Italian Civil Code.

Sommario: 1. Premessa; 2. La liquidazione del patrimonio; 3. La questione giuridica; 4. Applicazione analogica per la liquidazione controllata: profili comparati con la liquidazione giudiziale alla luce del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza

1. Premessa

Il provvedimento in esame, ovvero l'ordinanza del 12 giugno 2020 del Tribunale di Firenze, si sofferma sulla non applicabilità della normativa fallimentare in tema di opponibilità del decreto ingiuntivo privo di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. nelle procedure di sovraindebitamento.

In secondo luogo, il Tribunale ha posto attenzione all’opponibilità delle cessioni dei crediti oggetto della domanda di partecipazione alla liquidazione.

Infine, il Tribunale Fiorentino è intervenuto ad esaminare anche i limiti di modificabilità dello stato passivo.

2. La liquidazione del patrimonio

Per rendere più agevole la comprensione della questione affrontata dal Tribunale di Firenze occorre brevemente soffermarsi sull'istituto della liquidazione del patrimonio.

Nell’assumere la gestione del patrimonio di liquidazione, il liquidatore deve verificare l’attendibilità della documentazione allegata alla domanda e formare l’inventario dei beni da liquidare.

Entro trenta giorni dalla formazione dell’inventario elabora un programma di liquidazione, che comunica al debitore ed ai creditori e deposita presso la cancelleria del Tribunale.

Le vendite poste in essere in esecuzione del programma di liquidazione devono essere effettuate dal liquidatore mediante procedure competitive adeguatamente pubblicizzate, che consentano la massima informazione e partecipazione degli interessati.

Non è richiesto il rispetto delle norme del codice di procedura civile sulle esecuzioni individuali. Trattandosi però, pur sempre, di una vendita giudiziari, resta fermo in ogni caso il ruolo di controllo del giudice, il quale è chiamato verificare la conformità degli atti dispositivi al programma di liquidazione ed ha anche il potere di sospenderli in presenza di gravi e giustificati motivi[1].

Al giudice spetta inoltre autorizzare lo svincolo delle somme ed ordinare la cancellazione dei vincoli sui beni, così da realizzare il c.d. effetto purgativo delle vendite forzate.

Nulla prevede la legge circa le modalità di ripartizione dell’attivo, ferma restando la distinzione dei creditori in prededucibili, privilegiati e chirografari.

La dottrina al riguardo ha affermato che possono richiamarsi i principi della disciplina fallimentare, con la conseguenza che il concorso dei creditori sarà in concreto attuato dal liquidatore mediante una serie di riparti parziali del ricavato di liquidazione, ed un riparto finale da realizzare dopo la presentazione del conto della gestione[2].

La procedura rimane aperta sino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e, in ogni caso, per una durata minima di quattro anni successivi al deposito della domanda di ammissione. Trascorso questo termine ed accerta la completa esecuzione del programma, il giudice dispone con decreto la chiusura della procedura.

Al termine della procedura, il debitore persona fisica è ammesso al beneficio dell’esdebitazione per ottenere la liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali[3].

A tal fine è necessario, però, che lo stesso presenti i requisiti di meritevolezza determinati dalla legge e che la procedura abbia consentito di soddisfare almeno in parte i creditori concorsuali, come indicato nell'art. 14 terdecies della legge n. 3/2012.  

Non è meritevole il debitore al quale è imputabile lo stato di sovraindebitamento per aver fatto ricorso al credito in modo colposo e sproporzionato rispetto alle sue capacità patrimoniali.

Il debitore perde il requisito di meritevolezza anche quando, nei cinque anni precedenti l’apertura della liquidazione o nel corso della stessa, ha posto in essere atti in frode ai creditori, pagamenti o altri atti dispositivi del proprio patrimonio, ovvero simulazioni di titoli di prelazione, allo scopo di favorire alcuni creditori a danno di altri. Non può, fra l’altro, ottenere l’esdebitazione chi ha conseguito una condanna penale definitiva per reati attinenti allo svolgimento di una procedura di sovraindebitamento.

Infine, il debitore deve avere mantenuto una condotta collaborativa ed operosa durante la procedura. Egli deve,  in particolare aver cooperato al regolare, rapido ed efficace svolgimento della procedura; aver risolto un’attività produttiva di reddito o quanto meno cercato un’occupazione, senza rifiutare ingiustamente proposte di impiego. 

In presenza dei sopra indicati requisiti, richiesti dall'articolo 14 terdecies della legge n. 3/2012, l’esdebitazione viene concessa dal giudice su richiesta del debitore, da presentare entro un anno dalla chiusura della procedura, e sentiti i creditori non integralmente soddisfatti[4].

Il provvedimento può essere impugnato dai creditori mediante reclamo al tribunale; esso comunque è sempre revocabile se risulta che il debitore ha compiuto atti in frode ai creditori, violato la par condicio, oppure ha con dolo o colpa grave rappresentato infedelmente il proprio stato patrimoniale.

Per effetto del decreto di esdebitazione, tutti i creditori concorsuali ancora non integralmente insoddisfatti sono dichiarati inesegibili. Diversamento dal fallimento l'esdebitazione si prouduce solo per l'eccedenza risponde alla percentuale attribuita dalla liquidazione ai creditori concorrenti di pari grado (art. 144 l. fall.). Nè viene stabilito che l'esdebitazione lascia l'esdebitazione lascia impregiudicato il diritto del creditore di rivalersi per l'intero verso i garanti del debitore esdebitato, ma anche questo principio può certamente ricavarsi in via interpretativa: sia perchè il credito verso l'esdebitato non è estinto, ma solo inesigibile nei suoi confronti; sia perchè la funzione stessa della garanzia è proprio quella di tutelare il creditore in caso di mancato adempimento da parte del debitore garantito[5].

L’esdebitazione non opera tuttavia per alcune categorie di debiti: debiti di mantenimento e alimentari; debiti da responsabilità extracontrattuale, sanzioni pecuniarie penali ed amministrative che non siano accessorie a debiti estinti; debiti fiscali accertati successivamente all’apertura della procedura in ragione della conoscenza di nuovi elementi.

3. La questione giuridica

Il caso in esame ha origine da un procedimento di liquidazione del patrimonio ex artt.14 ter e ss. L. n. 3/2012[6], proposto dalla debitrice in una procedura esecutiva immobiliare.

Più precisamente, tale istanza veniva proposta dopo la vendita dell'immoblie ma antecedentemente alla formazione del progetto di distribuzione della somma ricavata. Tuttavia, il Tribunale di Firenze dichiarava ammissibile accesso ad un debitore alla liquidazione del patrimonio come disciplinata dalla legge sul sovraindebitamento[7].

In data 12 ottobre 2019, il liquidatore procedeva alla redazione dello stato passivo ammettendo, senza riconoscere alcun privilegio, il credito vantato dall’ istituto di credito. 

Nel progetto summenzionato si proponeva l'ammissione in via chirografaria del credito ipotecario della banca ma non veniva ugualmente ammesso il decreto ingiuntivo per le spese della procedura esecutiva. Infatti, il decreto ingiuntivo prodotto in giudizio dalla banca risultava, però, privo della formula di esecutorietà ex art. 647 c.p.c.. Quest’ultimo aveva data anteriore all'apertura della procedura, quindi non opponibile alla stessa[8].

All'udienza del 13 febbraio 2020 fissata per la formazione del passivo veniva contestato dal difensore dell'istituto di credito il difetto di formula di esecutorietà del decreto ingiuntivo ex art. 647 c.p.c.

Tale regola è ricavabile dalle norme delle procedure fallimentari. Diversamente, il difensore argomentava che la specialità del principio e la voluta omissione del legislatore a una regola di tal fatta, nella legge 3/2012, ne rendevano impossibile l'applicazione analogica.  

In special modo, l’istituto di credito chiedeva la modifica del progetto dello stato passivo.

Orbene, il giudice si riservava per la decisione che scioglieva con ordinanza del 12 giugno 2020.

Il giudice rilevava una serie di differenze applicative dell’art. 647 c.p.c., tali da fare un’analisi dell’applicabilità della norma alle procedure da sovraindebitamento. Nell'ambito del procedimento fallimentare è principio consolidato, in giurisprudenza, che il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale - idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l'ammissione al passivo - solo nel momento in cui il giudice, dopo averne constatato la notificazione, lo dichiari, in mancanza di opposizione o di costituzione dell'opponente, esecutivo ai sensi dell'art. 647 c.p.c.

Tale funzione, devoluta al giudice dalla norma in esame, consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all'interno del processo d'ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Differentemente dalla valutazione effettuata nel procedimento fallimentare dal cancelliere ex art. 124 o dall’art. 153 disp. Att. c.p.c.

Precisamente, nel procedimento ex art. 647 c.p.c. la funzione del giudice è la verifica della sussistenza di nullità afferenti la notifica del decreto ingiuntivo, che ne abbiano impedito tempestivamente ed effettiva conoscenza da parte dell’intimato[9].

Occorre evidenziare che il decreto ingiuntivo non munito del decreto di esecutività,  prima della dichiarazione di fallimento, non è opponibile alla procedura.

Neppure nell'ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente.

Infatti, con il fallimento ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori, ai sensi dell'art. 52 l.fall. Con i conseguenti oneri probatori e secondo le regole stabilite dagli artt.92 ss. l.fall. in sede di accertamento del passivo attraverso la disamina della documentazione sulla base della quale si fonda il credito[10].

Considerazioni non opinabili del tribunale fiorentino rimarcano la distinzione tra curatore e liquidatore, ove è solo al primo che si ricollegano le disposizioni di cui all'art. 43 l.fall., secondo cui il curatore sta in giudizio in tutte le controversie relative ai rapporti patrimoniali del fallito compresi nel fallimento.

Inoltre, le disposizioni agli artt. 43 e 52, l.fall. non sono suscettibili di interpretazione analogica e non si rinvengono nell'ambito della disciplina della liquidazione del patrimonio.

Invero, a conclusioni differenti si può giungere leggendo l’art. 143 c.c.i.i.[11] che riproduce pedissequamente l’art. 43 l. fall, norma tra l’altro correttamente applicabile alla liquidazione controllata per esplicito richiamo. Inoltre, in tale procedura non si verifica nessuna interruzione dei procedimenti nei quali il sovraindebitato è parte attrice o convenuta.

Nel caso di specie, ove è corretto il solo riferimento alla legge sul sovraindebitamento[12], non subentrando il liquidatore nei rapporti passivi del debitore che ne rimane pienamente titolare, non sussiste nella liquidazione del patrimonio quell'esigenza di accertamento del passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo che l'art. 647 c.p.c. soddisfa.

Invece, nel fallimento il curatore è soggetto terzo rispetto al debitore.

Ebbene, seppur  nella liquidazione del patrimonio si realizza l'effetto di spossessamento del debitore, ugualmente a quanto si realizza in parallelo nella procedura fallimentare, il liquidatore - a differenza del curatore – non subentra in tutte le controversie del diritto patrimoniale del sovra indebitato[13].

Bensì esclusivamente nelle cause attive volte al recupero dei beni e dei crediti compresi nella liquidazione (art. 14-decies, L. n. 3 del 2012).

Mentre, lo stesso non risulta avere legittimazione passiva nelle cause passive; considerato che l'effetto di inopponibilità del decreto ingiuntivo non munito di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. non può farsi derivare nemmeno dall'equiparazione del decreto di apertura della liquidazione al pignoramento, ai sensi dell'art. 14-quinquies, L. n. 3 del 2012.

Di regola, visto il mancato subentro del liquidatore nei rapporti passivi del debitore, che ne rimane l’unico titolare, si esclude la sua posizione di terzietà - a differenza del curatore fallimentare - e quindi si esclude, nella liquidazione del patrimonio, l’esigenza di accertamento del passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo.

In definitiva, è proprio il mancato subentro del liquidatore a far sì che il decreto ingiuntivo sia inopponibile ai sensi dell’art. 647 c.p.c.

Si precisa, il giudice ha accolto quanto dichiarato dall’istituto di credito in merito alla modifica dello stato passivo in sede di udienza ai sensi dell’art.14 octies, l. 3/2012. Ritenendo legittimo che il creditore possa richiedere ed ottenere la modifica del progetto di stato passivo in udienza, pur in assenza di osservazioni sollevate precedentemente, poiché non si ha ancora uno stato passivo definitivo.

Essendo onere del giudice provvedervi come si evince dalla norma.

Ne deriva che anche dopo l’intervento giudiziale sulla formazione del passivo rimangono comunque a disposizione dei creditori ulteriori osservazioni sollevabili al piano di distribuzione comunicato dal liquidatore e ricomprendente il provvedimento del Tribunale.

L’ordinanza in commento non trascura un ulteriore punto controverso: l'opponibilità delle cessioni dei crediti oggetto di domanda di partecipazione alla liquidazione del patrimonio.

Nella legge sul sovraindebitamento non si ha una norma similare all’art. 115 l.fall. che prevede che il curatore, se prima della ripartizione i crediti ammessi sono stati ceduti, “attribuisce le quote di riparto ai cessionari, qualora la cessione sia stata tempestivamente comunicata, unitamente alla documentazione che attesti, con atto recante le sottoscrizioni autenticate di cedente e cessionario, l’intervenuta cessione”, provvedendo, poi, alla rettifica del progetto di stato passivo.

4. Applicazione analogica per la liquidazione controllata: profili comparati con la liquidazione giudiziale alla luce del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza

Affinché possa darsi luogo ad un procedimento analogico è necessario che al vuoto normativo non si sia posto rimedio neppure con una legge complementare, ivi per cui, in assenza di un esplicito richiamo la legge fallimentare non pone rimedio automatico alle lacune, o ai vuoti normativi che il legislatore della legge sul sovraindebitamento ha omesso (magari volontariamente) di disciplinare[14]. Contrariamente si può addurre che ove non si sia disciplinato, spetterà all’interprete chiarire, ovvero ai giudici.

Alla luce delle lacune normative sopra evidenziate si può immaginare una applicazione in via analogica di alcune norme della liquidazione giudiziale.

Del resto, non ci si può esimere dal constatare come finanche la giurisprudenza di legittimità abbia avallato una siffatta operazione ermeneutica: applicando alle procedure da sovraindebitamento la legge fallimentare[15].

In realtà, il ricorso all’analogia è consentito dall’art. 12 preleggi esclusivamente allorché manchi, nell’ordinamento, una disposizione atta a regolare la fattispecie concreta e si renda necessario porre rimedio ad un vulnus di tutela altrimenti irreparabile in sede giudiziaria[16].

Ciò non significa, però, che possa darsi luogo ad un’applicazione analogica indiscriminata: la Corte di Cassazione, non a caso, detta specifici limiti all’operazione in parola.

Più nel dettaglio, affinché possa darsi luogo ad un procedimento analogico è necessario che al vuoto normativo non si sia posto rimedio neppure con una legge complementare[17].

Peraltro, l’applicazione dell’analogia legis presuppone in ogni caso la sussistenza di talune specifiche condizioni, le quali valgono a distinguerla dalla diversa ipotesi di interpretazione estensiva.

Il riferimento è, in particolare, alla necessità che il giudice si trovi al cospetto di una vicenda che non sia in nessun modo sussumibile in altra norma giuridica.

E’, poi, necessario sussista almeno un elemento di continuità ed uguaglianza tra il caso da risolvere e la norma che si vuole applicare. Detta uguaglianza, peraltro, deve riguardare la ratio sottesa alla norma stessa. Ne deriva, pertanto, che la scelta dell’interprete di arginare la lacuna normativa determinata dal nuovo codice della crisi dell’impresa con il procedimento analogico non può che dipendere dal significato che si attribuisce alle norme giuridiche.

In conclusione, la presenza di lacune procedurali potrebbe essere colmata ricorrendo all’analogia legis, ovvero applicando la disciplina prevista per casi simili ai sensi dell’art. 12 preleggi in virtù del quale, se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili e materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.

In proposito, peraltro, va segnalato come, nello specifico caso delle due procedure liquidatorie, a taluni silenzi normativi possa porsi rimedio attraverso lo strumento analogico – che si estrinseca in un ragionamento di certezza fondato su un rapporto di somiglianza, e non di probabilità.

Purtuttavia, non si può, per ciò solo, evitare di interrogarsi circa l’opportunità di procedere ad una siffatta operazione analogica, non potendosi escludere aprioristicamente uno specifico intento legislativo in tal senso.

Può considerarsi, a titolo meramente esemplificativo, l’istituto della revocatoria fallimentare, prevista e disciplinata dal legislatore solo in relazione alla liquidazione giudiziale ex artt. 163-171 c.c.i.i.: l’assenza di un qualsivoglia rinvio normativo, difatti, consente di ritenere applicabile, ai sensi dell’art. 165 c.c.i.i., alla liquidazione controllata la sola revocatoria ordinaria.


Note e riferimenti bibliografici

[1]Follieri L., Esecuzione forzata e autonomia privata, Torino, 2016

[2] Alemanno R., Procedura di liquidazione del patrimonio: limiti di ammissibilità, in diritto.it, 2018

[3] Cesare F., L’esdebitazione nel codice della crisi e dell’insolvenza, in www.ilFallimentarista.it

[4]  Donzelli R., Prime riflessioni sui profili processuali delle nuove procedure concorsuali in natura di sovra indebitamento, in Dir. Fall., 2013

[5] Farina P., Le procedure concorsuali di cui alla legge n. 3 del 2012 e la (limitata) compatibilità con la legge fallimentare. Le problematiche della domanda e dell’automatic stay, in Dir. Fall., 2017

[6] Art. 14-terdecies, L.3/2012 (Liquidazione dei beni).

"1. In alternativa alla proposta per la composizione della crisi, il debitore, in stato di sovraindebitamento e per il quale non ricorrono le condizioni di inammissibilita' di cui all'articolo 7, comma 2, lettere a) e b), puo' chiedere la liquidazione di tutti i suoi beni.

2. La domanda di liquidazione e' proposta al tribunale competente ai sensi dell'articolo 9, comma 1, e deve essere corredata dalla documentazione di cui all'articolo 9, commi 2 e 3.

3. Alla domanda sono altresi' allegati l'inventario di tutti i beni del debitore, recante specifiche indicazioni sul possesso di ciascuno degli immobili e delle cose mobili, nonche' una relazione particolareggiata dell'organismo di composizione della crisi che deve contenere: a) l'indicazione delle cause dell'indebitamento e della diligenza impiegata dal debitore persona fisica nell'assumere volontariamente le obbligazioni; b) l'esposizione delle ragioni dell'incapacita' del debitore persona fisica di adempiere le obbligazioni assunte; c) il resoconto sulla solvibilita' del debitore persona fisica negli ultimi cinque anni; d) l'indicazione della eventuale esistenza di atti del debitore impugnati dai creditori; e) il giudizio sulla completezza e attendibilita' della documentazione depositata a corredo della domanda.

4. L'organismo di composizione della crisi, entro tre giorni dalla richiesta di relazione di cui al comma 3, ne da' notizia all'agente della riscossione e agli uffici fiscali, anche presso gli enti locali, competenti sulla base dell'ultimo domicilio fiscale dell'istante.

5. La domanda di liquidazione e' inammissibile se la documentazione prodotta non consente di ricostruire compiutamente la situazione economica e patrimoniale del debitore.

6. Non sono compresi nella liquidazione: a) i crediti impignorabili ai sensi dell'articolo 545 del codice di procedura civile; b) i crediti aventi carattere alimentare e di mantenimento, gli stipendi, pensioni, salari e cio' che il debitore guadagna con la sua attivita', nei limiti di quanto occorra al mantenimento suo e della sua famiglia indicati dal giudice; c) i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto disposto dall'articolo 170 del codice civile; d) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.

7. Il deposito della domanda sospende, ai soli effetti del concorso, il corso degli interessi convenzionali o legali fino alla chiusura della liquidazione, a meno che i crediti non siano garantiti da ipoteca, da pegno o privilegio, salvo quanto previsto dagli articoli 2749, 2788 e 2855, commi secondo e terzo, del codice civile.

((7-bis. Il decreto di apertura della liquidazione della societa' produce i suoi effetti anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili)).

[7] Di Girolamo F., La liquidazione e l’esdebitazione, in La crisi del soggetto non fallibile, Torino, 2016

[8] L. 27 gennaio 2012, n. 3

[9] Cass. civ., sez. III, n. 19119 del 03/09/2009.

[10] Cass.civ., sez. I, Sent. 1650 del 27/01/2014.  

[11] Cass. civ. sez. VI, 30/10/2020, n.24157.

[12] D. Lgs. 12/01/2019 n. 14, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

[13] In quanto l’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza entrerà in vigore a settembre 2021 ad eccezione degli artt. 27, comma 1, 350, 356, 357, 359, 363, 364, 366, 375, 377, 378, 379, 385, 386, 387 e 388 entrati in vigore il 16/03/2019.

[14] Guastini R., Interpretare e argomentare, p.127; Per quanti concepiscono le norme come enunciati che connettono fattispecie a conseguenze giuridiche, le lacune si presentano come fattispecie per le quali non è disposta alcuna conseguenza giuridica. Le lacune normative si esplicano quando il legislatore ha omesso di disciplinare una o più combinazioni tra una serie di fattispecie disciplinate. Ogni fattispecie non disciplinata costituisce intuitivamente uno spazio vuoto di diritto. L’argomento analogico può essere usato per includere un caso dubbio entro il campo di applicazione della norma, esso si fonda o sull’assunto che la formulazione normativa non riflette la “reale” volontà del legislatore, o sull’assunto che il legislatore, pur non avendo contemplato una certa fattispecie, l’avrebbe tuttavia disciplinata in un dato modo qualora l’avesse presa in considerazione.

[15] Cass. 03 luglio 2019, n. 17834, ha statuito l’applicabilità, agli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento, del principio in base al quale nel concordato preventivo è possibile proporre la dilazione del pagamento dei creditori privilegiati o con prelazione, equiparandoli ai chirografari, ai fini del voto, per la perdita derivante dalla dilazione e dunque per la parte del credito in tal modo non interamente soddisfatta.

[16] Bobbio N., l’analogia nella logica del diritto, p. 164; L’analogia non è creazione ma interpretazione, sviluppando la razionalità implicita nel sistema giuridico positivo. Se il ragionamento per analogia è valido, la conclusione di esso è una norma deonticamente valida in e per l’ordinamento di cui è parte la norma da cui si muove; ovvero la validità dianoetica (logica) del ragionamento per analogia è condizione sufficiente di validità deontica della norma inferita analogicamente.

[17] Cass., 11 febbraio 2015, n. 2656 e Cass., 15 maggio 2015, n. 10054.