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Pubbl. Ven, 8 Gen 2021

La successione nel tempo delle leggi penali e processuali

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Valentina Valenti
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



Una delle questioni maggiormente complesse, sia sotto un approccio squisitamente dottrinale quanto giurisprudenziale, attiene alle gestione e al buon governo della successione nel tempo delle leggi penali e processuali. Con la differenza, però, che il diritto sostanziale gode di taluni principi del tutto assenti nel processo penale, lacuna che gli studiosi hanno dovuto colmare con il ricorso ad un principio ad hoc: il tempus regit actum


ENG One of the most complex issues, both from a purely doctrinal and jurisprudential approach, concerns the management and good governance of the succession over time of criminal and procedural laws. With the difference, however, that substantive law enjoys certain principles that are completely absent in the criminal trial, a gap that scholars have had to fill with the use of an ad hoc principle: the tempus regit actum

Sommario:  1. Il principio del tempus regit actum; 2.  La rilevanza del diritto intertemporale all’interno del processo penale: la custodia cautelare.  

1. Il principio del tempus regit actum

Una delle questioni più note e più problematiche, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, attiene al diritto intertemporale. Il noto brocardo del tempus regit actum, letteralmente significa “il tempo regola l’atto”.

Prima di addentrarsi nell’analisi e nello sviluppo del principio de quo è necessario comprendere cosa debba intendersi per actus e tempus. O meglio, a voler essere più precisi la questione concerne l’esatta individuazione di quale atto debba ricadere nelle novella legislativa intervenuta medio tempore.

A rigor di logica, esulano da tale ambito gli atti processuali già emanati la cui efficacia è esaurita; allo stesso modo non devono ricomprendersi gli atti futuri in quanto, non avendo avuto concreta manifestazione processuale, essi verranno regolati dalla disciplina sopravvenuta alla loro emanazione. Ebbene, il problema – non di poco conto – si registra in relazione agli atti c.d. pendenti, ossia quegli atti emanati sotto una determinata legge e che al momento dell’entrata in vigore della nuova riforma,  non abbiano ancora esaurito la loro efficacia. La corretta individuazione delle disciplina applicabile comporta, ovviamente,  delle conseguenze processuali, come la utilizzabilità (o meno) di determinati atti, la valenza probatoria, il diverso regime di nullità, a seconda che tra la vecchia e nuova disciplina vi sia una diversa formulazione delle ipotesi di nullità (ad esempio una nullità speciale individuata con una normativa ad hoc non presente nel codice di rito). 

Così delineata la cornice nella quale si andrà ad operare, si può comprendere come l’incidenza di tale principio abbia una indubbia valenza pratica.

Difatti, l’interpretazione del principio trova la sua genesi nell’area processuale del diritto, in virtù della quale l’atto processuale è soggetto alla disciplina vigente al momento in cui viene compiuto l’atto, anche se la sua comparsa nel codice di rito sia avvenuta successivamente all’instaurazione del giudizio.

Volendo individuare il concetto del diritto intertemporale non si può che non far riferimento ad autorevole dottrina[1] la quale ne ha offerto una  precisa qualificazione giuridica:  trattasi di “una categoria di norme che hanno il compito di regolare altre norme, pertanto definite come ius sopra iura”.

Il diritto penale si caratterizza per l’essere particolarmente afflittivo nella sfera individuale dell’individuo, sia nelle more del processo sia quando si versi in executivis. Tale afflizione non può che aumentare quando le riforme, invece di creare certezza, ingenerino il dubbio.

L’importanza del diritto intertemporale deriva proprio dalla sua problematica applicazione: una novella legislativa, sia essa di riforma ovvero innovativa, concerne sempre una pluralità di istituti che non è possibile catalogare sic et simpliciter: la riconducibilità all’alveo sostanziale piuttosto che a quello processuale comporta problematiche non indifferenti.

Ciò deriva dal fatto che il diritto penale e il diritto processuale penale sono governati da regole totalmente diverse per tutto ciò che concerne il tempus. Come noto, infatti,  il diritto sostanziale prevede due regole basilari: la retroattività favorevole delle disposizioni che apportino un beneficio al reo, l’irretroattività di tutte quelle disposizioni che apportino un trattamento peggiorativo, sia in termini di trattamento sanzionatorio, sia in termini di rilevanza penale del fatto tipico. La disciplina processuale, invece, si giova di un solo principio: il tempus regit actum, per l’appunto.

Ciò detto, se si volge lo sguardo alla disciplina delle Preleggi, questa all’art. 11 stabilisce come  la legge non disponga che per l’avvenire. Se si volesse accordare un’applicazione rigida del principio appena espresso  ci si troverebbe dinanzi una evidente compromissione di diritti e garanzie individuali poiché, sposando tale principio, non si dovrebbe ammettere, ad esempio, un’applicazione retroattiva di una disciplina favorevole al reo. Si è ben consci del fatto che tale possibilità è consentita dall’art. 2 c.p., tuttavia l’esempio si  è reso necessario per far comprendere come l’interpretazione sistematica sia doverosa per una corretta analisi delle discipline.

Proprio perché un’applicazione squisitamente letterale comporterebbe gravi violazioni, la dottrina[2] e la giurisprudenza[3], con preciso riferimento al diritto processuale penale, sono concordi nell’ammettere la valenza del tempus regit actum, seppur con talune precisazioni:  si è evidenziato come il brocardo servi a trasporre nella disciplina processuale l’efficacia immediata, cui fa da corollario il principio dell’irretroattività della legge penale. Essa, in sostanza, postulerebbe due aspetti: in primis, l’affacciarsi di una nuova legge, nel panorama giudiziario, comporta che questa regolerà il processo penale solo dal momento in cui sarà in vigore; in secundis, gli atti di un processo che abbiano visto luce con una legge nelle more abrogata mantengono la loro efficacia[4].

Di conseguenza, l’incidenza di ogni nuova norma sull’atto processuale, sia esso di invalidità, nullità, inutilizzabilità o che afferisca alle condizioni di procedibilità o, ancora, che tratti la scelta dell’imputato di accedere ai riti alternativi,  è disciplinata dalla regole vigenti al momento in cui è stato posto in essere, anche se queste ultime risultino sostanzialmente diverse da quelli vigenti all’epoca della commissione del fatto. A titolo meramente esemplificativo si pensi alla recente riforma dei riti alternativi al dibattimento. La legge 12 aprile 2019 n. 33 rubricata “Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell'ergastolo” incide su cinque articoli del codice di rito, ossia: gli artt. artt. 438, 441-bis, 442 e 429 del codice di procedura penale. 

Essa vieta, dunque, all’imputato accusato di un delitto punito con l’ergastolo di poter accedere al rito abbreviato che, come noto, comporta una secca diminuzione di pena pari ad un terzo. Si pensi, ora, agli imputati che abbiano ricevuto addebiti di tal fatta prima dell’aprile 2019 e che, sulla scorta della nuova riforma, all’udienza preliminare non potranno scegliere (il termine è prettamente voluto: non si tratta di una possibilità ma di una precisa scelta dell’imputato) il rito abbreviato. 

Per poter comprendere la portata delle modifiche in esame si immagini, invece, l’imputato che –  accusato di un omicidio premeditato o anche di un sequestro di persona aggravato –  abbia presentato, all’udienza preliminare,  richiesta del rito abbreviato anche un giorno prima dell’entrata in vigore della legge de qua.

La disparità di trattamento, la violazione del diritto dell’eguaglianza e le lesioni sulle garanzie dell’imputato sono evidenti. Ed è esattamente questo ciò che, illo tempore, ha preoccupato gli studiosi penal-processuali.

La dottrina non ha mancato di evidenziare come il problema fondamentale, alla base, sia uno: si pongono questioni di diritto intertemporale ogni qualvolta alla successione di norme processuali non si accompagni un’apposita disciplina transitoria[5].

Sul punto, però, è doveroso specificare quanto segue.

Nel linguaggio comune si è soliti utilizzare indistintamente i termini “transitorio” ed “intertemporale”, come se tra gli stessi vi fosse una interscambiabilità concettuale. Ma così non è.

La dottrina più attenta, invece, ha ben chiarito in ambito processuale la portata dell’uno e dell’altro termine. Infatti, le norme intertemporali sono quelle disposizioni di legge alle quali si ricorre quando il Legislatore non disciplini appositamente il mutamento legislativo e, quindi, deve decidere quale tra la vecchia e nuova disciplina applicare.

Le norme transitorie, al contrario, sebbene anch’esse siano strumentali all’applicazione della nuova legge, sono una categoria a sé stante, poiché contengono al loro interno la disciplina degli accadimenti che potrebbero verificarsi con il passaggio alla nuova disciplina[6].  Inoltre, esse hanno una portata temporale definita, poiché la loro efficacia si esaurisce con l’entrata in vigore della nuova legge.

2. La rilevanza del diritto intertemporale all’interno del processo penale: la custodia cautelare.  

Agevole comprendere come la tematica in esame sia di ampio respiro, poiché afferisce a due diversi settori disciplinari – sostanziale e processuale – e, soprattutto, perché le questioni di diritto intertemporale si affacciano nel panorama dottrinale e giurisprudenziale ogniqualvolta il Legislatore apporti delle modifiche, più o meno rilevanti, al settore Giustizia.  

Proprio per tale ragione, una settorializzazione risulta doverosa. Non è questa la sede, infatti, per addentrarsi a fondo nei meandri di una casistica che la giurisprudenza della Corte di cassazione offre con dovizia di particolari . Ci si limita dunque a segnalare taluni tra i principali sviluppi, rispetto ai quali, del resto, anche gli approfondimenti dottrinali sono stati particolarmente ampi ed intensi.

A tal fine, non può che privilegiarsi l’ambito delle garanzie individuali: senza paura di smentita, si può affermare come ogni novità, ogni apporto legislativo (e governativo) non fa altro che ledere, sempre più, quel coacervo di garanzie che l’Ordinamento riconosce all’ indagato e/o imputato[7].

Tra le questioni di matrice processuale ve ne sono alcune di indubbia valenza, come la tematica della prescrizione, delle condizioni di procedibilità, le ipotesi di sospensione introdotte dai vari DPCM governativi per fronteggiare l’emergenza Covid-19[8] o, ancora, la sospensione del processo con messa alla prova.

Ciononostante, la successione della legge penale del tempo risulta ancor più delicata in relazione alle misure cautelari, tematica fortemente connessa al diritto sostanziale[9].

Proprio in ragione della loro incidenza il codice di rito impone requisiti specifici per la loro applicazione. Come noto, gli artt. 273 e ss. c.p.p. impongono la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari. I c.d. pericula libertatis attengono all’inquinamento probatorio, al pericolo di fuga e alla reiterazione nel reato.

È quasi scontato affermare che la misura cautelare personale di tipo detentivo per antonomasia dovrebbe essere applicata solo come extrema ratio: ossia solo quando qualsiasi altra misura non risulterebbe idonea a preservare il processo. Parimenti scontato, a ragion del vero, è come la misura in esame sia fortemente abusata.

Purtuttavia, per ciò che interessa in questa sede, di interesse è l’art. 299. Esso dispone che le misure coercitive e interdittive (artt. 287 e ss.) siano immediatamente revocate quando risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p.

Proprio sul punto, la dottrina[10] non ha mancato di evidenziare come uno dei primi dati suscettibile di determinare modifiche nei provvedimenti cautelari sia riconducibile alle riforme legislative, attraverso le quali si sostituiscono gli elementi idonei a condizionare le scelte processuali in materia cautelare.

Il problema connesso al diritto intertemporale si registra allorquando sia già in corso una misura cautelare e  la modifica legislativa non intacchi lo spazio edittale previsto dalla fattispecie incriminante, bensì, i termini massimi di custodia cautelare ovvero modifichi il catalogo normativo dei reati ai quali può collegarsi  la misura cautelativa.

Sulla circostanza de qua si espresse la Cassazione a Sezioni Unite, nella nota senza Ambrogio[11]. Il quesito, che divenne oggetto di rimessione da parte della Sezione semplice, chiedeva se la misura cautelare in corso di esecuzione, applicata prima di legge sopravvenuta che allargasse il novero dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza esclusiva della custodia in carcerare, potesse subire modifiche solo per effetto del nuovo e più sfavorevole trattamento normativo.

La Corte, all’esito di un lungo percorso giurisprudenziale quasi ventennale, giunse ad affermare l’oramai noto principio di diritto: «in assenza di una disposizione transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione disposta prima della novella codicistica che ha ampliato il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia in carcere non può subire modifiche solo per effetto della nuova, più sfavorevole normativa». In sostanza, mediante una pronuncia totalmente opposta al tradizionale orientamento della Corte, le Sezioni Unite “trasposero” nell’alveo processuale il divieto di retroattività della modifica peggiorativa.

Ovviamente, tale proiezione sostanziale non è passata inosservata.

Gli studiosi[12], infatti, ebbero ad affermare come tale pronuncia fosse emblematica dell’ambiguità del principio del tempus regit actum,  posto a fondamento dei contrasti giurisprudenziali. Questo perché, ancor oggi,  (esso) è “invocato sia a sostegno della tesi oggettivamente più “garantista” – secondo la quale l’ ”atto” cui guardare sarebbe il provvedimento applicativo della misura, anche nella proiezione dei suoi effetti –  sia in favore dell’orientamento contrario (a detta del quale, a presentarsi come “atto” sarebbe invece la misura in se stessa, che perciò, se in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore della nuova legge le sarebbe immediatamente assoggettata, ancorché più severa)”[13] .

Non bisogna dimenticare che il principio in esame non è di matrice costituzionale. Esso può essere derogato e la giurisprudenza di Legittimità potrebbe modularlo secondo le necessità del caso concreto, poiché esso nasce dall’apporto dottrinale e giurisprudenziale per far fronte ad esigenze non regolamentate dal Legislatore.

E probabilmente, il vero punctum dolens del tempus regit actum è proprio questo: a differenza del diritto penale sostanziale, in cui il codice fornisce un apposito articolo alla tematica della  sospensione delle leggi penali nel tempo disciplinato all’art. 2 c.p., disposizioni di tal fatta non si rinvengono nel codice di rito, neanche nella sua parte “statica”, vale a dire le sezioni di codice contenenti la competenza, il regime di nullità e quant’altro possa essere applicato tendenzialmente senza particolari difficoltà.   

Infatti, se come abbiamo visto le Sezioni Unite Penali hanno risolto il caso della irretroattività in peius, nulla è stato detto con riferimento alla normativa ex post di favore.

Una risposta è arrivata proprio da parte della dottrina la quale, inserendosi nel solco dei due diversi orientamenti delle SS.UU.[14], ha ben proposto la differenziazione del diritto intertemporale, estendendo alle norme processuali cautelari le regole intertemporali previste per le norme sostanziali: divieto di applicare la norma sopravvenuta sfavorevole e obbligo di applicare la norma sopravvenuta favorevole[15].

Tuttavia, vi è un limite non di poco conto: la materia cautelare e tutta l’area processuale non può giovarsi delle regole contenute nell’art. 2 c.p. per un motivo tanto semplice quanto ovvio: la materia processuale non è diritto penale sostanziale. Essa si riconnette al momento della commissione del fatto ma non disciplina il reato.  Altrimenti non vi sarebbero stati, nel corso del tempo, tutte le questioni dottrinali in relazione al diritto intertemporale: semplicemente, questa, sarebbe stata una categoria che non sarebbe esistita.

Anche la più autorevole e dominante dottrina[16], non a caso, ha posto l’accento sulla questione ivi brevemente affrontata.  Si è affermato, infatti, come non sarebbe  utile estendere sic et simpliciter al diritto processuale tout court la garanzia offerta dal combinato disposto dell’art. 2 c.p. e dell’art. 25 comma 2 Cost., pretendendo di applicare il medesimo standard di tutela a tipologie di norme spesso diverse. Se occorre andare oltre i già ampi confini della nozione di «fattispecie allargata di garanzia», identificata da tempo in dottrina come la sintesi di tutte le norme che, interagendo con la descrizione del fatto contenuto nella singola disposizione incriminatrice, contribuiscano a definirne il perimetro applicativo, d’altra parte non si può trascurare la diversa natura e funzione delle previsioni del codice di rito.

Dinanzi ad una materia così complessa, così intrinseca di diritti personalissimi da salvaguardare, uno per tutti la libertà personale, la soluzione non pare di facile approdo.

Né la semplice affermazione di protendere per un orientamento piuttosto che l’altro aiuta la risoluzione delle problematiche ivi sottese. La legalità dovrebbe orientare l’agire governativo nella predisposizione delle regole di governo delle pene e del processo.  

Non può, dunque, che concordarsi con quanti abbiano evidenziato come sia allora necessario, di fronte ad una legalità processuale da più parti indicata come debole, liquida e obsolescente, rafforzare lo statuto della legalità tout court, perché questa presidi non solo i reati e le pene, ma anche le regole procedurali con cui si svolge l’accertamento cui consegue la punibilità di un fatto[17].


Note e riferimenti bibliografici

[1] MAZZA, O., La norma processuale penale nel tempo, in G. UMBERTIS e G.P. VOENA (DIRETTO DA) Trattato di procedura penale, diretto da, Milano, 1999, p. 94. La definizione, a sua volta è ripresa anche da TRINTI G., Principio del tempus regit actum nel processo penale ed incidenza sulle garanzie dell’imputato, in Dir. Pen. Cont., 9/2017, p.16.

[2] GAROFOLI.V., Problematiche tradizionali e incaute innovazioni legislative,  Giuffrè, Milano, 2006, p.110. L’autore opera un richiamo dottrinale, sulla tematica, a MAZZA, O., Principi e questioni di diritto intertemporale e transitorio, in Cass. Pen., 2000, p. 2531.

[3]Tra le tante, Cass., sez. II pen., sent. 16 ottobre 2019, n. 44678; Cass., 16 giugno 2006. n.2003; Cass., SS.UU., 7 aprile 1998, n. 4165. In tale ultima pronuncia i Giudici espresso il seguente principio di diritto: «Qualora nel processo si verifichino innovazioni legislative in materia di utilizzabilità o in utilizzabilità della prova, il principio del tempus regit actum deve essere riferito solo al momento della decisione e non a quello dell’acquisizione della prova, atteso che il divieto di uso, colpendo proprio l’idoneità di questa a produrre risultati conoscitivi valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, interviene allorchè i procedimento probatorio  non ha trovato ancora esaurimento, di modo che il divieto inibisce che ai dati probatori, pur se acquisiti con l’osservanza delle forme previste dalle norme previdenti, possano avere un qualsiasi peso nel giudizio»

[4] BELLAVISTA G. – TRANCHINA G., Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1987, p. 35.

[5] CORVI, P. (A CURA DI), Le impugnazioni straordinarie nel processo penale, Giappichelli, Torino, 2016.

[6] GAITO, A., Procedura penale,  Wolters Kluwer,  Milano, 2018, pp. 25 ss;  medesime conclusioni, sempre sulla distinzione tra norme transitorie ed intertemporali si v. anche GAMBARDELLA, M., Lex mitior e giustizia penale, Giappichelli, Torino, 2013, pp.33-34.

[7] Senza pretesa di esaustività, si pensi solamente alla Riforma Orlando: le modifiche alle tecniche di redazione dell’atto di gravame (che lo hanno reso molto simile all’impugnazione mediante ricorso per Cassazione), il regime delle intercettazioni, l’esclusione dal concordato in appello dei delitti rientranti nel catalogo ex art. 51- comma 3-bis c.p.p., i reati sessuali, e tutti i reati consumati da soggetti qualificati come delinquenti abituali, professionali o per tendenza: probabilmente ad un occhio non attento non sembreranno modifiche importanti, tuttavia ogni modifica che renda più difficoltoso all’indagato e/o imputato l’esperibilità dei rimedi o, ancora, gli vieti determinate scelte ha una concreta portata in termini di lesione delle garanzie difensive. Non a caso la riforma de qua è stata accolta tutt’atro che calorosamente dalla dottrina. Per chi è interessato, sul punto, si s. SPANGHER, G., La Riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in Dir. Pen. Cont., in http://www.ristretti.it. Emblematica la chiusura al contributo, dopo l’analisi della riforma: «Si ha la sensazione che, forse per effetto del perdurante e difficile momento socioeconomico e politico, connotato da un deficit di legalità, che vive il Paese, la giustizia penale non sappia superare la contingenza, dando la sensazione di essere in perenne affanno e di arrancare, incapace di superare una permanente precarietà. Manca un respiro comune e un orizzonte condiviso; restano troppo diversi gli approcci nel pianeta della giustizia penale. Una avvocatura opaca e troppo sulla difensiva, quasi rassegnata, una magistratura troppo spesso autoreferenziale, che tende a modellare il processo con la propria giurisprudenza e con le prassi, nonché con vari strumenti di soft law (decreti, circolari, protocolli, modelli organizzativi) e un legislatore incerto ed ondivago ci consegnano uno scenario non esaltante».

[8]Sul punto vi una copiosa, per quanto recente, letteratura. Si segnala SCALFATI, A. – LOMBARDI, F., Termini processuali sospesi nell’emergenza sanitaria: successione di leggi nel tempo e l’enigma del dies ad quem, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 5; MALAGNINO, F., Sospensione dei termini nel procedimento penale in pandemia da Covid-19, in Giurisprudenza Penale Web, 2020 https://www.giurisprudenzapenale.com, MADIA, N., Tre questioni problematiche in tema di sospensione della prescrizione connessa all’emergenza Covid-19,    in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 5. 

[9] Esse, insieme all’esecuzione della pena e le prove sono stati catalogati dalla più illustre dottrina come norme processuali a rilevanza sostanziale. Il rifermento, ovviamente, è a GALLO, M., Interpretazione della Corte costituzionale e interpretazione giudiziaria (a proposito delle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria), in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1965.

[10] GIARDA A. – SPANGHER G., Codice di procedura penale commento, vol. I, Wolters Kluwer, Milano, 2017, pag. 3155.  

[11]Cass., SS. UU., 31 marzo 2011, n. 27919

[12]CHIAVARIO, M., Norme processuali penali nel tempo: sintetica rivisitazione (a base giurisprudenziale) di una problematica sempre attuale 2017,  in La Legislazione Penale, 2017, p. 9 nota 19,  http://www.lalegislazionepenale.eu.

[13] Ibidem.

[14]Il riferimento è due sentenze in particolare: le SS.UU Ambrogio in sostanza hanno affermato come  sopravvenienze legislative non si dovrebbero applicare mai (né le favorevoli, né le sfavorevoli). Se invece conta anche il momento dell’esecuzione – come le medesime Sezioni Unite hanno ritenuto nel passato con la sentenza DE Marco de 1992, si dovrebbero applicare tutte le modifiche normative indipendentemente dal loro contenuto di favore o meno.

[15]APRATI, R., Ius superveniens favorevole e custodia cautelare, in Treccani Giuridica https://www.treccani.it.

[16] CONSULICH, F., Actus regit tempus? La modulazione della legalità intertemporale all’intersezione tra diritto penale e processo, in Discrimen, 2020, p.32. L’autore riprende e richiama il pensiero della dottrina dominante, quale MICHELETTI, D., Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, 2006.; GARGANI A., Dal Corpus delicti al Tatbestand,  1997,  Giuffrè, p. 473;  NUVOLONE, P., I limiti taciti della norma penale, Palermo, 1947, p. 21 ss.

[17] Ibidem p. 5.