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Pubbl. Mar, 26 Gen 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Il Consiglio di Stato sulla nozione di atto presupposto

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Vincenzo Visone
Dottore di ricercaUniversità degli Studi di Napoli Parthenope



Il Consiglio di Stato, Sez. III, con sent. del 10 novembre 2020, n. 6922, ha ribadito il seguente principio: «la nozione di atto presupposto è fondata, in relazione ad atti di un unico procedimento o anche ad atto autonomi, sull’esistenza di un collegamento fra gli atti stessi, così stretto nel contenuto e negli effetti, da far ritenere che l’atto successivo sia emanazione diretta e necessaria di quello precedente, così che il primo è in concreto tanto condizionato dal secondo nella statuizione e nelle conseguenze da non potersene discostare».


ENG The Council of State, Section III, with sentence of 10 November 2020, n. 6922, reaffirmed the following principle: «the notion of a presupposed act is based, in relation to acts of a single proceeding or even an autonomous act, on the existence of a connection between the acts themselves, so close in content and in effect, as to lead to believe that the subsequent act is a direct and necessary emanation of the previous one, so that the first is concretely conditioned by the second in its ruling and consequences that it cannot deviate from it»

Sommario: 1. Introduzione; 2. La disciplina del codice di rito riguardo al tema della connessione fra atti amministrativi; 3. I criteri per la individuazione del nesso di presupposizione; 4. Le problematiche processualistiche; 5. La relazione tra atto procedimentale e provvedimento finale; 6. Il principio del tempus regit actum; 7. I nodi esegetici del nesso di presupposizione e i relativi effetti; 8. La recente sentenza del Consiglio di Stato Sez. III, sentenza n. 6922 del 10 novembre 2020; 9. Considerazioni finali     

1. Introduzione

Il corretto inquadramento giuridico e l’esatta individuazione del regime giuridico degli atti presupposti e degli atti presupponenti non possono prescindere dalla dovuta considerazione delle diverse forme e della diversa intensità della patologia invalidante gli atti e i provvedimenti amministrativi, dei rapporti tra atto e provvedimento nonché della possibile anticipazione nel tempo degli effetti che i medesimi sono destinati a produrre, dall’ampiezza della tutela giurisdizionale loro riservata, della rilevanza del principio del contraddittorio e dell’attuale conformazione del giudizio amministrativo. 

Il nesso di presupposizione tra atti e provvedimenti, infatti, giustifica la propagazione dell’invalidità di un atto presupposto all’atto presupponente. Salvo quanto si dirà nel prosieguo, in tale ipotesi sussiste la cd. invalidità derivata, che può essere di due tipi: invalidità derivata ad efficacia caducante e invalidità derivata ad effetto viziante.

La prima fattispecie si verifica allorché vi sia un nesso di stretta causalità, di consequenzialità diretta e necessaria tra i due atti: il secondo atto costituirebbe una mera esecuzione del primo. L’invalidità derivata ha efficacia viziante allorquando l’atto successivo non costituisce una conseguenza inevitabile del secondo, ma richiede nuovi ed ulteriori apprezzamenti che segnano una discontinuità tra le diverse determinazioni della pubblica amministrazione e impongono al loro destinatario di impugnarle autonomamente[1].

Le riflessioni sulla categoria dell’invalidità derivata, unitamente alla disamina delle diatribe dottrinali e giurisprudenziali che l’hanno riguardata, risultano di difficile comprensione se non si ha cura di precisare in cosa consiste il rapporto di presupposizione e non ci si rende conto dei differenti criteri utilizzati per individuare un tale tipo di relazione.

La presupposizione, secondo autorevole dottrina, è una forma particolarmente intensa di connessione  tra provvedimenti[2]. La figura della connessione postula un collegamento funzionale tra delibazioni autoritative che promanano da distinte amministrazioni i cui destinatari non sono perfettamente sovrapponibili. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai regolamenti delle Regioni e ai relativi atti attuativi emanati dagli enti comunali o alle istanze di due soggetti, cronologicamente successive e logicamente  inconciliabili, anelanti al medesimo bene della vita.

L’istituto di cui si discorre, invero, trova la sua matrice teorica nell’istituto civilistico del collegamento negoziale, di elaborazione dottrinale, sussistente ove più contratti autonomi, ciascuno caratterizzato da una propria causa, costituiscano oggetto di stipulazioni coordinate, nell’intenzione delle parti, alla realizzazione di uno scopo unitario. La fattispecie de qua è governata dal principio simul stabunt simul cadent, per cui l’illegittimità di un contratto si propaga a quello collegato[3].

 

2. La disciplina del codice di rito riguardo al tema della connessione fra atti amministrativi

Sebbene il collegamento tra atti sia stato reputato un principio immanente al sistema amministrativo, nel codice del processo amministrativo si rinviene una disciplina piuttosto embrionale. L’art. 32 del c.p.a., in particolare, si limita a stabilire che è sempre ammissibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse, proposte in via principale o in via incidentale.

Il codice, come rilevato da autorevole dottrina, recepisce un consolidato orientamento giurisprudenziale a parere del quale il ricorso rivolto verso atti diversi, ma collegati tra loro, deve essere accolto spoglio da formalismi superflui, in un’accezione attenta alla giustizia sostanziale e al principio di ragionevolezza, sicché è da reputarsi ammissibile il ricorso cumulativo quando sussistono oggettivi elementi di connessione tra i diversi atti ovvero allorché le domande cumulativamente avanzate si basino sugli stessi presupposti di fatto o di diritto riconducibili ad un medesimo rapporto di diritto pubblico o ad  una unica sequenza procedimentale[4].

L’art. 32 del codice del processo amministrativo, d’altro canto, si fa carico di un altro aspetto squisitamente processuale della connessione, concernente il rito applicabile qualora gli atti connessi siano assoggettati a procedure diverse. Il primo comma della disposizione in esame, infatti, statuisce che ove ricorra detta ipotesi si applica il rito ordinario, salvo quanto disposto dai capi I e II del Titolo V del Libro IV.

L’art. 13 del c.p.a., viceversa, è dedicato precipuamente al rapporto di presupposizione; in ossequio a tale referente normativo, la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l’interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti dallo stesso provvedimento, eccettuati gli atti normativi o generali, per la cui impugnazione restano fermi gli ordinari criteri di attribuzione della competenza.

Il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che la previsione di cui all’art. 13, comma 4 bis, deve intendersi logicamente riferita ai soli atti “generali” i quali, ancorché privi per il ricorrente di immediata lesività e quindi destinati a essere impugnati unitamente ai successivi atti applicativi, abbiano però pur sempre valenza provvedimentale o quantomeno rilevanza esterna o comunque legati da un rapporto di presupposizione[5].

Quest’ultimo, come già accennato, rappresenta una forma particolarmente intensa di connessione.  Occorre soffermarsi sul suo esatto significato e sui criteri a cui appellarsi per la verifica della sua esistenza.

In primo luogo, va operato un distinguo fondato sul tipo di relazione intercorrente tra gli atti amministrativi. La dottrina, infatti, non nutre alcun dubbio in ordine all’operatività del cd. principio di derivazione, in forza del quale sul provvedimento amministrativo finale si riverberano tutti i vizi verificatisi nel corso del procedimento, con riferimento agli atti ascrivibili ad un medesima serie procedimentale; viceversa, se i provvedimenti amministrativi sono legati da una relazione esterna al procedimento amministrativo, per cui l’uno costituisce presupposto dell’altro, la portata applicativa  del principio di derivazione è oggetto di esegesi ermeneutiche differenti e talvolta divergenti[6].

3. I criteri per la individuazione del nesso di presupposizione

L’esposizione delle conseguenze applicative dell’una e dell’altra tesi impone, in via preliminare, di dare conto del dibattito sorto in ordine ai criteri per la individuazione del nesso di presupposizione.

Secondo un primo orientamento interpretativo, il medesimo si può configurare solo nei casi in cui l’atto consequenziale sia meramente esecutivo dell’atto presupposto[7].

Altro filone ermeneutico asserisce che sia possibile applicare il principio di derivazione ai provvedimenti legati da una relazione esterna al procedimento tutte le volte in cui tra l’atto presupponente e l’atto presupposto sussista un collegamento non già meramente occasionale, bensì genetico, cioè tale da descrivere il primo atto come quello che giustifica e delimita la produzione degli effetti di quello che segue[8].

Nelle maglie di detta esegesi esplicativa non è stato puntualizzato che la relazione di presupposizione tra provvedimenti talvolta è solo eventuale, nel senso che l’atto a valle appare come una delle possibili conseguenze dell’atto a monte[9].

L’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa individua il nesso di presupposizione tutte le volte in cui l’atto precedente costituisca il presupposto non solo necessario ma anche unico del provvedimento consequenziale. Il Consiglio di Stato, in particolare, ha asserito che un simile rapporto vi sia quando l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti. E’ da opinarsi diversamente, quando l’atto successivo, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto precedente, non ne costituisca conseguenza inevitabile, poiché la sua adozione implica nuove e ulteriori valutazioni di interessi[10].

Nel caso di specie, il giudice di ultima istanza era stato chiamato a pronunciarsi sulle conseguenze derivanti dall’annullamento dell’atto di revoca del Commissario Straordinario di un ente comunale per la viticoltura nominato precedentemente, escludendo la caducazione automatica del successivo provvedimento di nomina di un successivo commissario, che pur essendo collegato al primo, implica altri e sopravvenuti apprezzamenti, peraltro afferenti ad un diverso soggetto. 

La giurisprudenza amministrativa si è espressa in termini analoghi con riferimento ai rapporti tra esclusione in base alla graduatoria risultante dal punteggio delle prove scritte ed approvazione della graduatoria finale, in quanto quest’ultima implica una valutazione di maggiore ampiezza,  che tiene conto degli interessi di tutti i concorrenti,  risolvendosi in un riscontro della legittimità dell’intera procedura concorsuale e producendo l'effetto costitutivo di formazione della graduatoria redatta dalla Commissione giudicatrice[11].

Il Consiglio di Stato, in una pronuncia quasi coeva a quella appena menzionata, ha puntualizzato che  l’esistenza del nesso di presupposizione è subordinata al ricorrere di due indefettibili elementi: l’appartenenza ad una medesima serie procedimentale e il rapporto di derivazione esistente tra l’atto presupposto e l’atto presupponente quale sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi[12]

In tale sentenza viene osservato che il legame così stretto tra le due determinazioni ammnistrative dà luogo allo schema concettuale della caducazione, in forza del quale gli atti consequenziali ritraggono la loro legittimità e la loro efficacia in modo tanto diretto ed automatico da non richiederne l’impugnazione. I provvedimenti, in virtù del rapporto di presupposizione che li lega, sarebbero assoggettati ad una sanzione adottata contro atti ulteriori interni allo stesso procedimento, sanzione che non richiede la previa impugnazione dell’atto, strumento tipico del diritto amministrativo, ma rientra in uno schema lineare di propagazione delle nullità, più vicino alle dinamiche processual-civilistiche di cui all’art. 159 del codice di procedura civile[13].   

Il giudice di ultima istanza, quindi, giustifica l’accezione restrittiva del nesso di presupposizione necessario accolto in seno alla giurisprudenza in virtù della sua efficacia caducante, che collide con il carattere impugnatorio che governa il sistema di tutele approntato dal diritto amministrativo sul versante sostanziale e processuale, nonché con il regime di tipicità della nullità in ambito pubblico cristallizzato nell’art. 21 septies in seguito all’approvazione della legge n. 15 del 2005[14].

I passaggi argomentativi surriferiti consentono di approdare ad alcune conclusioni e aprono le porte a riflessioni di più ampio respiro.      

4. Le problematiche processualistiche

Quanto agli approdi ai quali è possibile pervenire, dagli orientamenti giurisprudenziali si può dedurre che il nesso di presupposizione si può definire necessario solo se e nella misura in cui atto e provvedimento ovvero diversi provvedimenti s’inseriscano in una medesima serie procedimentale.

Il carattere necessitato del predetto nesso comporta la caducazione automatica dell’atto consequenziale senza che a tal fine occorra una autonoma impugnazione. Tale ultimo aspetto pone un interrogativo, cui dottrina e giurisprudenza nel tempo hanno fornito risposte diverse, afferente alla tutela spettante ai soggetti controinteressati alla conservazione degli effetti loro favorevoli scaturenti dall’atto presupponente.

La problematica dell’effettività della tutela giurisdizionale non si pone allorquando il nesso di presupposizione sia solo eventuale, circostanza che si verifica tutte le volte in cui manchi il requisito dell’appartenenza ad uno stesso procedimento degli atti e dei provvedimenti.

In detta ipotesi, infatti, valgono le regole ordinarie che governano il regime di impugnazione delle determinazioni amministrative, per cui l’atto presupponente deve essere impugnato, altrimenti l’inutile decorso dei termini previsti dal c.p.a. per adire l’autorità giurisdizionale comporterà la cristallizzazione dell’assetto d’interessi determinato dallo stesso.

Il carattere solo eventuale del nesso di presupposizione non rende la tematica in commento scevra da criticità.

Gli interpreti, infatti, sono giunti a risultanze esplicative differenti in ordine al genere di patologia che affligge l’atto consequenziale. Taluni discorrono di nullità derivata, altri di eccesso di potere o di violazione di legge[15].

Occorre procedere con ordine per scandagliare compiutamente le questioni problematiche cui si è fatto cenno ed è necessario prendere le mosse dalla disamina delle esegesi ermeneutiche che hanno interessato la caducazione automatica degli atti e la sua compatibilità con il principio del contraddittorio e i canoni della pienezza e della effettività della tutela giurisdizionale.

Secondo autorevole dottrina[16], infatti, la caducazione automatica dell’atto presupponente si porrebbe in contrasto con alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento.

Innanzitutto, esso colliderebbe con il principio di inoppugnabilità del provvedimento amministrativo, in virtù del quale la possibilità di impugnare l’atto lesivo è consentita ai privati solo entro un breve termine di decadenza, limite volto a salvaguardare proprio i provvedimenti dal rischio di essere assoggettati a caducazione per un arco temporale eccessivamente lungo.

In secondo luogo, è stato osservato che la caducazione automatica degli atti consequenziali violerebbe il principio del contraddittorio, poiché tendenzialmente le parti necessarie del giudizio proposto avverso l’atto presupposto non coincidono con i destinatari dell’atto presupponente, i quali potrebbero pertanto vedere lesa la loro sfera giuridica da una decisione giudiziale cui sono rimasti estranei.

Un ulteriore sostegno per negare cittadinanza nel nostro ordinamento all’istituto della caducazione automatica è stato rinvenuto nella sentenza n. 77 del 1995 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittime le disposizioni di cui agli artt. 28 e 36 della legge n. 1034 del 1971, in quanto non consentanee ai canoni della ragionevolezza e dell’effettività della tutela giurisdizionale, nella misura in cui non permettevano di esperire il rimedio dell’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404 del codice di procedura civile avverso le decisioni del Consiglio di Stato e avverso le sentenze di primo grado passate in giudicato[17].

Siffatta conclusione argomentativa muoverebbe dall’assunto per cui una volta riconosciuto il diritto d’opposizione al terzo, verrebbe meno quell’esigenza di economia processuale alla base dell’invalidità ad effetto caducante.

Infine, si pone in rilievo che mediante l’istituto dei motivi aggiunti si consente al ricorrente avverso l’atto presupposto di contestare nel medesimo giudizio l’atto presupponente. Detto istituto, dunque, appagherebbe le esigenze di tutela dei destinatari dell’atto presupponente e soddisferebbe le ragioni di economia processuale, evitando una duplice vicenda processuale afferente ai provvedimenti che restano comunque ineludibilmente legati tra loro.

Non è mancata, invero, qualche voce giurisprudenziale che si è espressa a favore di detta ricostruzione sistematica.

In particolare la V Sezione del Consiglio di Stato ebbe ad affermare che “la necessità di impugnare il provvedimento finale dopo l’impugnazione dell’atto preparatorio non grava eccessivamente sulla posizione del ricorrente, il quale può avvalersi dei motivi aggiunti in corso di causa, proponibili ai sensi della legge n. 205 del 2000. Siffatta soluzione appare da preferire anche per ragioni di economia processuale. La tesi opposta, che esonera il ricorrente, avverso l’atto preparatorio dall’impugnazione anche del provvedimento finale, urta, infatti, contro le ragioni di economia processuale perché comporta che il terzo beneficiario dell’atto finale, che ne subisce l’annullamento quale conseguenza di un giudizio cui non è stato posto in condizione di partecipare, dovrà avvalersi dell’opposizione di terzo; con il giudizio di opposizione di terzo, dopo la fase rescindente, si dovrà rinnovare nel merito l’originario giudizio . E’ evidente, così operando, la moltiplicazione dei processi e dei conseguenti costi e tempi in relazione ad un’unica vicenda procedimentale[18].

L’approdo ermeneutico attualmente prevalente in dottrina e in giurisprudenza fornisce una risposta positiva al quesito circa la compatibilità tra caducazione automatica, effettività della tutela giurisdizionale e rispetto del principio del contraddittorio[19].

L’adesione ad una siffatta ricostruzione dogmatica si basa sull’avvertita esigenza di alleggerire la posizione del ricorrente ed esonerarlo dall’onere di impugnare tutti gli atti frutto dell’attività della pubblica amministrazione lesivi della sua sfera giuridica.

Inoltre, l’istituto dell’opposizione di terzo, costituzionalmente obbligato alla luce della sentenza n. 77 del 1995 della Corte Costituzionale, viene reputato, contrariamente da ciò che è stato sostenuto dall’opinione interpretativa sopra esposta, come uno strumento adeguato e idoneo a garantire il rispetto del fondamentale principio del contraddittorio, atteso che dello stesso possono avvalersi i terzi controinteressati che sono rimasti estranei ai giudizi aventi ad oggetto gli atti presupposti il cui annullamento ha recato pregiudizio ai loro interessi.

Il Consiglio di Stato, a titolo esemplificativo, ha asserito che i rapporti tra il bando di concorso e gli altri atti della procedura concorsuale sono immediati, diretti e necessari, ovvero legati da stretta consequenzialità, così che l’annullamento del bando produce un effetto caducante su tutti gli atti conseguenti e non è necessario notificare il ricorso introduttivo giacché tale notifica non soddisfa un’intrinseca necessità del procedimento relativo al ricorso principale[20].

Occorre rilevare sul punto che gli esiti interpretativi cui è pervenuta la giurisprudenza non sono stati unanimemente accolti dalla dottrina e la stessa autorità giurisdizionale ha avuto cura di puntualizzare e attenuare i corollari delle proprie risultanze esplicative.

In primo luogo, secondo autorevole opinione dottrinale “la sentenza della Corte costituzionale  per quanto possa apparire paradossale, riconoscendo lo strumento dell'opposizione di terzo, cioè «un rimedio "successivo" di reazione contro le sentenze rese a seguito di un giudizio a cui non si sia potuto partecipare», ha come effetto «quello di mettere al centro dell'attenzione la necessità, costituzionale e logica, di disporre di efficaci meccanismi "preventivi" di partecipazione, che rendano in ultima analisi normalmente superfluo quello stesso rimedio”[21].

In secondo, è stata posto in rilievo la diversa modulazione del principio di derivazione, in forza del quale, come già accennato, sul provvedimento finale si riverberano tutti i vizi verificatisi nel corso del procedimento o comunque le patologie dell’atto presupposto si ripercuotono sull’atto presupponente.

5. La relazione tra atto procedimentale e provvedimento finale     

Quanto al rapporto tra atto procedimentale e provvedimento finale, infatti, è stato osservato che gli atti preparatori del procedimento amministrativo sono privi di autonomia funzionale, in quanto non sono in grado di determinare una lesione attuale di un interesse sostanziale, in considerazione del loro ruolo servente rispetto all’atto costitutivo; chi subisce una lesione della propria sfera giuridica per la mancata emanazione degli atti preparatori o in virtù di vizi ad essi inerenti, potrà impugnare esclusivamente il provvedimento finale, in virtù del fatto che è solo al momento della sua adozione che si vanterà una posizione giuridica soggettiva sufficientemente differenziata ed attuale. Allorché l’atto endoprocedimentale rappresenti un antecedente necessario e strumentale rispetto al provvedimento finale, presentando con esso un vincolo di necessaria e conseguenziale connessione, la determinazione frutto dell’attività procedimentalizzata della pubblica amministrazione è viziata da eccesso di potere o da violazione di legge[22].

La regola de qua, in ossequio all’orientamento interpretativo prevalente in giurisprudenza, soffre di una tendenziale attenuazione allorché l’atto endoprocedimentale sia in grado di incidere in modo immediato nella sfera giuridica del destinatario, in ragione del suo carattere vincolante e alla luce della sua capacità di determinare inderogabilmente il contenuto del provvedimento conclusivo del procedimento[23].

I pareri di natura vincolante, ad esempio, assumono valenza decisoria e la pubblica amministrazione non può discostarsene, salvo adeguata motivazione o dimostrazione che il parere sia stato reso sulla base di atti o fatti palesemente erronei o travisati[24].

Circa le conseguenze di un atto presupposto sulla validità ed efficacia di un atto presupponente il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che qualora il secondo non possa essere ritenuto conseguenza immediata, diretta e necessaria dell'emanazione del primo e sia presente una qualche   ulteriore discrezionalità nell'adozione dell'atto consequenziale sono riportate alla categoria dell'invalidità viziante. Ne deriva che l'omessa impugnazione del provvedimento posto a valle della serie rende improcedibile il ricorso proposto avverso il provvedimento posto a monte della serie, non potendo l'originario ricorso intervenire su provvedimenti oramai consolidati e che rendono impossibile la soddisfazione dell'interesse del ricorrente[25]. Nel caso di specie appena menzionato la giurisprudenza amministrativa ha affrontato la tematica dei rapporti tra valutazione d’impatto ambientale ed il provvedimento di voltura, la cui funzione è quella di verificare la sussistenza di taluni requisiti soggettivi   nel nuovo gestore  per la gestione di un impianto ad impatto ambientale; in questa prospettiva di accertamento della presenza dei requisiti per il subentro, che non appare per nulla necessitata, ben potendo verificarsi l'ipotesi del diniego di voltura, giustificata dalla mancanza, nel subentrante, dei requisiti soggettivi per l'esercizio dell'attività, appare evidente come l'emanazione dell'atto costituisca evidente espressione di una discrezionalità dell'amministrazione che non può non riportare l'intera fattispecie alla categoria dell'invalidità viziante e non caducante.

Il panorama normativo di cui è dato conto consente di porre in luce l’insieme di regole che governa la materia del nesso di presupposizione, dell’invalidità derivata, delle prerogative e degli oneri processuali.

Primieramente, mette conto evidenziare che di per sé gli atti endoprocedimentali sono privi di quella carica lesiva immediata ed attuale che costituisce condizione sufficiente e necessaria per adire l’autorità giurisdizionale, per cui essi tendenzialmente debbono essere impugnati unitamente al provvedimento emanato all’esito del procedimento amministrativo.

In secondo luogo, allorché ricorra un nesso di presupposizione tra un atto privo di rilevanza esterna e determinazione finale mediante la quale l’autorità competente manifesta la propria volontà a terzi soggetti, si possono configurare due differenti fattispecie.

Allorquando l’atto presupposto rappresenti l’unico e necessario antecedente dell’atto presupponente, quest’ultimo perde immediatamente efficacia e validità nel momento in cui venga acclarata l’illegittimità del primo, venendo meno ab imis l’esigenza di impugnare autonomamente e distintamente le due determinazioni.

Al di fuori da tali ipotesi, vige il regime ordinario previsto per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, da ritenersi indubbiamente applicabile, qualora l’emanazione dell’atto consequenziale implichi l’esercizio di una discrezionalità più o meno ampia da parte dell’autorità competente. Pertanto, ed è bene chiarirlo, anche per gli atti endoprocedimentali il rapporto tra invalidità ad effetto viziante ed invalidità ad effetto caducante è quello di regola ed eccezione.

Le posizioni della giurisprudenza sembrano condivisibili, a parere di chi scrive, nella misura in cui si tiene conto della attuale definizione di atto amministrativo, della possibilità di anticipare nel tempo gli effetti di una determinazione amministrativa e della differente rilevanza della normativa sopravvenuta.

La dottrina ad oggi prevalente in ordine alla definizione di atto amministrativo aderisce alla cd. teoria procedimentale funzionale, sulla cui scorta, peraltro, si opera il distinguo tra atto e provvedimento amministrativo. Quest’ultimo è definito come l’esito deliberativo e definitivo di una sequenza di atti coordinati e correlati tra loro. In altri termini, il provvedimento amministrativo costituisce una manifestazione della propria volontà ai terzi da parte degli organi pubblici, preceduta e predisposta mediante una serie di delibazioni interne e ad essa prodromiche[26].  

Approdo ermeneutico che troverebbe conforto nella procedimentalizzazione dell’attività amministrativa realizzata con l’approvazione della legge n. 241 del 1990. Siffatta conclusione è gravida di conseguenze sul piano applicativo.

L’esegesi ermeneutica dominante in dottrina e in giurisprudenza, infatti, riconosce agli atti amministrativi natura preparatoria, da cui deriva l’inattitudine a ledere la sfera giuridica dei destinatari e l’esclusione della loro immediata impugnabilità, salvo che non determinino un arresto procedimentale, come nel caso di parere obbligatorio reso nel corso del procedimento da un’autorità diversa da quella procedente, preposta alla cura di un interesse sensibile.

Il provvedimento amministrativo, invece, manifesta all’esterno la valutazione definitiva dell’ente pubblico circa il bilanciamento di interessi affidati alla sua cura, ed è foriero di immediati riverberi positivi o negativi, contestabili in sede processuale dai relativi interessati. Per quanto qui ci occupa, poi, dottrina e giurisprudenza pervengono a risultanze esplicative dissimili quanto ad una potenziale retroattività dell’atto e del provvedimento amministrativo.

In proposito, giova evidenziare che gli atti amministrativi possono consistere in un accertamento tecnico, cioè nell’operazione volta ad acclarare i presupposti tecnico-scientifici di una operazione dal risultato certo e inopinabile, in una mera dichiarazione di scienza, con la quale la P.A. dichiara l’esistenza di una situazione di fatto o di diritto di cui ha preso atto, in una dichiarazione di giudizio, attraverso cui si esprime una propria valutazione, o in un controllo, preventivo o successivo, il cui esito positivo o negativo determina la perdita di efficacia o la produzione di effetti ex tunc[27].   

Si pensi, a titolo esemplificativo, agli accertamenti in materia ambientale effettuati per rilevare l’inquinamento di un terreno, alle verbalizzazioni, alle attestazioni, ai pareri, nonché ai controlli di cui al decreto legislativo n. 286 del 1999.

Le diverse attività che connotano intrinsecamente un atto amministrativo s’inseriscono nelle differenti sequenze del procedimento amministrativo. Quest’ultimo, difatti, consta di quattro fasi: dell’iniziativa, dell’istruttoria, dell’efficacia e integrativa dell’efficacia[28].      

Sul punto, l’art. 2 della legge 241 del 1990 stabilisce l’onere della conclusione del procedimento avviato in seguito ad un’istanza di parte o da avviarsi d’ufficio, mediante provvedimento espresso; i successivi artt. 4 e 5 impongono l’individuazione dell’unità organizzativa responsabile del procedimento e del responsabile del procedimento, tenuto alla cura dell’istruttoria, da espletarsi mediante le molteplici attività di cui all’art. 6.

All’esito dell’attività istruttoria segue la decisione della pubblica amministrazione che, se consiste in un provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati o in un diniego delle loro pretese, deve essere previamente comunicato ex art. 10 bis l. 241 del 1990, per consentire loro di esporre le proprie ragioni e interloquire rispetto ai motivi che ostano all’accoglimento delle relative istanze. Qualora la delibazione di segno negativo dovesse essere confermata, per produrre effetti deve essere comunicata, anche nelle forme di una notificazione effettuata secondo le regole del codice di procedura civile, a ciascun destinatario. Infine, l’efficacia degli atti amministrativi può essere subordinata al controllo di un organo interno o esterno all’ente che li emana.

6. Il principio del tempus regit actum

Ciò posto, occorre rammentare che la suddivisione del procedimento amministrativo in fasi autonome e distinte presenta una notevole rilevanza applicativa poiché, secondo concorde opinione dottrinale e giurisprudenziale, il regime degli atti amministrativi e dello stesso procedimento amministrativo è governato dal principio del tempus regit actum.

Trovano applicazione e spiegano efficacia, dunque, le regole sussistenti nel momento in cui si conclude una determinata fase del procedimento con l’emanazione dei consequenziali atti.

La giurisprudenza, tuttavia, ha attenuato fortemente la portata del principio in esame, puntualizzando che lo stato di fatto e di diritto da prendere in considerazione per la esatta individuazione della disciplina dell’atto amministrativo non è quello esistente al momento della presentazione dell’istanza del privato, dovendosi fare riferimento piuttosto al quadro normativo sussistente allorché la pubblica amministrazione debba decidere sulla fattispecie sottoposta alla sua attenzione. Ne consegue che lo ius superveniens è irrilevante solo ove si tratti di ottemperare agli adempimenti previsti dalla legge affinché una delibazione esplichi i suoi effetti[29].

Il mutamento del panorama legislativo e giurisprudenziale potrebbe essere determinato da molteplici vicende, che possono consistere in una legge divenuta inefficace perché dichiarata incostituzionale, di un decreto legge ormai privo di vigore in quanto non convertito in legge o nell’esigenza di disapplicare una fonte di rango primario o secondario contraria al diritto comunitario. Disposizioni espunte dall’ordinamento che in molti casi costituiscono la base legale dell’atto amministrativo.

In proposito, il terzo comma dell’art. 77 della Costituzione statuisce che i decreti legge perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge, entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. L’art. 136, dal suo canto, prevede che quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione[30].

In ragione di quanto esposto, per la p.a. non solo risulta possibile ma appare se non doveroso quantomeno opportuno tenere conto delle sopravvenienze normative intervenute prima della conclusione del procedimento, perché l’espunzione della norma in via retroattiva potrebbe aver determinato l’assenza di una base legale attributiva del potere che la medesima p.a. si apprestava ad esercitare o implicare una differente conformazione delle modalità mediante le quali provvedere alla cura dell’interesse pubblico affidatole. Diversamente, alla luce della giurisprudenza amministrativa prevalente, pur non essendo autonomamente impugnabili gli atti amministrativi in virtù della loro natura preparatoria e della consequenziale inattitudine lesiva, i vizi degli stessi si riverbereranno sul provvedimento finale, annullabile. Verrebbe in rilievo, in altri termini, la tematica di cui ci sta occupando, ovvero l’invalidità derivata.

La doverosità di una differente regolamentazione della vicenda procedimentale con un atto amministrativo che imponga ulteriori o diverse attività amministrative inerenti fasi del procedimento già conclusesi potrebbe scaturire dall’intervento del legislatore, libero di esercitare la propria discrezionalità per regolare i rapporti privi di disciplina in seguito alla mancata conversione in legge del decreto legge o della declaratoria di incostituzionalità[31].     

Quanto alla violazione del diritto comunitario, autorevole dottrina ha posto in evidenza la necessità di tenere conto del fatto che un medesimo atto in un sistema di fonti multilivello è assoggettato ad una molteplicità di valutazioni che, eventualmente, possono anche divergere tra loro. L’atto amministrativo, dunque, potrebbe rinvenire il proprio fondamento in una legge costituzionalmente legittima ma, al contempo, ritenuta non consentanea ai canoni del diritto comunitario.

La Corte di Giustizia in relazione al provvedimento amministrativo annoverabile in simile fattispecie ha asserito che la pubblica amministrazione ha l’obbligo di tornare sulla propria decisione se la disciplina interna le assegna tale potere e sussistono le condizioni per esercitarlo. Se ciò vale per una determinazione definitiva della pubblica amministrazione, la dottrina ritiene non si possa pervenire a conclusioni di segno opposto in ordine all’atto amministrativo e cioè prima della conclusione del procedimento, pena l’annullabilità del provvedimento finale, per le medesime ragioni esposte con riferimento all’atto amministrativo emanato sulla base di una legge dichiarata costituzionalmente illegittima o di un decreto legge non convertito in legge e considerata la particolare interpretazione del principio tempus regit actum fornita dalla giurisprudenza amministrativa prevalente in materia[32]

Dalla ricostruzione sistematica sopra esposta si evince che a venire in rilievo circa l’atto amministrativo non conforme ad una norma comunitaria, basato su decreto legge non convertito in legge o fondato su una fonte di rango primario oggetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale è tendenzialmente la patologia dell’annullabilità.      

Rispetto all’atto fondato su legge dichiarata incostituzionale, pur nella diversità delle tesi prospettate in dottrina, si è posta in evidenza la distinzione concettuale ed empirica dell’esercizio del potere esecutivo rispetto all’emanazione di una norma. Detta autonomia escluderebbe l’operatività della caducazione dell’atto amministrativo[33].

L’orientamento dominate in seno alla giurisprudenza amministrativa asserisce che l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata incostituzionale debba reputarsi sempre annullabile e giammai nullo, nemmeno se si è al cospetto di una legge attributiva del potere. Si evita di applicare un regime estremamente rigoroso, dunque, pur allorquando sussisterebbero i presupposti applicativi della nullità. E’ da puntualizzarsi, sul versante processuale che l’annullabilità dell’atto è rilevabile d’ufficio dal giudice, purché la parte abbia introdotto nel processo, mediante la tempestiva proposizione dell’azione, i fatti principali su cui il giudice deve pronunciarsi[34].

Anche per l’atto amministrativo fondato su decreto legge non convertito è esclusa, sulla scorta delle considerazioni espletate con riferimento all’autonomia tra azione degli organi esecutivi ed esercizio della potestà legislativa, una caducazione automatica della determinazione della pubblica amministrazione[35].  Inoltre, per le medesime ragioni che si sono esposte con riferimento all’atto basato su legge poi dichiarata incostituzionale, si ritiene che la delibazione interna dell’organo pubblico sia sempre annullabile, perché al momento della sua adozione esisteva una fonte normativa che autorizzava l’esercizio del potere gli organi pubblici. L’unica peculiarità, quanto al giudizio amministrativo, consiste nella circostanza per cui l’invalidità non è rilevabile d’ufficio ma deve essere fatta valere da chi vi abbia interesse mediante la proposizione di un’azione di impugnazione con cui si deduce, quale motivo di gravame, la mancata conversione del decreto legge[36].  

Infine, in ordine all’atto non consentaneo ai canoni del diritto comunitario la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che i motivi di nullità del provvedimento emanato dalla p.a. previsti dall’art. 21 septies sono tassativi e tra essi non è ricompreso il contrasto con il diritto europeo[37].  

Discorrendo diversamente, si verificherebbe una discriminazione alla rovescia, poiché il regime d’invalidità degli atti interni sarebbe connotato da una minore intensità di tutela. Pertanto, si ha nullità del provvedimento amministrativo, causa la sua difformità al diritto europeo, solo in via eccezionale e cioè allorché la p.a. abbia agito in via autoritativa facendo applicazione di una legge non consentanea ai canoni comunitari, i quali precludono l’esercizio del potere in relazione alla fattispecie concreta. Così è stato deciso, ad esempio, con riferimento ad un finanziamento concesso da un organo pubblico qualificabile come aiuto di Stato ai sensi degli artt. 101 e ss. del TFUE[38].

7. I nodi esegetici del nesso di presupposizione e i relativi effetti

Il panorama normativo e giurisprudenziale summenzionato e analizzato meticolosamente pone in luce le ragioni dell’eccezionalità dell’efficacia meramente viziante da cui è affetto l’atto presupponente in virtù della patologia che affligge l’atto presupposto, che consente un corretto inquadramento della tematica che ci occupa.

L’argomentazione principale sulla quale si regge l’assunto appena riferito consiste nella asserita annullabilità dell’atto presupposto. Non ha ragion d’essere, infatti, la preoccupazione di una parte della dottrina secondo la quale escludendo la caducazione automatica dell’atto consequenziale si perverrebbe all’inammissibile esito di convertire un’ipotesi di nullità della determinazione endoprocedimentale nell’annullabilità del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo.

In realtà, come visto, la giurisprudenza, unitamente alla dottrina maggioritaria, al fine di garantire la certezza dei rapporti giuridici e attese le coordinate ermeneutiche riguardanti i rapporti  tra atto amministrativo e sopravvenienze normative, reputano sempre affetto da annullabilità l’atto a rilevanza interna, per cui, in difetto della più gravosa patologia della nullità è da escludersi sia la nullità del provvedimento finale ma anche e soprattutto la sussistenza di una invalidità ad efficacia caducante. L’atto presupposto, sebbene invalido risulta efficace e regge l’azione amministrativa, salvo la legittima censura che ad esso potrebbe opporre colui che viene leso dall’operato della pubblica amministrazione.

L’eccezionalità dell’invalidità ad efficacia caducante si attaglia anche all’attuale conformazione del principio di legalità, azione della pubblica amministrazione e portata del giudicato. Il Consiglio di Stato, pronunciandosi sui rapporti tra regolamento e atto attuativo del medesimo, ha asserito che venendo in rilievo un atto generale e astratto, esso non può considerarsi l’unico presupposto dell’atto amministrativo attuativo, con la conseguente mancanza di un rapporto di stretta derivazione tra atti idonea a determinare l’effetto caducante senza necessità di un’autonoma impugnazione.

L’adesione alla tesi della necessità di una doppia impugnazione sotto il profilo del versante processuale è rappresentata dall’estensione dell’efficacia della sentenza di annullamento al di là del caso concreto sottoposto all’attenzione dell’autorità giudiziaria. Autorevole dottrina ha avuto modo di osservare che la sentenza del giudice amministrativo determina solo la caducazione delle situazioni giuridiche soggettive che presuppongono l’efficacia del provvedimento venuto meno[39].

I terzi, dunque, seppure in via indiretta subiscono i riverberi della delibazione giudiziale, non perdono la loro qualità di soggetti estranei al processo e sono legittimati pertanto a proporre opposizione. La giurisprudenza sul punto ritiene ammissibile l’efficacia erga omnes della sentenza del giudice amministrativo tenendo conto, però, dei limiti oggettivi in cui il giudicato si è formato, deducibile dal dispositivo, dalla motivazione e dall’oggetto del giudizio.

L’individuazione dei limiti della ampiezza del giudicato è direttamente correlata al contenuto inscindibile dei regolamenti e alla loro portata generale e astratta, per cui la pronuncia dell’autorità giurisdizionale non può che spiegare efficacia erga omnes. La suddetta regola, però, rappresenta un’eccezione alla regola, come dimostra l’orientamento consolidato del Consiglio di Stato in ordine all’ampiezza degli effetti delle sentenze rese in ordine ad un atto plurimo, il cui contenuto scindibile quanto ai suoi destinatari giustifica l’applicazione della disciplina di carattere generale di cui all’art. 2909 del codice civile.

L’invalidità ad efficacia caducante, dunque, è soggetta ad un’interpretazione restrittiva perché difficilmente un atto, che s’inserisce in un’attività istruttoria ampia e complessa, costituisce il presupposto unico del provvedimento finale, la cui maggiore ampiezza e il diverso raggio d’azione rappresentano la ragione della particolare modulazione degli effetti del sindacato del giudice amministrativo.  

Inoltre non appare infondato il timore di un vulnus arrecabile all’effettività della tutela giurisdizionale dei destinatari dell’atto presupponente per cui è da ritenersi ragionevole configurare l’esclusione della doppia impugnazione, la caducazione automatica del provvedimento finale e l’estensione del giudicato a terzi estranei alla vicenda processuale come un’eccezione alla regola.

La conclusione de qua a maggior ragione ben si attaglia ai provvedimenti della pubblica amministrazione legati da un una relazione esterna al procedimento.  L’applicabilità del principio di derivazione in materia, invero, è oggetto di opinioni divergenti in dottrina e in giurisprudenza.

La problematica in commento si presenta particolarmente delicata allorché le determinazioni della pubblica amministrazione siano avvinte da un nesso di presupposizione di carattere necessario. A titolo esemplificativo, è possibile rammentare la relazione sussistente tra la dichiarazione di pubblica utilità e il provvedimento di esproprio, oppure tra il piano regolatore e la concessione edilizia o il diniego della concessione edilizia. Il quesito che occupa gli interpreti riguarda, in particolare, le conseguenze della nullità dell’atto presupposto sull’atto presupponente[40].

Parte della dottrina si è mostrata perplessa e critica rispetto all’operatività dell’istituto della invalidità derivata, sub specie di nullità, agli atti legati da relazione esterna, poiché se il provvedimento amministrativo a monte è nullo, cioè improduttivo di effetti ab origine, è di palmare evidenza che l’amministrazione ha omesso la verifica circa l’improduttività di effetti dell’atto presupposto e ha emanato l’atto consequenziale senza vagliare la sussistenza dei suoi presupposti applicativi[41]

L’osservazione in commento è di notevole rilevanza in quanto discorrere in siffatto modo equivale ad affermare che la pubblica amministrazione ha agito in modo scorretto e pertanto il provvedimento consequenziale emanato dalla medesima è affetto da un vizio proprio, non derivato dall’invalidità dell’atto a monte. L’amministrazione sarebbe tenuta, come l’autorità giurisdizionale, a verificare se l’atto presupposto sia nullo o annullabile. Ne consegue che la stessa non subisce semplicemente le conseguenze di un errore altrui bensì con la sua omissione viola le regole relative al corretto espletamento dell’azione amministrativa.

Altro filone ermeneutico, viceversa, ritiene ammissibile la caducazione automatica di un provvedimento consequenziale legato da una relazione esterna al procedimento con il provvedimento presupposto, ma non ritiene configurabile in detta ipotesi l’istituto della nullità.

Si osserva, con particolare riferimento all’ipotesi paradigmatica dell’espropriazione, che l’atto caducato non è di per sé invalido, poiché il medesimo viene meno non per vizi propri, ma per patologie imputabili agli atti presupposti.  La caducazione, secondo l’esegesi oggetto di analisi, costituirebbe, a ben vedere, un istituto di diritto processuale e procedimentale, costituendo il riflesso demolitorio dell’invalidazione, il quale non colpisce solamente l’atto presupposto, ma anche i provvedimenti legati al primo da un nesso di dipendenza funzionale. La caducazione, in altre parole, è il frutto cassatorio portato alle sue estreme conseguenze[42].              

E’ da puntualizzarsi, inoltre, che qualora l’espropriazione sopraggiunga in un momento successivo all’accertamento giurisdizionale della nullità della dichiarazione di pubblica utilità, il decreto di esproprio sarebbe affetto da una nullità che non ha carattere derivato. Esso, piuttosto, sarebbe da considerarsi nullo, in quanto collidente con la norma di ordine pubblico che prescrive l’esistenza di una dichiarazione di pubblico interesse valida, quale suo presupposto necessario, e ciò avviene non solo quando detta dichiarazione è nulla ma anche quando è del tutto mancante o è divenuta efficace per scadenza del termine[43].

Simili conclusioni interpretative sono state proposte anche in ordine al caso di un concorso senza assunzione. Si rileva, infatti, che se l’atto consequenziale può reputarsi caducato a seguito della declaratoria di nullità dell’assunzione, nell’ipotesi di atto consequenziale intervenuto dopo l’accertamento giudiziale della nullità di quello presupposto occorre discorrere di inutilità o inutilizzabilità. Un atto logicamente e formalmente legato a quello nullo, come può essere la delibera di variazione di una pianta organica, non è praticamente utilizzabile, per mancanza dei soggetti cui attribuire i posti assegnati[44]

L’orientamento dominante in giurisprudenza sembra attestarsi su posizioni divergenti.  La tematica che presenta maggiore complessità è quella della sorte degli atti adottati dal funzionario di fatto privo di investitura. Sul punto si rende necessario operare delle discriminazioni.

In primo luogo, possono essere accomunate le ipotesi dell’usurpatore, cioè di colui che si arroghi funzioni pubbliche che non gli competono, e i casi investitura inesistente o nulla. Le determinazioni assunte dal funzionario dovrebbero considerarsi nulle in quanto emanate da un organo che non è qualificabile come pubblica amministrazione. A ben vedere, allorché venga in rilievo la carenza di legittimazione per vizio originario o sopravvenuto del titolo, gli atti emanati dal funzionario di fatto sono viziati da carenza di potere in concreto, sub specie di incompetenza, non dubitandosi della norma attributiva della pubblica amministrazione, ma solo del suo uso illegittimo, con consequenziale attrazione della questione alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo[45].

La giurisprudenza, peraltro, ha operato un distinguo circa la possibilità di censurare l’atto adottato dal funzionario di fatto qualora sia scaduto il termine per impugnare la nomina illegittima. Qualora l’investitura abbia avuto luogo per il compimento di atti specifici la sua illegittimità si trasmette automaticamente agli atti dell’ufficio, poiché sussiste una relazione univoca tra investitura del funzionario ed emanazione dell’atto.  Il privato viceversa, rispetto agli atti adottabili da un organo a competenze generali, può impugnare il provvedimento lesivo unitamente all’atto di nomina o di investitura solo se e nella misura in cui sussista uno specifico nesso procedimentale[46].

Il Consiglio di Stato, inoltre, ha affrontato la tematica dell’invalidità ad effetto viziante o caducante con riferimento ai rapporti tra autorizzazione unica ambientale e valutazione d’impatto ambientale. E’ stato osservato, in particolare, che l'art. 12, comma IV, del decreto legislativo n. 387 del 2003 fa della valutazione di impatto ambientale solo un contributo, per quanto importante, nell'ambito della più ampia prospettiva valutativa del "procedimento unico" destinato a sfociare nel conferente titolo autorizzatorio. Poiché, quindi, la pronuncia sulla compatibilità ambientale non esaurisce le valutazioni cui la Regione è chiamata ai fini del rilascio dell'autorizzazione unica, si conferma l'insussistenza dei presupposti di un ipotetico effetto caducante a carico del titolo autorizzatorio non impugnato[47].  La valutazione di impatto ambientale, peraltro, non è idonea ad esprimere un giudizio definitivo sul relativo progetto, la cui concreta realizzabilità scaturisce solo dal rilascio della successiva autorizzazione finale. E' questa, quindi, a costituire l'atto lesivo di qualsiasi posizione di interesse contraria all'intervento. Ne consegue che la mancata impugnazione dell'autorizzazione finale preclude ogni contestazione sulla realizzabilità dell'intervento, anche sotto il profilo dell'impatto ambientale[48].

Ancora, la pronuncia n. 3272 del 2013 del Consiglio di Stato afferente al governo del territorio ha chiarito che la relazione che intercorre tra regolamento urbanistico e piano attuativo non è di natura diversa da quella che passa tra piano attuativo e permesso di costruire. In entrambi i casi, gli atti presupponenti (piano attuativo e permesso di costruire) hanno alle loro spalle un atto presupposto (regolamento urbanistico e piano attuativo), che limitano -ma non certo eliminano- il potere di apprezzamento discrezionale dell'Amministrazione. L'effetto che in entrambi i casi si produce tra le coppie di atti, in caso di invalidità dell'atto presupposto, è dunque l'invalidità derivata, destinata a essere fatta valere nelle forme, nei modi e nei termini previsti dall'ordinamento, e dunque, necessariamente, anche mediante la tempestiva impugnazione dell'atto presupposto, nel rispetto del termine di decadenza. D'altronde, se il Comune, nell'approvare il piano attuativo, non fosse chiamato a compiere una valutazione di interessi nuova e diversa (seppure circoscritta, nel senso di cui prima si è detto), l'approvazione del piano medesimo degraderebbe al ruolo di atto meramente esecutivo se non addirittura dovuto: conseguenza questa palesemente incongrua e contrastante con la realtà effettuale, e comunque incompatibile con la complessa procedura prescritta per l'approvazione del piano medesimo[49].

Dalle coordinate ermeneutiche illustrate con riferimenti a settori molto differenti tra loro, quali le procedure concorsuali, i rapporti tra valutazione d’impatto ambientale e autorizzazione unica ambientale, illegittimità o assenza dell’investitura o della nomina e sorte degli atti adottati dal funzionario di fatto, nessi tra regolamento urbanistico e piano attuativo, tra quest’ultimo e permesso a costruire, s’evince un insieme di regole che può essere così efficacemente sunteggiato.

8. La recente sentenza del Consiglio di Stato Sez.III, sentenza n. 6922 del 10 novembre 2020

 

L’ulteriore discrezionalità di cui gode l’amministrazione nell’emanazione dei provvedimenti consequenziali ne segna la loro autonomia. Il principale corollario di detta caratteristica consiste nella circostanza per cui i vizi degli atti presupposti si riverberano sugli atti consequenziali, ma il ricorso proposto dal ricorrente deve rivolgersi tanti agli uni quanto agli altri.  Detta regola. però, subisce delle eccezioni.

In primo luogo, non possono essere impugnati con gli atti successivi gli atti presupposti che l’interessato avrebbe avuto l’onore di impugnare autonomamente in virtù della loro immediata attitudine lesiva. L’omessa impugnazione dell’atto presupponente determina, infatti, la definitiva acquiescenza all’atto anteriore. Inoltre, allorquando il destinatario dell’atto a monte aveva l’onere di impugnarlo e non lo ha fatto nel termine decadenziale previsto, non potrà censurare l’atto successivo per vizi derivati.

In termini esattamente speculari, l’interessato dall’atto presupposto non è tenuto ad impugnare l’atto consequenziale se questo costituisce l’antecedente unico e necessario dell’atto presupposto. Si pensi, a titolo esemplificativo, agli atti del funzionario di fatto afferenti ad un ufficio a competenze specifiche che sono immediatamente collegati all’atto di investitura o di nomina.

Le regole costituzionali e ordinarie che governano il diritto amministrativo, sul versante sostanziale e processuale, come già accennato, inducono a ricostruire l’invalidità ad efficacia caducante come l’eccezione e l’invalidità viziante quale regola anche in ordine ai provvedimenti legati da una relazione esterna al procedimento.

I principi in commento sono stati confermati dalla recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6922 del 2020, con la quale è stato ribadito che “la nozione di atto presupposto è fondata, in relazione ad atti di un unico procedimento o anche ad atti autonomi, sull'esistenza di un collegamento fra gli atti stessi, così stretto nel contenuto e negli effetti, da far ritenere che l'atto successivo sia emanazione diretta e necessaria di quello precedente, così che il primo è in concreto tanto condizionato dal secondo nella statuizione e nelle conseguenze da non potersene discostare.

Sotto l'aspetto strutturale, gli atti sono in una relazione di successione giuridica e cronologica, o di necessario concatenamento; l'atto presupposto non soltanto precede e prepara quello presupponente, ma ne è il sostegno esclusivo. Gli effetti del provvedimento pregiudiziale sono i fatti costitutivi del secondo, o meglio del relativo potere; vi è una consequenzialità necessaria tra i due provvedimenti, tale che l'esistenza e la validità di quello presupposto sono condizioni indispensabili affinché l'altro possa legittimamente esistere e produrre la propria efficacia giuridica.

Sotto l'aspetto funzionale, poi, i più atti risultano preordinati alla realizzazione di un unico rapporto amministrativo, riguardano, cioè, un unico bene della vita; ciascun atto spiega da solo taluni effetti giuridici, ma soltanto congiuntamente all'altro dà vita al rapporto giuridico, che rappresenta l'oggetto dell'interesse pubblico considerato dai più poteri funzionalmente collegati.

Da quanto detto emerge che, sul piano della disciplina, l'illegittimità ed il conseguente annullamento dell'atto presupposto determinano l'illegittimità di quello conseguente, venendo meno la situazione giuridica che costituisce la condizione unica e necessaria per la sua legittima esistenza (cd. invalidità derivata): l'annullamento del provvedimento presupposto si ripercuote su quello presupponente, che è travolto e caducato.

Ed invero, l'atto presupposto è fondamento esclusivo di quello applicativo, nel senso che l'esistenza e la validità del primo sono condizioni necessarie affinché il secondo possa legittimamente venire ad esistenza; non è possibile che l'atto presupposto non esista o, qualora emanato, sia successivamente eliminato (dal giudice o dalla P.A. in via di autotutela) e che rimanga legittimamente in vita quello dipendente.

Infatti, essendo gli atti concatenati, le sorti dell'atto presupposto si ripercuotono inevitabilmente su quelle dell'atto presupponente: gli effetti sostanziali prodotti da quest'ultimo postulano l'avvenuta realizzazione di quelli prodotti dall'atto presupposto, di tal ché, se questi, a seguito dell'annullamento dell'atto presupposto, sono stati rimossi con efficacia retroattiva, il rapporto amministrativo originato dall'atto dipendente non può sussistere”.

Le asserzioni della giurisprudenza amministrativa sintetizzano efficacemente gli itinerari interpretativi e gli approdi ermeneutici cui si è pervenuti in un arco temporale anche piuttosto lungo.

In primo luogo, la pronuncia de qua conferma che è possibile discorrere di nesso di presupposizione dal carattere necessario solo se e nella misura in cui l’atto consequenziale e l’atto a monte siano avvinti da una medesima serie procedimentale. Il procedimento amministrativo, infatti, sorge per iniziativa d’ufficio o su istanza di parte, ma la sua conclusione è volta a fornire una risposta esplicita, di segno positivo o negativo, all’anelito dell’istante a conseguire un determinato bene della vita.

Una ulteriore e differente istruttoria procedimentale non può che giustificarsi per ottenere la realizzazione di un'altra situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il privato o alla cura della quale è preposta la pubblica amministrazione.

Anche dal principio di diritto espresso dal Consiglio di Stato, poi, si evince che l’invalidità ad efficacia caducante rappresenta l’eccezione alla regola.

Detta conclusione argomentativa si ricava dall’affermazione in ossequio alla quale l’atto presupponente non solo precede e prepara quello presupponente, ma ne costituisce l’esclusivo sostegno. Occorre rammentare, dunque, che due atti o il provvedimento conclusivo del procedimento e l’atto a monte, difficilmente sono avvinte da un simile legame.

Tendenzialmente, infatti, l’azione della pubblica amministrazione, a seconda degli interessi coinvolti e del momento procedimentale in cui interviene la sua determinazione, gode di una differente e più o meno ampia discrezionalità ed incide sulla sfera di terzi soggetti che non sempre coincidono.

Un siffatto esito interpretativo sembra essere confermato dalle esigenze che hanno indotto la giurisprudenza a delineare la fisionomia dell’atto implicito. Quest’ultimo si può definire sussistente allorché esista una manifestazione espressa di volontà, come un comportamento concludente o altro atto amministrativo proveniente dalla p.a. da cui desumere il medesimo atto implicito; tali atti o comportamenti, poi, devono provenire da un organo competente che opera nell'esercizio delle sue attribuzioni; l'atto implicito, inoltre deve rientrare nella sfera di competenza dell'autorità amministrativa emanante l'atto presupponente.

Ancora, quello implicito non deve essere un atto per il quale si richiede il rispetto di una forma solenne e devono essere rispettate le regole procedimentali prescritte per l'emanazione di un provvedimento in forma esplicita. Infine, dal comportamento deve desumersi in modo non equivoco la volontà provvedimentale, ovvero, deve esistere un collegamento esclusivo e bilaterale tra atto implicito e atto presupponente, nel senso che l'atto implicito deve essere l'unica conseguenza possibile di quello espresso[50].

La dottrina è concorde nel ritenere che una delle ragioni cui è dovuta l’elaborazione pretoria dell’istituto dell’atto implicito sia quella di ravvisare la sussistenza di un provvedimento amministrativo sebbene lo stesso sul piano prettamente formale non possa dirsi esistente

Detta operazione ermeneutica permetterebbe al soggetto leso dall’azione della pubblica amministrazione l’individuazione di una delibazione dell’organo pubblico da censurare dinanzi all’autorità giurisdizionale[51].

Il principale scopo perseguito dagli interpreti consisterebbe nella necessità di garantire l’effettività del diritto di difesa e di allargare le maglie della tutela giurisdizionale.

Il collegamento esclusivo e bilaterale tra atto implicito e atto presupponente non è volto a precludere la tutela di soggetti terzi controinteressati bensì a garantirla, contrariamente a quanto accade nelle ipotesi di invalidità ad efficacia caducante.

Una simile ragione giustificativa, per di più, è l’unica che può validamente sorreggere un istituto che si pone in evidente tensione con il principio di legalità e soprattutto con l’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 della legge 241 del 1990, definito quale essenza stessa dell’attività amministrativa e baricentro dell’esercizio legittimo del pubblico potere[52].      

Allorquando l’atto presupponente sia l’unica, immediata e diretta conseguenza dell’atto presupposto, invece, non è necessaria l’impugnazione del primo in ragione della retroattività dell’accertamento giurisdizionale che ne dichiara l’illegittimità. Si può osservare, tuttavia, che il predetto corollario soffre un’eccezione tutte le volte in cui il giudice amministrativo, modulando gli effetti del suo sindacato, escluda il carattere retroattivo della sua pronuncia per non deteriorare la posizione giuridica soggettiva di cui il ricorrente invoca la tutela[53].

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6922, sembra aver fatto corretta e agevole applicazione dei principi e delle regole esposte. Nel caso di specie sottoposto all’attenzione del giudice d’appello veniva in rilievo l’illegittimità di un decreto ministeriale (il D.M. n. 70 del 21 aprile 2015) sulla base del quale il Commissario ad acta per la Sanità della Regione Lazio aveva emanato un decreto volto a stabilire la quantificazione dell'offerta ospedaliera regionale di posti letto per i periodi di convalescenza che seguono la fase acuta di una malattia.

La Regione Lazio, appellante avverso la sentenza di primo grado, sosteneva che il decreto ministeriale n. 70 del 21 aprile 2015 non poteva essere qualificato quale atto presupposto del richiamato decreto del Commissario ad acta per la Sanità (n 377 del 2016) poiché quest’ultimo avrebbe individuato il fabbisogno regionale di posti sulla base di un criterio distinto ed autonomo da quello del decreto ministeriale.  La resistente in giudizio, dal suo canto, poneva in evidenza la piena sovrapponibilità del criterio prescelto dalla Regione Lazio con quello indicato dal più volte menzionato decreto ministeriale. La vicenda processuale, peraltro, involgeva anche  i rapporti tra il richiamato decreto del Commissario ad acta n. 377 del 2016 e un successivo provvedimento commissariale (n.275/2018), poiché quest’ultimo trovava la propria ragione giustificatrice nella modifica, operata dal secondo, della  differente erogazione e della diversa allocazione dei posti letto accreditati agli operatori sanitari esercenti la loro attività in nome e per conto del servizio sanitario nazionale, tra cui rientrava la resistente in giudizio.

Proprio in virtù del nesso di presupposizione esistente tra i decreti commissariali, il Tribunale amministrativo ne acclarava la contestuale caducazione. Il Consiglio di Stato perviene allo stesso esito interpretativo quanto ai rapporti tra decreto ministeriale n. 70 del 21 aprile del 2015 e decreto commissariale n. 377 del 2016, osservando che essendo pacifico il nesso di presupposizione-consequenzialità che lega tra Il decreto del commissario ad acta n. 377/2016 e il DCA n. 275/2018  si deve  del pari riconoscere la sussistenza di un analogo rapporto di presupposizione-consequenzialità tra il D.M. n. 70 del 2015 e il decreto commissariale n. 77 del 2016 per quanto concerne l'individuazione del fabbisogno di posti letto.

Gli elementi ritenuti decisivi dal Consiglio di Stato per il riconoscimento di un nesso di presupposizione dal carattere necessario sono individuati nella medesima finalità perseguita nonché dall’aver costituito il decreto ministeriale l’antecedente logico e necessario per una diversa allocazione delle prestazioni erogate in ambito sanitario. I provvedimenti amministrativi esaminandi, quindi, hanno ad oggetto il medesimo bene della vita e sono avvinti da un rapporto di consequenzialità diretta, immediata e necessaria.

Le argomentazioni del Consiglio di Stato si presentano lineari e immuni da perplessità e dubbi critici. Il giudice di ultima istanza osserva quanto segue: “andando ad applicare le suesposte coordinate generali al caso ora in esame, che il nesso di presupposizione che lega il DCA n. 377/2016 al D.M 21 aprile n. 70 del 2015 debba essere colto nel fatto che ambedue i provvedimenti sono volti a ridefinire il fabbisogno massimo di posti letto di post-acuzie e, per quanto di interesse, il fabbisogno massimo di posti letto per la neuro-riabilitazione ("codice 75"). Del resto, la conferma del menzionato nesso di presupposizione si rinviene nel documento allegato al DCA n. 377/2016 (intitolato "Programmazione dell'offerta di posti letto di post-acuzie riabilitativa e medica"), il quale sottolinea, al suo primo periodo, che la rimodulazione dell'area delle post-acuzie è stata demandata dal DCA n. U00412 del 26 novembre 2014 (recante programmazione della rete ospedaliera della Regione Lazio per acuti) ad un successivo provvedimento "in coerenza con quanto stabilito dal D.M. n. 70 del 2015. Invero nel  disporre la revisione del fabbisogno regionale di posti letto, il DCA n. 377/2016 prende le mosse dalla differenza tra l'offerta programmata sulla base del precedente DCA n. 412/2014 ed il fabbisogno di posti letto di post-acuzie determinato in base al D.M. N. 7 del 2015 Tale differenza è particolarmente marcata per quanto concerne il confronto tra l'offerta programmata di posti letto "codice 75" secondo il DCA n. 412/2014 (n. 380 posti) ed il fabbisogno determinato ai sensi del decreto ministeriale citato. (n. 117 posti). Come si legge a pag. 2 del documento allegato allo stesso DCA n. 377, questa divergenza (di ben 263 posti) costituisce proprio una delle due motivazioni dalle quali ha preso le mosse il DCA n. 377/2016 per individuare il fabbisogno di posti letto di alta specialità riabilitativa (con codici 75 e 28) sulla base del criterio dell'effettiva domanda di assistenza erogata. L'altra motivazione si fonda anch'essa sul D.M. N. 70 del 2015 e riguarda l’assenza, nel decreto ministeriale, di uno standard specifico per i posti letto "codice 28" (mielolesioni): questi, infatti, nel computo del fabbisogno in base al D.M. N. 70 del 2015, sono accomunati ai posti letto con codice 56 (cfr. la tabella riportata a pag. 1 dell'allegato al DCA n. 377/2016). Dunque, il surplus di n. 263 posti letto di neuro-riabilitazione (di "eccesso" parla, a pag. 1, l'allegato al DCA n. 377/2016) derivante dalla differenza tra i posti letto con codice 75 calcolati in base al DCA n. 412/2014 (380) e quelli con medesimo codice calcolati secondo il criterio del D.M. n. 70 del 2015 è il presupposto  dal quale muove l'impugnato DCA n. 377/2016 per la rimodulazione del fabbisogno regionale dei posti letto: ma tale presupposto cade per effetto dell'accertamento dell'illegittimità del criterio di cui al decreto ministeriale (limite massimo di 0,02 posti letto per 1.000 abitanti), e venendo meno il presupposto, in base ai principi generali sopra enunciati, non può che venire meno, altresì, la disciplina dettata dall'atto consequenziale (il decreto commissariale). In altre parole, il presupposto del DCA n. 377/2016 è un dato numerico attinente a un preteso eccesso di posti letto di neuro-riabilitazione (263), derivante da un rapporto differenziale (380 - 117) in cui, però, uno dei due termini del rapporto (il numero di n. 117 posti letto "codice 75" determinato in base a D.M. n. 70 del 2015è venuto meno, stante l'illegittimità, giudizialmente accertata, del criterio previsto per la sua determinazione. Orbene, tale illegittimità si riflette sullo stesso dato numerico (263) del surplus emergente dal citato rapporto differenziale, viziandolo a sua volta e rendendolo inattendibile, poiché solo uno dei termini da cui esso dipende (il numero di posti letto con codice 75 determinato ai sensi del DCA n. 412/2014, pari a 380) è rimasto intatto, mentre l'altro termine, come detto, è venuto meno. Non essendovi più il dato numerico (263) attestante il presunto eccesso di posti letto "codice 75" che, secondo il DCA n. 377/2016, giustificava la rimodulazione del fabbisogno dei medesimi posti letto, vien meno il presupposto logico-giuridico di detta rimodulazione, operata dal decreto commissariale, il quale, perciò, non può che essere anch'esso travolto. Né si può obiettare, al riguardo, che rimarrebbe in piedi l'altra motivazione addotta dall'allegato al DCA n. 377/2016 per giustificare la rimodulazione del fabbisogno di posti letto (la necessità di uno standard specifico per i posti letto "codice 28"), poiché anche per questo verso la rimodulazione ha preso le mosse dai dati numerici derivanti dall'applicazione del criterio stabilito dal D.M. n. 70 del 2015 e l'illegittimità di tale criterio non può che avere viziato nel suo complesso la suddetta operazione di rimodulazione. Ovviamente, la caducazione del DCA n. 377/2016 non può che implicare, a cascata, il travolgimento del DCA n. 275/2018, quale atto strettamente conseguente al precedente.”

Le coordinate ermeneutiche delineate dal Consiglio di Stato appaiono logicamente e giuridicamente ineccepibili soprattutto qualora si considerino le particolari modalità di programmazione di erogazione delle prestazioni sanitarie nonché dei peculiari rapporti tra soggetti pubblici e privati nel sistema sanitario. Coloro che intendono erogare prestazioni sanitarie a favore degli utenti, innanzitutto, devono ottenere un’autorizzazione dall’ente comunale ex art. 8 ter del decreto legislativo n. 502 del 1992 per la realizzazione di strutture nelle quali espletare la propria attività[54].

In secondo luogo, è possibile conseguire il cd. accreditamento istituzionale, il quale consiste in un atto amministrativo emanato dalla Regione e rilasciato purché le strutture che presentano istanza a tal fine abbiano i requisiti di qualificazione e dimostrino la loro funzionalità rispetto agli indirizzi di programmazione regionale e superino la verifica circa l’attività svolta e i risultati raggiunti. A tale scopo la Regione definisce il fabbisogno di assistenza secondo le funzioni sanitarie individuate dal Piano sanitario regionale per garantire i livelli essenziali ed uniformi di assistenza, in ossequio alla disposizione contenuta nell’art. 8 quater, comma 1, del decreto legislativo n. 502 del 1992.

Infine, i soggetti accreditati possono stipulare un contratto con il quale essi possono svolgere la propria attività non solo in nome ma anche a carico del servizio sanitario nazionale. La remunerazione del servizio erogato, peraltro, può subire delle legittime variazioni in virtù della modifica della programmazione realizzatasi dopo la conclusione di detti accordi[55].

Ai fini che qui ci occupano occorre rilevare che l’art. 117 della Costituzione contempla, in punta di riparto della potestà legislativa, più titoli di legittimazione.  Il comma III annovera tra le materie di competenza concorrente la tutela della salute. Lo Stato, dunque, ne delinea i principi fondamentali e le Regioni emanano la disciplina di dettaglio. Nelle materie di competenza concorrente rientra anche il coordinamento della finanza pubblica, che incide anche sul diritto alla salute in quanto essa consiste in una situazione giuridica soggettiva finanziariamente condizionato soprattutto a seguito della costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio per l’effetto della legge n. 1 del 2012.

Infine, è ascritta alla esclusiva competenza statale la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, i quali debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ex art. 117, comma II, lettera m della Costituzione. In particolare spetta allo Stato centrale disciplinare i livelli essenziali di assistenza che riguardano gli standard qualitativi e quantitativi delle prestazioni da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale e, quindi, in essi rientrano le previsioni statali volte a consentire la fruizione da parte degli utenti del servizio sanitario delle prestazioni che ne costituiscono attuazione[56].

Le fonti di rango costituzionale governano i procedimenti di rilevanza sanitaria che, sul piano ordinario, rinvengono la loro principale regolamentazione nel decreto legislativo n. 502 del 1992.

L’art. 1, comma 10, della norma appena cennata statuisce che il piano sanitario nazionale individua gli obiettivi e le priorità del servizio sanitario che tutti i livelli territoriali competenti e le strutture del servizio sanitario sono chiamati a conseguire nel triennio della sua vigenza. La funzione principale del predetto piano è quella di garantire i livelli essenziali di assistenza sanitaria. Viceversa, il piano sanitario regionale costituisce il piano strategico degli interventi volti a definire gli obiettivi di salute e il funzionamento dei servizi, finalizzati al soddisfacimento delle esigenze della popolazione regionale, in attuazione del piano sanitario nazionale.

La disamina effettuata dalla materia sanitaria rende di palamare evidenza la stretta concatenazione tra le norme emanate dalle Regioni e dallo Stato, la loro inerenza ad un medesimo bene della vita e il loro inserimento in un rapporto di diritto pubblico interessato da un iter procedimentale che si svolge su differenti livelli di governo. Nel caso di specie, il decreto n. 377 del 2016 del Commissario ad acta per la Regione Lazio provvedeva alla rideterminazione dell’allocazione delle prestazioni erogata in materia sanitaria alla luce delle indicazioni vincolanti contenute nel piano strategico nazionale adottato mediante decreto ministeriale ai sensi dell’articolo 2 della legge 13 del 1991.

Il nesso di presupposizione a carattere necessario si evince chiaramente da una piana lettura della disposizione normativa in commento nella parte in cui reca la regolamentazione e la disciplina afferente gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi delle strutture relativi all'assistenza ospedaliera  e, contestualmente, statuisce che le regioni provvedono, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del  presente decreto  ad adottare il provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del Servizio sanitario regionale.

9. Considerazioni finali

Concludendo, si può rilevare che il principio di derivazione conosce diverse modulazioni in ragione della relazione procedimentale o meno che lega gli atti e dei provvedimenti amministrativi.

L’esegesi dominante della giurisprudenza, volta ad ammettere l’istituto dell’invalidità derivata, non si può ritenere collidente con i canoni fondamentali dell’effettività della tutela giurisdizionale, del rispetto del principio del contraddittorio e della necessaria impugnazione delle delibazioni ascrivibili agli organi pubblici della propria sfera giuridica, nella misura in cui si ritiene sussistente il nesso di presupposizione a carattere purché le decisioni della pubblica amministrazione riguardino il medesimo bene della vita.

La recente sentenza del Consiglio di Stato ha adeguatamente messo in luce, dunque, il grimaldello per fornire una lettura costituzionalmente orientata della materia de qua: medesimezza della res cui si anela equivale, almeno tendenzialmente, a sovrapponibilità dei destinatari della manifestazione di volontà dell’Autorità, con consequenziale risoluzione  dei problemi scaturenti dall’esigenza di consentire a ciascuno la difesa in giudizio dei propri  diritti soggettivi e dei propri interessi legittimi ex art. 24 della Costituzione.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, il Mulino, Bologna, 2017, pag. 204.

[2] R. CHIEPPA- R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2020, pag. 624.

[3] Così F. BELLOMO, Manuale di diritto amministrativo, Padova 2009, pag. 423 e ss.

[4] Così. R. CHIEPPA-R. GIOVAGNOLI, op. cit., pag., 625.

[5] Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 1744 del 2016.

[6] Così F. CARINGELLA- M. PASTORE, Manuale di diritto amministrativo, L’invalidità del provvedimento ammnistrativo, Dike Editrice, Roma, 2014, pag. 185.

[7] Vedi sul punto R. GAROFOLI-G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, Roma, 2017, pag. 1066; R. VILLATA, L'atto amministrativo, in Diritto amministrativo, (a cura di) L. MAZZAROLLI- G. PERICU - A. ROMANO - F.A. ROVERSI MONACO - F.G. SCOCA, III ed., Bologna, 2001, pag. 1604 e ss.; B. Cavallo, Provvedimenti e atti amministrativi, Padova, 1993, pag. 423; M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., Milano, 1993, II, pag.563 e ss.

[8] Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 672 del 2000.

[9] Così Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 672 del 2000.

[10] Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 5559 del 2007.

[11] Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 2766 del 2010, Consiglio di Stato Sez. V, sentenza n. 2586 del 2009; sent. n. 5583 del 2008; Sez. IV, sent. n. 991 del 2006.

[12] Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4404 del 2015.

[13] Cfr. F. ANCORA, Studi in onore di Alberto Romano, L’invalidità derivata nel diritto pubblico ed in particolare nel diritto amministrativo, Napoli, 2011.

[14] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 2611 del 2015; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 2116 del 2015; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1782 del 2015 e n. 1652/2015); Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 163 del 2015; Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 6174 del 2014.

[15] V. sul punto A. SUSCA, L’invalidità del provvedimento amministrativo dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, in Il nuovo Diritto amministrativo, Giuffrè. 2005, pag. 130-131; A. BARTOLINI, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 294 il quale parla, in tale ipotesi, di una pseudo nullità, in cui, invero “la conseguenza della mancata comunicazione del vizio di nullità sarebbe per l’appunto, quella che una volta divenuto inoppugnabile il provvedimento finale non si potrebbe più far valere la nullità dell’atto procedimentale”.

[16] E. STICCHI DAMIANI, La caducazione degli atti amministrativi per nesso di presupposizione, in Dir. proc. amm., 2003, pag. 646 e ss.

[17] Sul punto cfr. R. GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, Roma, 2017, pag.1068.

[18] Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 785 del 2002.

[19] Cfr. P. VIRGA, Caducazione dell'atto amministrativo per effetto travolgente dell'annullamento giurisdizionale, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, 1975, 689; A.M. SANDULLI, Il problema dell'esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, in Dir. e soc., 1982, 21; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 3040 del 2003; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 5189; Tar Lazio, Roma, Sez. II, sentenza n. 2553 del 2014; Tar Campania, Napoli, Sez. IV, sentenza n. 385 del 2015.

[20] Consiglio di Stato sez. V, sentenza n. 2237/2000; C.g.a. sentenza n. 934 del 2013.

[21] D. CORLETTO, voce Opposizione di terzo nel diritto processuale amministrativo, in Digesto (discipline pubblicistiche), XIV,566.

[22] R. GALLI, Nuovo Corso di Diritto amministrativo, CEDAM, Milano, 2019, pag. 860 e ss. Cfr. anche G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 1958; B.G. MATTARELLA, L’imperatività del provvedimento amministrativo-Saggio critico, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, pag. 469 e ss.

[23] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 2858 del 2017;  CDS, sez. IV, sentenza n.  6188 del 2012; CDS, sez. IV, n. 602 del 2017; Cass. Civ., Sez. Unite, sentenza n. 2858 del 2017 le quali rammentano che “che l'atto soprassessorio con il quale la p.a. rinvia ad un accadimento futuro ed incerto nell'an e nel quando il soddisfacimento dell'interesse pretensivo fatto valere dal privato, costituisce un vero e proprio diniego a provvedere, come tale determinante un arresto a tempo indeterminato del procedimento attivato dal privato, lesivo della posizione giuridica del richiedente; ne consegue che, ancorchè non definitivo, tale atto - paralizzando la situazione giuridica del soggetto destinatario dello stesso, rendendola di fatto inutilizzabile per un periodo di tempo non definito - deve essere considerato immediatamente impugnabile, onde consentire il controllo di legittimità da parte del giudice competente”. Tale indirizzo trova sostanziale rispondenza nell'orientamento del Consiglio di Stato, che, a partire dalla nota decisione dell'Adunanza plenaria n. 8 del 10 luglio 1986, ha delineato i contorni del c.d. "arresto procedimentale", ponendo l'accento sull'effetto preclusivo derivante da un atto prodromico, che, da un lato, frustra le aspirazione alla realizzazione dell'interesse pretensivo provocando un'interruzione, virtualmente definitiva, del normale svolgimento del procedimento amministrativo, e, dall'altro, assumendo natura "esterna", incide immediatamente sulla situazione giuridica del richiedente. L'arresto procedimentale assume, quindi, una duplice valenza, che può ricondursi, volendo individuare un comune elemento caratterizzante, a una particolare efficacia, normalmente preclusiva, dell'atto prodromico rispetto alla propria funzione endoprocessuale e agli effetti normalmente prodotti dal provvedimento conclusivo del procedimento”.

[24] V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2018, pag. 1153.

[25] Cons. Stato Roma Sez. V, sent. N. 163 del 2015.

[26] Cfr. R. VILLATA -M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006; C. MARZUOLI, Atti amministrativi e atti della pubblica amministrazione, in www. Iuspubblicum.com, 2011; D. SORACE, Promemoria per una voce “atto amministrativo”, in AA.VV, scritti in onere di M.S. Giannini, III, Milano, 1988, pag. 752.

[27] Cfr. D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Una introduzione, il Mulino, Bologna, 2014, pag. 117 e ss.; F.G. SCOCA, Il provvedimento, in Il diritto amministrativo, Torino, 2017, pag. 286.

[28] Cfr. A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, pag. 642 e ss.; M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2017, pag.237 e ss.

[29] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 34 del 2012; cfr. P. PORTALURI, La regola estrosa: note su procedimento amministrativo e ius superveniens, in www. giustiziaamministrativa.it; P. VIRGA, Diritto amministrativo, Atti e ricorsi, vol. II, Milano, 2001, pag. 119 e ss.

[30] Sul punto cfr. F. LA VALLE, La retroazione della pronuncia di incostituzionalità sui provvedimenti e sugli adempimenti amministrativi, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1963, pag. 875 e ss.; C. PADULA, Gli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale sugli atti amministrativi applicativi della legge annullata, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Napoli, 2009, vol. IV, pp. 1493-1522.

[31] Sul punto Corte costituzionale sentenza n. 69 del 2014, 310 e 83 del 2013; Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 166 del 2012; sez. IV, sentenza n. 202 del 2010.

[32] In proposito si veda N. PIGNATELLI, I provvedimenti amministrativi “anti-comunitari”: profili sostanziali e processuali, in La Rivista, Neldiritto, 2009, 6, pag. 885 e ss.; R. MUSONE, Il regime di invalidità dell’atto amministrativo anticomunitario, Napoli, 2007; F. GRECO, Incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi italiani, in M. P. CHITI-GRECO, Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 2007, pag. 936 e ss.    

[33] Una prima tesi sosteneva che la legge dichiarata incostituzionale sia ab origine inefficace, con la conseguenza che tutti sono tenuti a non osservarla. L’atto, dunque, sarebbe inficiato da una validità originaria e dovrebbe considerarsi nullo se costituisce l’unica norma attributiva del potere. Sul punto, cfr. V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2018, pag. 54; in chiave critica è stato obiettato che la legge costituzionalmente illegittima è invalida ma efficace, con la conseguenza che essa deve essere rispettata a partire dal momento della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Altra autorevole opinione perveniva al medesimo esito interpretativo mediante un differente percorso argomentativo e, in particolare, facendo leva sulla efficacia retroattiva delle sentenze delle Corte Costituzionale. Cfr. A. CELOTTO, Fonti del diritto e antinomie, Torino, 2011, pag. 111.

[34] Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4264 del 2014; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 8363 del 2010.

[35] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 633 del 1998.

[36] R. VILLATA- M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017, pag. 454.

[37] TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 18 marzo 2013, 268; Cons. Stato, Sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 579; Cons. Stato, Sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35. Per l’esame di alcuni tra i più rilevanti dei numerosi contributi in dottrina cfr.  F. G. SCOCA, Appunti sulla “validità” del provvedimento amministrativo, in Diritto e processo amministrativo, n. 4/2018, pp. 1037-1062; T. BONETTI - A. SAU, La nullità del provvedimento amministrativo, in Giornale di diritto amministrativo, n.2/2015, pp. 271-281; A. CORPACI, Osservazioni minime sulla nullità del provvedimento amministrativo e sul relativo regime, in Diritto pubblico, n. 2/2015, pp. 673-687.

[38] Cfr. G. MASSARI, L’atto amministrativo antieuropeo, verso una possibile tutela, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2014, p. 643.

[39] Così R. GAROFOLI- G.FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, pag. 2112, Neldiritto Editore, Roma 2016.

[40] V. F. CARINGELLA- M. PASTORE, op.cit., pag. 187.

[41] Cfr. A. SUSCA, L’invalidità del provvedimento amministrativo dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, op.cit., pag. 132.

[42] Sul punto v. P. VIRGA, Caducazione dell’atto amministrativo per effetto travolgente dell’annullamento giurisdizionale, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, 1975, pag. 698.

[43] Cfr. A. BARTOLINI, La nullità del provvedimento amministrativo, op. cit. pag. 299.

[44] Cfr. G. SCHIZZEROTTO, Il collegamento negoziale, Napoli, 1993, pag. 191 e ss.; G. DI NANNI, Collegamento negoziale e funzione complessa, in Riv. Dir. comm., 1997, I, pag. 300.

[45] Cfr. R. GALLI, Nuovo corso di diritto amministrativo, op.cit. pag. 211; Tar Toscana, Firenze, sentenza n. 1576 del 2018.

[46] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 232 del 199; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 853 del 1999; Cons. Stato, Sez. sentenza n. 3070 del 2001; Cons. Stato, Sez. V, sentenza n. 821 del 2003, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, sentenza n. 1073 del 2006; Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 2861 del 2013.

[47] Cons. Stato Sez. V, sentenza n. 2611 del 2015; adesivamente Consiglio di Stato, sent. n. 5294 del 2012).

[48] Cons. Stato, sezione VI, sentenza n. 2696 del 2002.

[49] Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 3272 del 2013.

[50] Cons. Stato Sez. IV, sentenza n. 2456 del 2018.

[51] Per un approfondimento della tematica in commento cfr. D. TUCCI, L'atto amministrativo implicito, Milano, 1990.  IEVA, Presupposti processuali e condizioni dell'azione, in L. IEVA- G. PESCE – R. GIOVAGNOLI, Trattato di giustizia amministrativa, vol. III, Il processo amministrativo di primo grado, Milano, 2005, 400; F. D. TREBASTONI, Tipologie di atti e onere di impugnazione, in www.Diritto&Diritti.it.

[52] Corte costituzionale, sentenza n. 92 del 2015. Per un approfondimento v. E. CASETTA - F. FRACCHIA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2017, pag. 515 e ss.; G. TROPEA, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, pag. 1235 e ss.

[53] Cons. St., sez. VI, sentenza n. 2755 del  2011.  Cfr. anche A. Giusti,  La Corte di giustizia interviene sul potere del giudice nazionale di modulare gli effetti dell’annullamento, in Rivista Quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 2013; M. Macchia, L’efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giorn. dir. amm., 2011, 1310 ss.; E. Follieri, L’ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2012, 439 ss.; E. Loria, Accertata l’illegittimità dell’atto impugnato il giudice può decidere della non retroattività, in Guida dir., 26/2011, 103 ss.

[54] Cfr. sul punto V. Molaschi, Autorizzazione, accreditamento e accordi contrattuali tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e tutela della concorrenza, in Giur.it. 2914, pag. 674 e ss.

[55] L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che l’efficacia retroattiva degli atti programmatori non comporta alcuna lesione dell’affidamento in quanto gli erogatori delle prestazioni sanitarie possono fare riferimento all’entità dei tetti di spesa fissata l’anno precedente. A.P., Consiglio di Stato, sentenza n. 4 del 2014.

[56] Cfr. per tali aspetti R. BALDUZZI, Profili costituzionali, in R. BALDUZZI- G-CARPANI, Manuale di diritto sanitario, Bologna, 2013, pag. 32-33.